lunedì 30 aprile 2012

The Moon – Lunatics (Recensione)

Uno stupendo viaggio sonoro intorno al mondo brit, al summerset alcaloidoso Beatlesiano e grandi falcate nelle playlist d’estimatori a tutto raggio del beat colorato, di quello che non abbassa mai la guardia – menomale – e tantomeno lo sprint ottimista della sua caratterialità; a proporcelo sono i friulani The Moon, due chitarre e voci, un basso ed una batteria che fanno degli anni sessanta il punto di partenza e delle rivoluzioni sonore di seconda dichiarazione inglese il fuoco d’arrivo da proiettare nel poi, una bellissima circolazione d’arie “around Oasis” che rimane difficilissima ignorarne la presenza e addirittura la dolce potenza.
Lunatics” è un dieci tracce dove non manca nulla, dalle parallele vocali perfettissime alle chitarre elettriche che impastano, ricamano e completano un sound già di suo tonico e british al 101%, un registrato che tra le righe emana autorevolezza sin dalle prime battute, suoni da viaggi autostradali con loud a palla, ottime simbiosi che illuminano – qua e la – la silhouette androgina di Brian MolkoRose in the land of tears”, “Summer”, attraversano le strisce pedonali della Abbey RoadTake care”, Long day”, “I just wanna fly”, si fanno un due minuti e ventitré secondi di pogo punkyes “Tetris” e ammorbidiscono l’amaro nella ballatona strappa palinsesto radiofonico “Normal people” che potrebbe far riappacificare i Gallagher Brother’s dietro ad un buon boccale di spumosa Imperial Stout e rutto annesso.
I The Moon appartengono a quello strano precetto che detta che se hai veramente l’arte del suono nel sangue, se hai quell’impronta incastonata nelle corde emozionali della musica, puoi essere tanto o nessuno, ogni tua cosa forgiata nella zucca nasce già capolavoro. Capolavoro derivativo? Capolavoro accomodante? Che vi frega? Questo Lunatics è un capolavoro e basta!

Voto: ◆◆◆
Label: Shillutti Records 


sabato 28 aprile 2012

Marylin Manson - Born villain (Recensione)

Brian Warner è un nome altisonante, uno dei grandi protagonisti della musica alt-commercial degli anni '90, nel bene e nel male. Il suo grande svantaggio è stato quello di aver puntato il suo successo sulla propria figura piuttosto che valorizzare una musica che, tutto sommato, nei suoi limiti, ha conosciuto degli episodi molto validi. Dopo Golden age of grotesque Warner non ha cambiato completamente stile come affermato da molti, anzi ha cominciato sempre più a fare quello che avrebbe sempre voluto. Glam rock (v. Mechanical animals). Perchè fondamentalmente Brian Warner è sempre stato tale. L'appoggio del musicista Trent Reznor in alcune sue vecchie produzioni, il mondo del music-biz e tanti altri fattori hanno tentato di etichettarlo in modi scorretti chiamandolo artista metal o peggio ancora artista industrial-metal (genere che in sostanza non esiste). E anche questo Born villain, che non aggiunge e non vuole aggiungere molto al discorso principale, prosegue sulla strada del Glam presentando un rock fatto di mezzi tempi e di ballate, i temi sono molto autobiografici, parlano di storie di vita e delle persone. Non è un disco innovativo ma è un disco molto buono che prova che Warner vuole fare quello che sente di fare e non importa se siamo lontani dalle idee di dischi storici come Portrait of an american family, Antichrist Superstar, Mechanical animals e Holy wood...è meglio così, è meglio non alimentare qualcosa che non esiste e che viene spacciato per tale. E' meglio fare semplicemente del rock, di derivazione certo, ma quel che conta è che sia buona musica. La voce c'è e quella da sola porta avanti il resto. Il nostro è diventato, più che un cantautore, un cantore allo stesso modo di chi, come Tim Skold, anch'egli nativo Spooky Kid, ha dimostrato con Anomie. E i due percorsi sono molto simili. Il grande e unico difetto di questo Born villain è che, rispetto ai primi lavori, la formula è sempre la stessa: i brani sono un po' tutti uguali. Hey cruel world è la risposta a (This is my) Elephant di Skold, è un pezzo grandissimo, costruito a tavolino ma che centra il bersaglio e che mostra l'artista maturo. Ma già a partire dalla successiva No reflection tutto prosegue sullo stesso, identico percorso per la lunghezza di 14 brani. Certo, alcuni di loro sono più ballad, altri più rock, ma la formula è quella. Dipende come sempre da cosa l'ascoltatore cerca. Dategli più di un ascolto e trovate la vostra via. 

Voto: 
Label: Cooking Vynil

venerdì 27 aprile 2012

Spiritualized - Sweet heart, sweet light (Recensione)

Non credo che, scientificamente, esista qualcosa di simile, eppure, ascoltando “Sweet heart, sweet light” il pensiero dominante è stato quello di una distorsione al cuore. Un dolore quasi dolce, capace di dilatare il respiro e i movimenti. Il nuovo degli Spiritualized è così: canzoni che colpiscono come fitte rapide e intense, seguite da altre, la cui lentezza delicata è paragonabile alla calma cui ci si abbandona dopo uno sforzo imprevisto. Proprio loro che ci avevano abituati a ben altre distorsioni, quelle delle proprie chitarre in “Ladies and Gentleman we are floating in space”, non assenti nell'ultimo album di Pierce e soci, ma immerse ancor di più nelle sognanti atmosfere di uno space rock che sa essere malinconico e spensierato al tempo stesso.


“Huh?” è la spiazzante partenza – archi e fagotti dall'amena eleganza campestre – di un viaggio psichedelico che procede verso “Hey Jane”, brano perfettamente bipartito tra incipit strutturato con ritmiche che costringono a ballare e il puro delirio di una jam session fumata e sbronza nella seconda parte. Si prosegue poi tra momenti di quiete in forma di ballad (“Little girl”, “Life is a problem”, l'emozionante “Too late” che è insieme ascesa mistica e sconforto terreno) che si alternano al totale discioglimento di ogni nostra certezza in brani dai suoni acidi. Esempio lampante: “Get what you deserve”, un ronzio che arriva da lontano, la batteria soffocata e sottomessa alle profezie della voce e alle chitarre ipnotiche. O ancora, “Headin' for the top now”, in cui la ripetizione di sintagmi sonori sposa perfettamente i numerosi accenni di deviazione dal percorso precostituito ad opera di fiati e tastiere. Quando Mr. Spaceman innesta alle sue distorte ossessioni la spiritualità dei cori soul, il risultato è un pezzo come “I am what I am”; quando invece le chitarre si addormentano, ciò che resta è sangue e anima, preghiera. John Lennon benedice dall'alto gli Spiritualized per aver scritto “Freedom”, il piano che scandisce i versi iniziali di “Mary” ruba la precisione metodica ad un cuore fedele che recita il rosario dell'attesa sul finire del giorno. Per sconfinare poi in quel crescendo di melodia e introspezione a viso scoperto rappresentato da “So long you pretty thing”, ultima stazione di una via crucis che, come ogni viaggio tra le pieghe dell'anima, non può non procurare dolore. Ma non esiste dolore più splendido di una distorsione al cuore.


“Sweet heart, sweet light” non è un album dominato dai contrasti tra dissolutezza psichedelica e bisogni ascetici, ma la luminosa icona che dimostra che perdersi, ritrovarsi ed elevare se stessi siano passi consequenziali tra loro. Salvo poi smarrirsi ancora e, come in un loop spirituale, ricominciare da capo: esattamente ciò che consiglio di fare, per mille o più volte, con l'ascolto di quest'album bellissimo.

