sabato 31 marzo 2012

Chambers - La mano sinistra (Recensione)

“La mano sinistra” non è solo il nuovo disco dei Chambers ma un'altra vittoriona di quelle tipiche di To lose la track. Il gruppo toscano questa volta ci scaglia addosso delle novità rispetto al precedente album: il passaggio dall’inglese all’italiano (che tanto ci allieta), la sensibile riduzione dello screamo e un sound del tuttorivisitato nella riuscita fusione di generi e attitudini (Post-hc /post-rock/screamo/cosemoltobelle).
Addentrandoci nell'ascolto, alla prima traccia potrebbero quasi venire in mente i Tool e qualche traccia di sludge, il tutto unito ad indefinibili sonorità d'altro genere. Saltano subito all’occhio i giochi di parole dei titoli delle tracce, segno di creatività che si riflette immediatamente sul disco. Le tematiche, come anche le liriche, sono sicuramentetra i punti di spessore della band. In questo album c’è la consapevolezza di essere schiavi di certi tipi di comodità e non avere più il tempo per niente, nemmeno per delle fiere in agosto. C’èun’ aspra critica al turismo (“Il turismo è la forma compiuta della guerra") in quella "200 metri d'Orso" nellaquale i Chambers inseriscono anche una parte parlata a spiazzar l'ascoltatore.Più ci si addentra nell'opera più i suoni sembrano farsi ruvidi, riecheggiano nel petto e al contempo prendono aggressività e si rendono fluidi. I testi seguono di pari passo questa spirale di eventi (“Puoi girare armato e dirci che sei forte, puoi aver deciso di non bussare a certe porte. Puoi voltarti e fare finta che sia giusto così, a perdere. Anche un piromane guarda in tv le previsioni del tempo,anche un piromane dipende dal sole e dal vento”). A metà strada verso questa sostanziale ricerca del proprio io troviamo forse il punto più alto del disco (“Cemento mori / orti di fame) che abbraccia rimpianti e romanticismo (“Ho preso in braccio un pugno di colori e sono andato da solo, volevo regalarti un paio di stagioni ma il nostro albero nonc’era più. Non basta il sole per riscaldare un inverno.”) e prosegue scivolando nell’oscurità. Le ultime due tracce rivelano l’abbandono di se stessi (“per poter credere di saper tornare indietro”) e interrogativi sull’essere umano, non più in grado di fuggire, di sapersi imporre (“fiumi in pena”) ma che riesce comunque a mietere vittime (“branchi di nebbia”). Giunti alla fine, solo in fondo, emerge come la musica sia in grado di sovrastare tutte queste delusioni e incompletezze (anche politiche) e fors’anche rendere questo posto migliore.

Un disco assolutamente da avere, da ascoltare nelle giornate in cui il vento batte forte sulle finestre o guidando veloce durante un temporale. Ritrovare la natura con un disco non è mai stato così semplice. Scaricalo qui.

Gli alberi hanno imparato ad ammalarsi, a scavarsi il vuoto dentro ed abbandonarsi

Voto: ◆◆◆
Label: To lose la track e Shove Records



venerdì 30 marzo 2012

Howlin’ Rain – The Russian Wilds (Recensione)

Howlin’ Rain – The Russian WildsSiete estimatori degli amplificatori caldi di Steve Marriott e dei suoi Humble Pie, del soul vocale di Paul Rodgers o magari ancora legati al retro-rockismo psichedelico dei Comets On Fire? Allora questo disco “The Russian Wilds” dei rinati Howlin’ Rain è quello che vi ci vuole per ripassare qualche angolazione rock degli anni Sessanta/Settanta, per ritornare a bruciarvi al calore valvolare di chitarre fiammanti, trombe mariache, tastiere vibranti di Hammond, e rosolarvi sopra quelle suite mirabolanti messe a confine con le direttrici soul, blues e di tutte quelle timbriche a contrasto tra anima e spirito, pelli bianche e nere.

Dunque rock blues con accenti hard stilizzati all’epopea Grand Funk RailroadDark side”, confrontati col vicino ieri di Black CrowesCan’t satisfy me now”, “Walking through stone” nel quale Ethan Miller e Soci sguazzano e gestiscono un suono forte, intraprendente e “storico” su tutti i fronti, con i tiraggi elettrici di chitarra (Isaiah Mitchell) portati allo spasimo Santaniano Phantom in the valley”, “Still walking, still stone”, le voci in falsetto sullo schema Gillan/The Darkness e ombre Sabbathiane, un fenomenale meltin’pot che non tradisce le aspettative e che alza la temperatura rock a livelli ottimali per eruttare attraverso i coni stereo; undici tracce da manuale ed emozioni incluse che formano un complesso panorama multi cromatico, un crescendo di battiti e pulsazioni venose dei grandi fasti rocker che il quintetto di San Francisco – anche introducendoci molto della loro identità musicale – pare omaggiare, se non addirittura coverizzare, miti, vezzi e “battute” del tempo che fu, ma ciò non toglie che l’orecchio né guadagni oltremisura.