Voto: ◆◆◆
Label: Double Six Records



giovedì 26 aprile 2012

Alberto Donatelli – Arcobaleno di profilo (Recensione)

Non è un disco che vi fa sentire debole e disorientato, non fermatevi a “Rock on” e al suo intreccio heavy metal che apre il tutto, dietro queste note e parole non c’è un chitarrista fagocitato dalla sua individualità rocker, ma un poeta urbano armato di dolcezza e amplificatore che scrive canzoni d’amore e d’altro; “Arcobaleno di profilo” è il terzo lavoro discografico del musicista cantautore romano Alberto Donatelli, tredici tracce che raccontano, descrivono e suonano punti di forza e debolezze interiori a metà strada tra atmosfere alla Piviero o Ligabue e l’anima indomita di una stella cometa che riporta in avanti la magnificenza di un mai scordato Massimo Riva, tredici percorsi che senza stravolgere nulla nella musica contemporanea, lasciano a fine corsa la saziata consapevolezza di aver passato circa cinquantuno minuti tra belle canzoni e altrettante riflessioni.
Il vero valore aggiunto di questo registrato non è la potenza sonora, anche perché Donatelli insegna che se uno volesse fare lo spaccone con la chitarra sarebbe la dimostrazione di un vuoto a perdere, ma è la sorpresa di una bella poetica che impazza in largo e lungo il cerchietto di plastica, senza l’urlo e lo strepito della risonanza rock intesa come siamo abituati ad intendere; quasi tutte le tredici song hanno la vitalità radiofonica di possibili hit, e quasi tutte si legano al rito della “ricanticchiabilità” ad ogni momento della giornata (notte inclusa), un piacere sonoro che fa compagnia come fosse la colonna sonora dei tuoi pensieri seri o distratti che accompagnano le tue fissazioni.
Un disco che non ci nega nulla, si apre come un cuore gonfio e si chiude con uno spirito spalancato, l’atmosfera bisbigliata alla Blasco “Piove odio”, l’elettricità disillusa della vita “Quello che mi pare”, il blues slogato “Ti hanno detto (Oh yeah!)” , la bella spennata acustica che apre la ballata pensierosa “E’ tutto qui! ” fino al trionfo arioso del suono da grandi spazi sognanti e aperti dove Ligabue ha lasciato da tempo le orme e il respiro di un’America lontanamente vicina “8 Stagioni (Gun version) ”.
Si, veramente un disco che non ci nega nulla, tanto meno la sua innegabile e ventilata libertà.



Voto: ◆◆◆◇◇
Label: AD Music 


martedì 24 aprile 2012

AAVV - Simmetrie, un omaggio agli Scisma (Recensione)

Non è che si sentisse il bisogno impellente di tributare un disco di cover agli Scisma, e un po' come per tutte le compilation del genere non siamo davanti a uno di quegli album che ti cambiano la vita. La stessa parabola degli Scisma, dopotutto, si consumò nel breve giro di due lavori ufficiali, più due antecedenti autoprodotti ('Pezzetti di carta' del 1993 e 'Bombardano Cortina', 1995). Negli anni '90 qui in Italia era ancora relativamente lontano il tempo in cui sarebbe stata schiaffata l'etichetta 'indie' un po' ovunque; quello era - anche - il periodo dell''alternative' di Pixies, Breeders, Belly, e in generale era facile che chi non suonasse cose omologate al mainstream radiofonico nazionalpopolare fosse taggato sommariamente con quest'altro epiteto da calderone.


Benvegnù e soci, sospesi fra elettricità e sintetico, si ritrovarono a pubblicare per il gigante EMI - paradosso solo apparente - due lavori artisticamente più che dignitosi e ben confezionati, da cui questo tributo saccheggia a piene mani (cinque brani da 'Rosemary Plexiglass' e ben nove da 'Armstrong' del 1999, che ne conteneva dodici in tutto e che, all'epoca, fu maltrattato da diverse penne). Gli Scisma, spaccati in potenza già nel nome, lo divennero di fatto all'inizio del nuovo millennio, senza troppi clamori; semplicemente lasciarono che calasse il silenzio su di loro e che se ne prendesse atto. Più tardi, col senno di poi, in seguito all'ultimo concerto di commiato del 2003 e agli albori dell'avventura solista e cantautorale di Paolo Benvegnù, gli Scisma affermarono di essersi divisi ''per troppo amore''.

A Mag-Music, come per il precedente ottimo tributo (in vita, per di più) a Il Santo Niente del 2011 (per il quale Marco Gargiulo aveva raccolto i contributi, fra gli altri, di Giorgio Canali e Rossofuoco, Ilenia Volpe, Tying Tiffany, Lilies on Mars, Marco Campitelli di The Marigold) vanno riconosciuti due piccoli grandi meriti: il primo è quello di aver proiettato l'occhio di bue su un pregiato ma trascurato passato prossimo musicale; il secondo è quello di aver offerto spazi ''altri'' di confronto agli artisti convolti. In particolare, è una bella prova l'apertura dell'album con 'L'amour', sognante e avvolgente, coverizzata dai novaresi Il Disordine delle Cose. I Public danno una godibile rilettura di 'L'innocenza' in chiave elettroclash, e l'elettronica la fa da padrone anche nella versione più sensuale e sbarazzina di 'I Am the Ocean', rielaborata dai pescaresi Glitterball. Notevoli Mimmiz, con Max Zanardi (Deasonika) che si sostituisce al timbro femminile di Sara Mazo e colora 'Troppo poco intelligente' di tinte cupe e morbose, e ottimi i NORMAN, di Treviso, che in 'L'universo' ripetono l'inclinazione psichedelica dell'originale, rifinendola con coretti à la 'Barbara Ann'. Da brividi Paola ''Dilaila'' Colombo, voce energica e corposa dei milanesi Dilaila: percussioni sghembe, piano e chitarra divorano l'etereo gioco di voci Benvegnù-Mazo in 'Simmetrie', e ne fanno una nuova canzone, ricca di pathos carnale.

Chiude sobriamente Dilis, campano, con la sua lettura intima, elegante e asciutta di ''L'equilibrio'', cantando: «Secoli su secoli dimenticando il mondo, e ancora secoli su secoli dimenticando il mondo, con te». Non dimentichiamoci degli Scisma.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Mag-Music



lunedì 23 aprile 2012

Jules Not Jude – Tuesday? (Recensione)

Sono volati dalle voglie d’essere grandi ad essere un certo punto di riferimento underground per molte altre band in un batter di ciglia, i bresciani Jules Not Jude – dopo una fittissima palestra live in tutta Italia ed Europa – in attesa del loro nuovo album che vedrà luce il prossimo anno, tanto per non far raffreddare il worming del buon successo ottenuto, danno alle stampe quest’Ep, “Tuesday?”, quattro veloci tracce di passaggio, che offrono una valida testimonianza circa la nuova rotta sonora della band, quell’atterraggio mid-morbido in territori indie-wave, in quelle alternanze avvolgenti e meno psichedeliche rispetto il passato che investono un ascolto movimentato, esponenzialmente in viaggio verso lidi Embryo, 10p Invaders, Franz Ferdinand e Belle And Sebastian per un atmosferico e progressivo rinnovato talento “Tuesday?”.
Con Andrea Abeni degli Annie Hall che mette lo zampino collaborativo nella field-ballad tutta nuvole e Nik DrakeJ” parte la retrospettiva della seconda parte dell’Ep che in un battibaleno finisce la sua corsa stritolato negli ingranaggi electroclash epilettici di “Tuesday? RMX”, scossa elettronica che con la complicità degli amici Pink Holy Days chiude questo lavoretto non male per essere un progetto di transizione tra passato e futuro di questa band lombarda.
Tutto è sprint, veloce, istintivo e supersonico come un’improvvisazione esterofila ma che brilla di luce propria, accecante, già faro per le moltitudini organizzate e non dei sotterranei alternativi che stanno sotto.

Voto: ◆◆◆
Label: Dada Disco/Costello Records




domenica 22 aprile 2012

Il Sogno Il Veleno - Piccole Catastrofi (Recensione)


 Alex deve avere almeno un rimpianto nella sua giovane vita: quello di non aver potuto vivere gli anni '60.
Avrebbe voluto viverli di persona, senza l'aiuto dei racconti o dei video d'epoca, senza guardare foto sbiadite dei suoi familiari oppure dei divi dell'epoca.
Magari vorrebbe uscire e, andando al cinema, scoprire che è appena uscito "Jules e Jim".
La cosa ci accomuna, devo dire, anche se le ragioni sono molto differenti, così come i rimpianti che per Alex, se vivi, sono asciutti, distaccati.
Piccole Catastrofi, questo è il titolo del primo Cd de Il Sogno Il Veleno (in precedenza c'era stato Di Stelle in un caffè, un mini con 6 pezzi) è intriso di riferimenti agli anni del boom economico, che si contrappone in maniera stridente allo squallido momento che st(i)a(mo) vivendo ora.
Riferimenti che ritroviamo nelle liriche e negli arrangiamenti.
Si parte con la deliziosa Nouvelle Vague, documento "programmatico" dell'intero CD, aperto riferimento a quella "nuova ondata" di registi di cui nel testo si declamano nomi e film "e passo i miei giorni guardando / dei film che neanche comprendo/godard, truffaut, rivette, chabrol,resnais, hiroshima mon amour!" dove non manca, come in tutta l'opera, una sottile amarezza di fondo "cammino a volte cantando di come sia bello il mio mondo non faccio niente, non mi lamento mi piace ma non durerà".
All'epoca in cui ci fa immergere Alex, quando la Tv era in bianco e nero e di canali ve níerano solo 2, venivano trasmessi gli sceneggiati ed ecco che arriva la storia de Il Tram, "a un passo dal saper chi è l'assassino/mentre la legge inchioda il fattorino/non resta che ripetere la scena/ma capo questa volta non si scordi la pistola!".
Bistrot ci racconta una storia finita male, musicalmente vicina a Capossela "sapendoti lontana, pensando a ciò che è stato/non me la passo bene, come uno straccio usato/ c'è sempre questo whisky a farmi compagnia/a dirmi che c'è ancora una gran malinconia/e così, in mezzo ai tuoi perchè/ed io qui tra l'alba ed un caffè/accendo il mio tabacco e intanto penso a te".
E tra Le Cose Importanti, "quelle che non si dimenticano maiî, ci sono anche ìRenzo Palmer e gli sceneggiati della Rai".
Ancora amarezza, stesa su un tappeto sonoro vicino ai La Crus più intimi e minimali, fatto di poche note di piano, accompagnate da una sezione di archi, in questo che è uno dei punti più alti del CD "a pensar male si fa bene, lo dicon tutti /però che vita triste pensar male di se stessi,/a fare finta di stare con i matti/senza capire che in realtà si sta coi fessi!".
Sound a la H. Mancini e storia sullo stile del compianto Buscaglione e arriviamo a Storia quasi Amore "ma la pistola lei puntò/all'uomo che disonorò/e un colpo secco poi il suo cuor fermò / cadere un altro corpo lei guardò!/di morte lei fu circondata /quando capì che era finita /ma un colpo in canna a lei restava:/ tre cuori a terra senza vita..!"
In quegli anni uno dei giornali più diffusi era Paese Sera, storico quotidiano di sinistra, come ci ricordano le parole di Alex: "era maggio e c'era il sole,/per le strade le parole di rivoluzione /la bandiera e il suo colore / rosso di liberazione dà la direzione".
E, su un sound che sarebbe piaciuto a Morandi, si continua con citazioni d'antan mentre, nel finale, non manca ancora una volta, una nota di amarezza "1961 e Fellini al cinema: la dolce vita/musicisti e ballerine dentro ai tabarin e luci al neon/in bianco e nero/grida e applausi nei caffè all'aperto, lungo via veneto/se potessero sapere, se potessero vedere/quello che ora c'è".
Ci avviamo verso la conclusione con Favole, le cui note sembrano uscire dai titoli di coda di un programma, manco a dirlo, di 50 anni fa o da quelli di una commedia all'italiana.
Seguono Viola ("Viola, con quegli occhiali da modella francese degli anni '60") e "Signora in Foulard Nero, 2 canzoni più "convenzionali" e unici momenti deboli, soprattutto la seconda che risente di arrangiamenti troppo invadenti.
A far da contraltare, giunge l'ultimo brano, apice lirico dell'intera opera.
A metà anni '60 Pasolini girò il nostro Paese, intervistando la gente comune con domande su sesso, amore, costume per capire come l'Italia ed i suoi abitanti stavano cambiando.
Ne uscì un ritratto contraddittorio dell'Italia dell'epoca a cui il grande Pierpaolo diede titolo Comizi D'Amore. Un brano musicalmente scarno, che ritorna dalle parti de Le cose importanti, con solamente piano e archi a drammatizzare il tutto: "comizi di uomini e d'amore,/di lacrime e sguardi di dolore /Pierpaolo non arrossire,/sorridi e dimentica il tuo male".
Uno sguardo al passato, quindi, quando si era più ingenui ma anche più "genuini", quando le recensioni venivano scritte con la Olivetti 32 e non con l'ipad o l'iphone.
C'è da ringraziare Alex per questo viaggio a ritroso; e possiamo farlo prestando semplicemente orecchio e dando fiducia a queste Piccole catastrofi, in un'epoca in cui si è minacciati da quelle ben più grandi, a cui, ahimè, sembra essere quasi abituati.

Voto:
◆◆◆◇◇
Label: Red Birds Rec



sabato 21 aprile 2012

Teodasia – Upwards (Recensione)

Si affacciano sulla scena ufficiale i veneti Teodasia con il disco “Upwards”, disco di passione e fiamme simphonic metal, esuberanza sonora e vocale che sfreccia a mille tra le più variegate sensazioni – cinematiche e a tratti progressive – d’ascolto; dodici voli pindarici e metallizzati che hanno una missione precisa, cercare di subissare le coordinate di volo d’Epica, Nightwish o dei nostrani – tra i tanti – Elvenking, e loro ci riescono, la loro infinita lotta tra il bene ed il male, i loro spazi epici e irraggiungibili di fantasy sono tra le corde vocali strabilianti di Priscilla Fiazza, la sacerdotessa officiante di questo disco d’aria, fuoco e acqua, ed è una guerra già vinta in partenza, con quella forza mistica di fascino e potenza che non lascia debiti espressivi o tantomeno d’insufficienza coreografica virtuale.
Pelli, chitarre volanti, sintetismi aerei, rock, metallo e poesia stratificata fanno di quest’album un volo infinito in qualche finisterre o Terra di Mezzo, un mondo a parte che si costituisce sotto l’ombra fantastica di panorami e contenuti “fantastici” che omaggiano la frenesia maxima di essere altrove, in alto o in largo nell’infinito delle leggende; power metal dolce e amaro, doppie pedaliere e sferragliate elettriche che squarciano il cuore “Temptress”, atmosfere destabilizzanti e marziali “Lost words of forgivenes”, sinfonie poetiche e sognanti che portano un raggio di luce “Clarion call”, momenti di tristezza solitaria “Aurora” o i Manowar che fanno ectoplasma irraggiungibile in “Pandora’s knight”.
Priscilla Fiazza voce, Nicola Falsone basso, Fabio Compagno chitarre, Francesco Gozzo batteria e Michele Munari alle tastiere, arrivano con un disco che fa rumore, a suo modo spirituale e con tutti i crismi messi in fila per allargare le percezioni di tanti orecchi ovattati e oramai assuefatti al niente, a quei voli radenti o ai non decolli che la musica d’oggi esprime; loro, questi elfi alati tra divinità della ionosfera e alieni d’altri tempi traghettano l’ascolto in un pathos senza confini, in una dimensione interiore a 3D, in quell’ immaginifico rapporto d’amore tra il metallo e la prosaicità degli alti, supremi spazi “Eulogy" Teodasia, e addio alle catene dell'anima.

Voto: ◆◆◆
Label: AB Records 


venerdì 20 aprile 2012

Sigur Rós - Valtari (Recensione)

Sigur Rós - Valtari Metafisica. Uno degli intenti di questa disciplina consiste nello studio dei principi primi sotto il profilo qualitativo, a differenza della matematica che ne studia la quantità, o della fisica che ne studia l'aspetto naturale. Lo scopo ultimo è quindi la verità in se stessa. [Cit]

Sono passati diciott'anni da “Fljúgðu” (Volare), il singolo che trasformò i petali di Sigurrós (Rosa della Vittoria) in maestose ali, creando un nome ed una figura universale per chi esplora i meandri della psiche e contemporaneamente dello spazio, nella propria stanza. Quasi due decenni tra studi archeologici ed esperimenti chimici verso se stessi, una costante scoperta, una continua ricerca intima verso la formula matematica dell'orgasmo acustico.

È “Valtari” (Rullo Compressore) il titolo del sesto reperto rinvenuto dagli islandesi Sigur Rós, anticipati qualche mese prima dal doppio live album “Inni”. Come anticipato dalla band, l'album è molto più elettronico, da subito si nota un passo indietro, infatti riaffiorano in mente album come “Von” e sopratutto “( )”. Un'ulteriore segnale scoraggiante è il numero di tracce (otto) e la durata dell'album di circa un'oretta, un tantino misero dopo quattro anni di “stop”. Come in ogni album dei Sigur Rós va scovato il giusto luogo, stato d'animo ed orario (consiglio di lasciare sempre il volume al massimo, o non saranno percepibili le infinite sfumature meticolose presenti nell'album, vero punto di forza) per ascoltare il disco, altrimenti l'album apparirà piatto e soporifero. Il primo ascolto servirà per piangere l'assenza dell'inimitabile post-post-rock Sigurósiano, nel secondo ascolto (anticipato da un giorno di solo Mogwai per ristabilirci) l'orecchio si affilerà come una Katana e l'album prenderà tutt'altra piega, per alcuni, per i più post-rockiani e meno minimalisti/sperimentali il secondo ascolto forse non ci sarà. Per fortuna non vi è traccia d'inglese bensì “vonlenska” (speranzese) lingua creata da Jón Þór Birgisson (Jónsi), sopraffine come sempre la sua interpretazione canora, accompagnata questa volta da donne e bambini presenti fin dal primo “Ég anda” (Respiro), inizio ambient-afrodisiaco, inizia subito così un classico viaggio alla Sigur Rós in cui ti lasci cullare e massaggiare dal vento Ma! Veniamo dirottati da un finale inaspettato, quasi da film horror, che ci risveglia per l'arrivo del singolo “Ekki múkk” (letteralmente: Nessun Gabbiano, trattasi in realtà di una burla contro i giornalisti che chiedevano in continuazione il significato del titolo che sarebbe "not a sound"), un gran bel regalo per Inga Birgisdóttir sorella di Jónsi autrice del video. Si nota una tecnica di registrazione rispolverata dal giovane pianista Nils Frahm, già molti altri oltre i Sigur Rós hanno deciso di usufruirne. Ora “Varúð” (Attenzione) il pezzo migliore dell'album senza dubbio, completo e strutturalmente fantastico, una miscela drammaturgica, un alternarsi di cori e sciame di anime, vagano senza via per l'intera traccia. Sicuramente molto coraggiosa la scelta di pubblicare “Valtari”, un album dove lo strumento dominante è l'inverosimile voce di jónsi, tutto prosegue bene e lineare quasi un concept album, una sfida rischiosa, una scintilla e l'album cade, forse la fragilità di questo disco lo rende ancor più degno d'attenzione. Sognando su onde ecclesiastiche “Dauðalogn” (Morte di Calma) e “Varðeldur” giungiamo a “Valtari” (Rullo Compressore) otto minuti e passa di tutto o nulla, esagerando riproponendo ancora gli stessi temi e stessi profumi, nauseandoci. Ulteriore pecca in chiusura con “Fjögur píanó” (Pianoforte a Quattro) una ninnananna ripetitiva interrotta malamente nel cedere posto agli archi che lasciano cadere sul palco solo false speranze di un finale che non sboccia.

Ci fa riflettere Georg “Goggi” Hólm (bassista) dichiarando: “questo è l'unico album dei Sigur Rós che riesco ad ascoltare con piacere a casa”. Non c'è dubbio che “Valtari” scatenerà atroci guerre tra i fan, mentre il mio unico dispiacere non riguarda l'album in prima persona, bensì l'eclissi che ne consegue, molti valide band ed artisti islandesi hanno pubblicato album fantastici (For A Minor Reflection – Of Monsters and Men – Sin Fang e molti altri) ma il mondo sembra vedere nel panorama islandese sempre gli stessi artisti, posso assicurarvi che c'è molto molto di più.

La soggettività in questo album è massima, il mio parere è il seguente: un gran bell'inizio che va man man dissolvendosi, sembrerebbe quasi per pigrizia, quindi maggiore rabbia, maggiore delusione, più lo si ascolta più ci si pongono domande, si scopre puntualmente qualcosa di nuovo, sensazioni più delicate, nuovi profumi, nuovi panorami e nel frattempo sei stato spudoratamente ipnotizzato.

Voto: ◆◆◇◇◇
Label: Parlophone Records



giovedì 19 aprile 2012

Offlaga Disco Pax - Gioco di Società (Recensione)

Offlaga Disco Pax - Gioco di SocietàGioco di società è la terza attesissima fatica firmata Offlaga Disco Pax, trio emiliano composto dal paroliere Max Collini, Enrico Fontanelli e Daniele Carretti. L'album prende le distanze dai precedenti due lavori (Bachelite e Socialismo Tascabile) non tanto per quanto riguarda la formula, un reading pop scandito con sonorità evanescenti a sottofondo di un non-cantato che vuole raccontare il proprio punto di vista sulle cose in maniera talmente netta e chiara da essere privo di qualsivoglia melodia. Una formula vincente, già sperimentata in chiave rock dai Massimo Volume,che si arrocca su una sorta di monologo diretto all'ascoltatore senza mediazioni sonore nel messaggio ma che tiene la musica a tappeto della comunicazione stessa. Le distanze di Gioco Di Società dai precedenti lavori sono determinabili in termini di contenuti. Gli Offlaga Disco Pax abbandonano infatti le tematiche nettamente politiche ed affettive e spostano il racconto su di un livello interiore, più profondo e se vogliamo anche più libero, mescolando questa volta i temi cari al trio in modo tale da superare il confine tra l'uno e l'altro di volta in volta in maniera impercettibile. A livello musicale l'attenzione si sposta sul basso e sulle tastiere, per stessa ammissione di Daniele.
Si parte con una vera e propria "Introduzione", immediata e delicatissima che conduce direttamente alla seconda traccia "Palazzo Masdoni" un ricordo nostalgico che si arrampica sui muri di un edificio, narrato nei dettagli, strumento per ricondurre ad eventi, persone, sensazioni interiori. "Parlo da Solo",incalzante nei ritmi e nel parlato che si piega all'andamento dei suoni e dei tempi, è un momento di riflessione interiore, un'esplorazione del sè, così come "Desistenza". Notevole la delicatezza di "Respinti all'uscio", in cui le chitarre creano un'eco morbido che si perde nel tempo e concede alla voce di riportare a galla storie di un passato memorabile nelle sue piccole cose e che si confronta con un presente deludente ed un futuro immaginato. Max si cala nelle vesti di un adolescente che sogna forte ma resta ancorato ai limiti imposti dalla sua età. Anche "Piccola Storia Ultras" è un viaggio nel passato, uno sguardo di bambino italiano sul calcio, sulla politica, sulla vita famigliare. Meraviglioso il contrasto fra synth morbidi e stridenti, un veicolo ai ricordi che collega il mondo dello sport e quello della politica in un connubio che intristisce. I ricordi sono tema portante dell'album il cui simbolo vero e proprio è "Sequoia", in cui Max, ancora bambino, mette a confronto le differenze di classe sociale mentre in "Tulipani" lo sguardo si sposta su di un mondo lontano e freddo, uno sguardo sulla neve e sul ciclismo. La conclusione del racconto è affidata ad "A Pagare e morire", triste descrizione di ambienti e personaggi squallidi.
Gli Offlaga Disco Pax non si smentiscono. Restano arroccati su di una scelta musicale drastica, netta e che non scende a compromessi. Che li si ami o li si odi, gli Offlaga non perdono di mordente ma continuano imperterriti a raccontarci la vita comunicando in via diretta con l'ascoltatore, intessendo panorami sonori che accompagnino il discorso senza invadere, lasciando alle parole il compito di raggiungere diritte il bersaglio dell'attenzione.

Voto:
◆◆◆◇◇
Label: Venus

mercoledì 18 aprile 2012

Object - Mechanisms of faith (Recensione)

Il Risorgimento della musica elettronica underground passa sicuramente dal personaggio Andreas Malik noto ai più come Object, progetto dark electro storico attivo a partire dagli albori del genere e che ancora adesso, in un momento in cui l'aggrotech imperversa da qualche anno ai danni di questa forma particolarissima di electro-industrial, riesce a realizzare con Mechanisms of faith. Al di fuori del titolo, della copertina e dei nomi delle tracce, quello che colpisce è l'estrema profondità dei testi e della musica, l'estremo senso di ricerca che sta dietro un lavoro di questo tipo, dietro il dark electro in generale. Malik agisce da solo nell'ombra così come tanti altri prima di lui, qui non c'è una band alle spalle, c'è invece una mente che viaggia verso orizzonti lontanissimi e che di questi ne fa caleidoscopi, matriosche complicatissime. E' un songwriting davvero complesso in cui tanti, tantissimi livelli si fondono insieme e non si finisce mai di scoprire questo o quel suono. In questo grandissimo lavoro d'ingegno la voce è presente ma non è fondamentale, e non si tratta di una voce urlante, straziante, piuttosto è la voce della psiche, quella che c'è e non c'è, che narra l'inenarrabile, quello che non percepiamo ma che sentiamo chiaramente, è la voce del pensiero. Allora Malik è poeta in testo e musica, poeta dell'anima. E allora ogni ascolto successivo diventa sempre più impegnativo perchè sempre più grande diventa la volontà di capire cosa realmente egli voglia dirci, le tematiche sono veramente tante e ogni volta che il disco finisce si vorrebbe rimandarlo in loop, anche se non sempre si può porre la massima attenzione e quindi in quelle situazioni è meglio lasciar perdere e fare altro o mettere su qualcosa di più diretto. Il dark electro, genere fondato negli anni '90 dagli yelworC tramite la label Celtic circle productions (prima) e Khazad-Dum (poi) attraverso il disco "Brainstorming" ('92) fu un aggettivo utilizzato dai giornalisti per indicare una forma di electro-industrial caratterizzata da sonorità più oscure, talvolta vicine a certa vecchia wave, tal'altra più orchestrale e atmosferica, in cui i vocalizzi possono essere urlati ma spesso sono criptici e leggermente effettati. Si tratta di una deriva diretta di quello che lo stesso act produsse a seguito dei primi demo più categorizzabili come electro-industrial. E questo lavoro richiama ampiamente la corrente più criptica e lenta, difficile, meno diretta rispetto a act come Ionic Vision, per certi versi vicina ad alcune cose dei primi Aiboforcen! per quanto riguarda lo sprazzo facoltativo vicino a quell'estetica del sogno e della pulsione antica. E' inutile parlare delle singole tracce perchè non basterebbe un volume, sono tutte delle gemme di rara complessità e tuttavia di grandissima qualità compositiva che vanno studiate e assimilate prima di venire comprese adeguatamente. Tuttavia se si volesse parlare di alcune si potrebbero citare le prime, a partire da quella Mescaline crisis che, insieme a Neural explosions, la stessa Mechanisms of faith, l'eccellente strumentale Dream collector, la marzialità electro-industrial di State of reality, la neo-Puppyana Blind obedience, Under zero halo e poi via fino agli episodi conclusivi riescono in pochi minuti a rappresentare la sintesi perfetta di che cosa voglia dire creare dark electro, a memoria dei momenti in cui l'ascoltatore affascinato dal genere si chiede se qualcuno produca qualcosa del genere oggi, nel 2012. Malik lo fa e si spera che non sia nè il primo nè l'ultimo. E poi c'è il secondo disco di remix che ha anch'esso il suo perchè. Tra crisi mescaliniche, esplosioni neurali, collezionisti di sogni, stati di realtà e ricerche di anime sembra davvero di essere tornati indietro agli anni d'oro in cui Aiboforcen!, Dive ed altri sognavano paradisi posti a metà tra medioevo e post-industrialismo. L'amante del genere non può che riconoscerlo come un disco fondamentale per ricordare ai newcomers qual'è la grande ricetta per tornare a tempi migliori. Il lettore occasionale amante dell'elettronica rimarrà gratificato dal songwriting e dalle atmosfere che Object sa sprigionare. Must.

Voto: ◆◆◆◆
Label: Electro Aggression Records

martedì 17 aprile 2012

Afterhours - Padania (Recensione)

Afterhours - PadaniaLa tempesta è arrivata come un orologio svizzero e gli Afterhours si sono presentati puntuali all'appuntamento, ma di quella che doveva essere un'uscita provocatoria, con la bufera sul partito leghista questo disco rischia di diventare un amuleto magico di pura chiaroveggenza.
Cosa lega Padania alla Lega? Niente, se non un unico filo conduttore:
siamo fermi qui a guardare verso il niente. Frase estrapolata dal brano "Costruire per distruggere", evocata da quel paesaggio nebbioso in copertina, che è prima di tutto uno stato nella mente.

Decimo album per una band che ha ancora molto da raccontare di sé stessa attraverso la musica, tornata ad essere incisiva e che farà contenti i nostalgici di Hai paura del buio? con il ritorno in pianta stabile di
Xabier Iriondo, senza stravolgere la via sperimentale intrapresa con I milanesi ammazzano il sabato, dove invece compare ancora nelle vesti di ospite Enrico Gabrielli. Ma sono i testi di Manuel Agnelli a scuoterci con la sua scrittura diretta, mai scontata, che in questo caso ha permesso alla band di dare alla luce un concept album in cui convivono gli Afterhours sarcastici di Germi, quelli introversi e seducenti di Non è per sempre, ma soprattutto si ha una nuova spinta propulsiva, con testi pungenti incentrati sulla mancanza di consapevolezza dei singoli individui annebbiati dalle proprie ossessioni, in cui traspare una vena disillusa in concetti quali, il destino - che non è per forza scritto - fortuna, maledizione e oscurità che incombe su i più deboli, fino ad esplorare la dittatura che ognuno ha dentro di sé, dunque "ha ancora senso battersi contro un demone?".

Un disco in cui viene esaltata la crudeltà di alcune intransigenze che: È come un cane rabbioso che morde a sangue il mio futuro; in brani come Fosforo e Blu, Spreca una vita, Giù nei tuoi occhi, ritroviamo le chitarre taglienti, un cantato aggressivo che ti colpisce dritto alla stomaco, alternati a momenti meno irrequieti in acustico come Padania, Costruire per distruggere, Nostro anche se ci fa male. Nell'album sono presenti orchestrazioni di Rodrigo D'Erasmo come nel brano strumentale Iceberg, e nei due brevi Messaggi Promozionali, uno cantato, l'altro, una ripresa del primo tema sotto forma di réclame in cui Manuel Agnelli mette a disposizone il loro cd per degli spazi pubblicitari per "incrementare la tua attività e dare forza al tuo talento"... "per informazioni contatta il nostro sito".

L'album si presenta in modo uniforme, con 15 tracce prodotte da Tommaso Colliva e Manuel Angelli, ben calibrate, dove ognuna di essa è collocata al posto giusto. "Metamorfosi" è il brano che immette ansia nell'ascoltatore, che ha una fame divoratrice, ma nella parte centrale uno spartiacque emozionale placa anche gli animi impazienti con i brani "Fosforo e blu", "Padania" e "Ci sarà una bella luce" (uno dei più riusciti del disco), seguiti da i "Messaggi Promozionali", intervallati da pezzi che sembrano slegati dall'idea del concept, ma che in realtà non interrompono il discorso rimanendo lineari fino ai due brani conclusivi legati tra loro: "Iceberg" e "La terra promessa si scioglie di colpo", quest'ultimo un piacevole brano lento al pianoforte, e in un'altra salsa Manuel ci sottopone nuovamente al suo giudizio: "Senza cori né bandiere è uno stato nella mente e so che c’è una dittatura perché c’è qui dentro me".

Padania è un disco estremamente attuale, che affronta una fase complessa della nostra esistenza, fatta di rabbia, paure e preoccupazioni il tutto affrontato in modo alternativo rispetto al solito piattume che siamo sempre più spesso costretti a subirci. Per questo gli
Afterhours ancora una volta ci offrono importanti spunti di riflessione, un'ennesima prova superata, ma questa volta vogliamo che "Padania" consolidi il successo oltre i confini italici, anche se in questo momento forse non è proprio un titolo adatto da esportare.

Voto: ◆◆◆◆
Label: Germi / Artist First

lunedì 16 aprile 2012

Cosmetic - Conquiste (Recensione)

Cosmetic - Conquiste I Cosmetic nascono nel 1996 in Emilia Romagna ed arrivano, tra cambi di formazione, di strumenti e sonorità, al loro terzo disco ufficiale.
Dopo più di una decade, il loro sound continua ad apparire fresco e ricco dispunti compositivi, per nulla fuori luogo o ridondanti.
Partendo dai classici stilemi del genere di band seminali come My Bloody Valentine, i Cosmetic se ne distaccano nell'uso particolare e riconoscibile della voce, molto più acuta rispetto al modo di concepire lo shoegaze.
Sin dall'inizio di Conquiste si avverte immediata l’aria di freschezza quasi estiva, la voglia di cambiare (anche dal punto di vista musicale) e il desiderio di trasmettere nell’ascoltatore contentezza, come se ce ne fosse sempre del bisogno (“La cura si sente già. Lo so che mi gioverà. Lo so che mi sta giovando anno dopo anno”. Tra le tradizionali stratificazioni di chitarre, distorsioni e situazioni lisergiche, troviamo la rassegnazione a certi assiomi inopinabili (“da ogni parte arriverà un rumore nuovo che ci verrà a sorprendere e non sbaglia niente: il suono della verità”), il distacco dalla famiglia tanto bramato (“Melly”) e dalle presunte conquiste (“Scisma”).
Proprio quando si pensava di conoscere il punto di arrivo dell'album, troviamo l’ormai stra conosciuta “Prima o poi”, una delle “hit” del precedente EP “In ognimomento”, la quale si discosta dalla vena sognante e dal muro sonoro creato in precedenza percorrendo vie più ottimistiche e meno intricate.
Si prosegue l’ascolto con la monotematica “la fine del giorno” e ci si addentra in un clima intriso di arpeggi e venature pop (“Calla”), pur mantenendo l’atmosfera idilliaca che caratterizza il lavoro. I seguenti tre brani riprendono musicalmente il discorso lasciato in sospeso con “Scisma” trattando temi molto comuni ed empatici nei giovani quali progetti di partenze non riuscite (“Hai detto che vuoi provare all’estero. Noi siamo troppe idee e niente pubblico”) e dubbi esistenziali, in quella splendida “Colonne d’errore” dove pare quasi ci sia una collaborazione coi Sonic Youth.
Il disco sichiude con “Lo spavento”, una sorta di ballata folk che riesce a completare degnamente la trama complessa di suoni che i Cosmetic sono riusciti a generare con questo nuovo disco.
Di sicuro un cambio di registro che scorre bene e che funziona. Per chi ancora ha bisogno di sognare e sentirsi leggero.

arrendersi per vincere, un passo indietro eavanti tre

Voto: ◆◆◆
Label: La Tempesta dischi

domenica 15 aprile 2012

Nicotine Alley – Upstairs (Recensione)

Nicotine Alley – UpstairsL’etichetta Marvel Hill Records annuncia con orgoglio questo secondo disco dei padovani Nicotine Alley, “Upstairs”, disco onestamente ben fatto ma anche dove non c’è molto da stupirsi durante il suo passaggio stereo; il materiale della band è a suo modo notevole, tra il pop agrodolce, detriti stoner, pollici verdi country, anni sessanta, psichedelica, trombe e blues, ma appunto troppo di tutto e senza una carta d’identità precisa e focalizzata, un main soup che assomiglia più ad un concentrato d’esercizi (ripeto ben fatti) stilistici che ad un secondo registrato di conferma.

Prodotto da Marco Fasolo, artista stimatissimo nell’underground (Jennifer Gentle, Il Genio ecc), Upstairs fornisce tante indicazioni e angolazioni musicali da “esprit du”, un gioco sonoro che rincorre numerose direttrici che mettono in risalto l’isteria e l’umoralità del terzetto, ma che ad un risultato finale, arriva, staziona e riparte all’ascolto come una ventata e poco rimane nella circolazione forzata dell’eco o della memoria; vale la pena però di sottolineare la grande coesione di gruppo, nulla di fuori posto, precisi nell’infiammare gli animi di psich-blues maledetto alla Doors “Going to the city”, nell’affogare dentro i patemi grigi della wave uggiosa “Wash”, mostrano le vene sincopate e combattive di un Joe Strummer “The man with hole in his heart”, una passeggiata nel bush di una Nashville dondolante e mariachi “More than alive” fino ad arrivare alla ballata “The girl with the sun in her eyes” in cui liscive brit e anni sessanta si coagulano in un ottimo percorso, bello davvero.

Certo la dilagante ripetitività di certi schemi sonori – chiaramente sempre se vogliamo rimanere in tema “nuove proposte musicali” – è strabordante e qui poniamo subito un accento: non si capisce il perché, ma la band è professionale, di buona stoffa d’insieme, ben arrangiata, e ancora si sta qui a battere questi territori sonori che oramai sono polvere calpestata da milioni di formazioni in cerca di un raggino di sole, via, una sterzata occorre per non rischiare di fare dischi e perdere tanto di quel tempo vitale tolto alla creatività.

Cari e buoni Nicotine Alley al prossimo giro vi vogliamo più “voi stessi”, per ora vi domandiamo solamente cosa pensate fare da grandi nella musica?

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Marvel Hill Records

sabato 14 aprile 2012

Ultimo Attuale Corpo Sonoro - Io ricordo con rabbia (Recensione)

Ultimo Attuale Corpo Sonoro - Io ricordo con rabbiaLa memoria è coscienza raziocinante, ma il ricordo è un fatto di cuore. Questo è un album della memoria, del sapere condiviso di accadimenti faticosi, disagevoli; questo è un lavoro gravoso e molesto, come le vicende a cui il recitato viscerale di Gianmarco Mercati sceglie di dare voce. Dentro ci sono le menzogne consumate sui cieli di Ustica («tutti sapevano tutto, carnefici al servizio dell'occultamento», ''Flight Data Recorder''), il sacrificio cruento di Giancarlo Siani alle connivenze fra camorra e istituzioni («raccontano gli occhi commossi del fratello, non era un eroe, era un giornalista di 26 anni, ma l'unico giornalista ucciso dalla camorra in data 23 settembre 1985» ''Fortapàsc'', dal film omonimo di Marco Risi), le sanguinose dittature sud-americane pilotate a distanza di sicurezza dagli USA («Washington dirigeva la School of Americans di Panama, con il merito, oltre agli altri, di addestrare 50000 ufficiali degli eserciti latino americani; si distinsero, medaglia all'onore, Pinochet in Cile, Stroessner in Paraguay...», ''Undici settembre millenovecentosettantatré''), l'ombra dei bombardieri su Beirut di ''Emilia Paranoica'' e il terrorismo israeliano che costringe a sé tutto il Medio Oriente (''Non tacciano i canti'',''La ballata di Itamar''), la Presidenza del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana nelle mani di un piduista («l'omicidio di Calvi e l'assassinio nell' '86 dell'''albero svedese'' Olof Palme, io cedo e mi arrendo a un nuovo amore in era di golpe bianco di rose», ''Tessera P2 #1816''). C'è una soglia d'attenzione che va tenuta sveglia, perché dimenticare il male è cancellare la consapevolezza del suo potenziale distruttivo: bisogna ricordare con rabbia, scuotersi da dosso il torpore accomodante e resistere all'indifferenza che tutto appiattisce e zittisce. Bisogna prendere posizione, essere partigiani, faziosi, rifiutare di accondiscendere all'inaccettabile. Pasolini diceva: «Chi non parla è dimenticato»; e ciò di cui non si ha memoria muore, a dispetto del dramma che si porta dentro. I veronesi Ultimo Attuale Corpo Sonoro chiudono nel recinto un documento collettivo prezioso e impegnativo, depurandolo dalla retorica e dal freddo approssimatismo delle cronache mediatiche. E non è semplicemente la portata dei contenuti a fare di 'Io ricordo con rabbia' un album considerevole, né i ricchi riferimenti letterari disseminati - gli umili di Erri De Luca, il senso della lotta di Henry Miller, l'arte militante di Vìctor Jara, e persino la Bibbia (Isaia 62 in ''Non tacciano i canti'')... L'estro lirico che sorregge il lavoro, insieme al furente stridore post-rock degli arrangiamenti, è pulsante, riflettente e doloroso come qualcosa che osiamo chiamare - qui - poesia. «Io, incubo più vivido derubato del suo unico amore a cui le ossa sono state strappate dalla schiena, io ricorderò con rabbia, e sarà cosa necessaria come il mio tremare in resistenza, come la mia animale misericordia, e come il naturale diritto di uomo ad odiare. Io ricordo con rabbia

Voto: ◆◆◆◆
Label: Manzanilla

venerdì 13 aprile 2012

Verbal - Verbal (Recensione)

Verba albumIl territorio lombardo, di nuovo, si rivela terra fertile per la musica strumentale di generazione post-rock. Cosi come per i Three Steps To The Ocean, nonostante il tono molto meno sommesso e più rabbioso, i Verbal trovano subito l'appoggio dei posti giusti per suonare e presnetarsi tanto da diventare dei personaggi importanti in scarsi due anni di musica suonata.
Dalla loro hanno la capacità di suonare e di saper cavalcare "la nota" come solo con la musica non parlata si può fare.
Per chi ancora non li conoscesse sono 5, sono di Bergamo e hanno già nel loro curriculum aperture ai concerti dei Verdena (una arrivata casualmente, l'altra decisamente voluta dalla band direttamente) e concerti a Neverland, tanto che è assurdo sapere che la loro band nasce per caso da una jam session notturna. Il loro cd omonimo è stato presentato il 6 aprile al Bloom di Mezzago (MB) e si compone di sei tracce pensate, in realtà, per essere una unica track, tanto da essere stato registrato tutto d'un fiato con i microfoni panoramici permettendo, come la buona musica vuole, ad ogni amante del genere di avere le sue personalissime sensazioni calandosi in trenta minuti di musica senza volontà precisa che non sia quella di essere piacevole, sognante e soprattutto quella di divertire loro che suonano. A tratti infrangono le regole "matematiche" dello stile strumentale andando a rendere viscerali alcune note, caricandole di impatto emotivo, per il solo gusto di farlo.

Introspettiva, quindi, a tratti aggressiva e malinconica è musica per chi, come me, ama il "non aver bisogno di parole" per esprimere emozioni.

Voto: ◆◆◆
Label: Neverlab

giovedì 12 aprile 2012

Noise under dreaming - In Mine (Recensione)

Noise under dreaming - In MineSi parlava, da poco, se l’arte degli incanti e dei rumori abbia esaurito gli argomenti o se abbia ancora qualcosa da dire. Vorrei sbilanciarmi per quest’ultima ipotesi mentre passa "In Mine" del duo milanese Noise under dreaming (Matteo Chiamenti e Michele Ricciardi) quattordici massaggi mentali che delicatamente ti smontano i riflessi e ti fanno letteralmente galleggiare come loto nell’acqua o polvere nel vento, un chillout svenevole di ricordi, afflati e ombre placentari affidato a cordami acustici, elettrici, intensità elettroniche, field immaginari e gocce di malinconia che pervadono, insinuano e catturano tutto quello che l’anima tende a nascondere; un disco di presagi e determinazioni a stupire l’ascolto attraverso passaggi obbligati e frenesie contrassegnate.

Certo la radice crepuscolare gioca molto e non da meno l’elaborazione che rasenta la perfezione, implosioni ed esplosioni s’inseguono dentro una clessidra riempita da delicatessen psichedeliche mentre il tempo passa e tutto ruota su se stesso interminabilmente; tracce tenui come a sfiorare il pallido tepore di una “devianza” nuova “En plein air”, cortocircuiti Oldfieldiani “Noise under my wish”, “Monocroma”, suggestioni liriche immaginifiche e di carta paglia “For nothing”, stupende sintomatologie mantriche Afrikaner che copulano con atmosfere di trasfigurazioni alla MomixLullaby for lovers”, tensioni d’archi e nuvole cariche di malinconia “Sinfonia per menti distratte primo/secondo/terzo movimento”, il pianoforte che fa da collante con gli arcani vocali della stratificazione sonora delle meglio occasioni “In deep”, come il violino strappacuore di Sara Primiterra che in “Better story” graffia l’animo cheto di chi ascolta.

Sì l’arte degli incantesimi non ha esaurito gli argomenti, i Noise under dreaming – oltre a darcene conferma – ci danno pure un brevetto di volo a tempo determinato per salire senza peso nella verticale sognante del loro giostrare magicamente la gravità terrestre.

Buon volo a tutti!

Voto: ◆◆◆◆
Label: Seahorse Recording


mercoledì 11 aprile 2012

Klein Blue - Sono note immaginate (Recensione)

Klein Blue - Sono note immaginateNon aspettatevi chissà quale guizzo estremo o sperimentale dall'album dei Klein Blue perché ne rimarreste delusi; siamo su tutt'altra lunghezza d'onda. Il che non significa che si tratti di un lavoro piatto o poco stimolante; tutt'altro. La bellezza di 'Sono note immaginate' - perché di bellezza è il caso di parlare - sta piuttosto nella sua freschezza da pic-nic su prato-in-fior.

Due anni e mezzo fa i nostri, esordienti, fungevano da apripista per l'allora neonata Vaggimal. Per quest'ultima - piccola preziosissima realtà discografica dell'omonima frazione montagnina della provincia veronese - pubblicavano 'Fertilizzafrasi', ricco Ep di debutto di ben sei tracce. In esso erano già presenti in nuce caratteri che 'Sono note immaginate' porta a completa realizzazione; primo fra tutti una certa vocazione per la melodia orecchiabile alla maniera del più brillante twee pop, con tanto di archi, trombe, armamentario di campanellini e giochini sonori annesso - stile Belle and Sebastian del millennio passato, sonaglino più sonaglino meno. Ciò che del più becero twee pop, di cui sopra, non appartiene ai nostri è, invece, la tipica posa un po' paracula tra il naïf e il melenso che strizza l'occhio all'orgoglio bamboccione, e gioca altrettanto astutamente sul cliché della nostalgia da Paese dei Balocchi. Il minimalismo narrativo dei Klein Blue, piuttosto, più spontaneamente sceglie di posare lo sguardo sulla fenomenologia familiare del quotidiano per restituirne una percezione rinnovata e, per così dire, aggraziata, devolgarizzata.

'La chimica' (lo stato fisico in cui mi trovo tra legame ionico e isolamento), dà il là a 'Sono note immaginate' in un vortice coinvolgente - vi sfido a tener ferme le spalle sparandovelo in cuffia. Il pezzo illustra con efficacia il microcosmo dell'intero lavoro, che si arricchisce con misuratezza di episodi elettronici - stavolta scomodiamo i Magnetic Fields di '69 Love Songs' - pur conservando la matrice folk pop più che lampante già in 'Fertilizzafrasi', che nell'album si consolida e raffina, in particolare nei 3/4 della splendida 'Avendone scritto' (avendone scritto su un foglio più chiaro, disegno il tuo naso e quell'ombra sul viso) e nella scanzonata 'Cartella senza titolo' (quando innaffi la mia mente col tuo sguardo intelligente, nel mio animo sopito nasce un albero fiorito). In queste è la voce diamantina di Carlotta a farla da padrone, che nella title track spiazza tutti, sguscia sinuosa moliplicandosi in un gioco di controcanti da Laetitia Sadier della Lessinia e, degnamente sostenuta dal resto del collettivo (Tobia alla chitarra, Federica alla viola, Arrigo alle percussioni), dà forma e sostanza a un tripudio delizioso in forma di divertissement.

Un album dalle tinte primaverili. Ave ai Klein Blue, pieni di grazia e decoro.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Vaggimal Records

martedì 10 aprile 2012

Fräulein Alice – I love you Lucilla (Recensione)

Fräulein Alice – I love you LucillaTremori shoegazer e uggiosità indie-wave dalla Catania dei Fraulein Alice, che con “I love you Lucilla” si vanno ad inserire nel caleidoscopico mondo ufficiale dell’underground nostrano, una proposta d’umori e fatture sensoriali che vanno a formare un’ideale filiale tra My Bloody Valentine dimessi e le stizze di un indie moderatamente scapestrato che rende un ascolto teso, entusiastico, strafatto e fuori regola; e proprio da “piccoli” dischi così che possono nascere piccole divinità che poi si possono trasformare in stelle dell’alternative, forti di uno scheletro straordinario che è frutto anche di un pop-rock melodico e malinconico stile Smiths “Road to Berlin”, “All ways”, “Give me a name”, e che sostanzialmente schiva la maledizione del troppo con la qualità che spesso – il più delle volte - rende vano ogni sforzo nello stare a galla per un gruppo emergente.

Funziona molto bene l’ombra wave che la band approccia senza abbandoni o isterismi, molto bello anche il tratteggio pulviscolare della grammatica psichedelica di matrice post-LeedsEasy-goal-up”, personale la coloritura Bowieana d’antan che si dinoccola tra le pieghe di “Videodrome monocrome”, uno strano Marc Bolan che sculetta glam-rock scintillante dentro la distorta “Pah pah Bloody blue” o la delicatezza ambigua che cadenza la melodia di rara bellezza in “What else?”; un disco che sicuramente scatenerà una scia d’intensi ascolti e che potrebbe essere frutto futuro di un beato delirio di massa d’ascolto, non tanto per le sue straordinarietà marcate di rinnovare uno stile fermo sulle concrezioni dell’epoca, ma per l’essenzialità che i Fraulein Alice mettono insieme rabboccando un vissuto sonico esperenziale ed esponenziale, rabbia, elettricità e colori grigio topo in un rutilante quanto soffice “mondo buio” che stringe il cuore e le tempie nello stesso tempo “Ogres in heaven”.

Dalla bella Sicilia una giovane proposta vincente,una giovane ondata di rock-wave rinfrescata, un bell’upgrade stilistico di poca sofferenza e molto, ma molto fascino.

Voto: ◆◆◆
Label: Seahorse Recordings


sabato 7 aprile 2012

Yes Daddy Yes - Senza Religione (Recensione)

Paolo Coppola, Sergio Lotoro, Fabio Mitrano, Andrea Benevento, Giovanni Barretta, sono i campani Yes Daddy Yes.
Nati nel 2005, esordiscono con l'album Senza Religione prodotti da Enzo Moretto (A Toy Orchestra).

Nonostante tredici tracce potrebbero sembrare eccessive, l'album appare fresco e si lascia ascoltare con piacere, tutto d'un fiato.
Si inizia con Padrone mio, una presentazione perfetta con un rock deciso, pianoforte e synth.
Seppellisci il mio osso invece, è un cambio drastico, è pop, un po' retrò.
La terza traccia prende il nome dall'album, sì ti fa ballare, ma sinceramente non capisco il perchè sia stata scelta come primo singolo; invece Faremo Fuoco Intorno ti investe completamente e il pianoforte fa la sua sporca figura.
Peyote è un brano molto tranquillo, cosa che non è assolutamente In Esilio (in loop da giorni) dove si evidenzia il lato elettronico della band, molto Verdena ed uno dei pezzi migliori del lotto.
Rimandi à la Marlene Kuntz in Caccia di Iene, un rock sporco e 2.49 minuti di violenza.
In Chirurgo ammetto di aver girato il disco per cercare la scritta feat Zen Circus affiancata al titolo della traccia.
Cultural Crash è folk, Kyselac un brano strumentale e My Memory (unica traccia in inglese) non incuriosisce se non fosse per quello stile western che la caratterizza.
Senza Religione finisce con Il testimone, malinconica, delicata, quasi da commozione.
Insomma gli Yes Daddy Yes, nonostante sia il loro primo album, sembrano già un band completa, preparata e con tutte le carte in regola per avere un futuro in questo difficile panorama musicale. Ad avvalorare il tutto una splendida copertina.

Voto: ◆◆◆
Label: Urtovox



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