Niente di dispersivo o altro che ci faccia allontanare dai soffi stimolanti e tiepidi dei twin lead guitars alla Allmann BrothersBeneath wild wings”, bluastra la psichedelia che scorre in “Cheeroke werewolf”, delicata la partenza di “Strange thunder” che poi in un pentimento decide di prendersi chili di watt e vento sulle orme poetiche di Page o la rilettura della ballata zuccherina della James GangCollage”; niente di nuovo e nulla fuori posto, tutto riporta “la” nell’Eldorado culturale delle musiche/sculture che nessuno mai scalfirà, tanto meno il tempo e la sua volontà, solo uno speciale “riascolto” del fiato del caro rock e dei suoi possedimenti di splendore sonoro che gli Howlin’Rain contribuiscono a tramandare come un – e lo è – prezioso Vangelo griffato.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: American/Columbia


mercoledì 28 marzo 2012

Nobraino - Disco d'Oro (Recensione)

Nobraino - Disco d'Oro“Tutto era pieno, tutto era in atto, non c'era intervallo, tutto, perfino il più impercettibile sussulto, era fatto con un po' d'esistenza. E tutti questi esistenti che si affaccendavano attorno all'albero non venivano da nessun posto e non andavano in nessun posto. Di colpo esistevano, e poi, di colpo non esistevano più: l'esistenza è senza memoria; di ciò che scompare non conserva nulla — nemmeno un ricordo” ( J-P. Sartre, La Nausea ).

Sartre diceva che la nostra vita era una strana storia di esistenza, in cui ogni cosa esistente nasce senza ragione, si protae per debolezza e muore per combinazione. Un po’ come lo dicono i cinque di Riccione, in arte Nobraino, nel loro Disco d’Oro. E si, perché questa strana storia avrebbe un senso se bagnata in qualche metallo nobile, e non sarebbe semplice esistenza.

La favola dell’ultimo lavoro dei Nobraino è una favola d’oro. Ha una spessa copertura laminata con crepe a vista, luminosa quanto un sorriso sornione beffardo, un po’ perdente. E’ una favola italiana, fatta di clichè, dalle feste dei ragazzi ‘bene’ da Lulù "Cani E Porci", agli amori effimeri e velleitari di bagnini e tedesche in vacanza "Bademeister", toccando le beghe della quotidianità, come lo può essere il vicino che parcheggia su di un passo carraio "Il Mio Vicino". E se ogni pezzo scorre come una didascalia, un negativo, uno spezzone di vita e coralità, la voce è sempre la stessa, è sempre Lorenzo Kruger che in mille corpi riporta la sua anima irrequieta e smascheratrice, capace di dar vita ad un racconto teatrale, pieno e sentito. Kruger è a metà tra un dannato (e meno realista) De Andrè; a volte suona come un italiano Kapranos , come ne Record Del Mondo. Il suo è un flusso di coscienza che guida 41 minuti di surrealismi, lo stesso che appare nel quasi un minuto di un’ipotetica telefonata in Bunker: una nebulosa di concetti mai completi o correnti, che finisce ineluttabilmente ‘nella cassetta delle lettere, solo pubblicità e bollette’.

Quello che rimane è un affresco feroce e volubile di caratteri che si confondono e nascono l’un nell’altro, e fanno storia a parte. E’ una storia, una favola di piccolezze e bassezze (‘Voglio fare il record del mondo di chi sta più bene’) che attanagliano le povere anime come dubbi amletici. E poi perché la storia, quella vera, ‘passa e ci guarda, muta e impotente, dai polmoni bucati dagli spari di tutte le guerre’. E se i Nobraino sono la coscienza, sporca e un po’ viziosa di questo mondo che segue le sue logiche, trascinandosi nella caduta di un lucifero capriccioso e velleitario, un senso di perdita, di mancanza viene sempre a galla. Un po’ come con imprendibili muse che ‘con i miei dischi italiani, (..) inseguivo ma non ci ballavo mai’.’

Devo andarmene davvero, devo estinguermi così’ pare la nota finale di una storia la cui sorpresa finale vuol essere taciuta. E’ una farsa? E’ vera? E’ solo esistenza? Chi può dirlo. Quello umano è un teatrino come pochi, che vuol mettere coscienze contro contingenze, portando allo spreco umano. Ma come avrebbe detto il nostro francese, il tempo è troppo vasto, e non si lascia riempire – e tutto ciò che vi rimane "s’ammolisce e si stira", senza cedere del tutto. E del resto, chi non muore si rivede da Lulù.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: MArteLabel


martedì 27 marzo 2012

Edipo – Bacio Battaglia (Recensione)

Edipo – Bacio BattagliaMassimo rispetto per Edipo e le sue incursioni elettro-pop in questo “Bacio battaglia”, ma non è che tutto sia oro colato. Dieci percorsi di gentile malinconia e manciate di verve plastificata, una stretta fedeltà a quinte artistiche che celano ripetuti ascolti del Battiato anni ottanta, Silvestri e quella trasognata evanescenza stordita alla Gazzè che si attacca agli orecchi e non ti molla per un po’; l’artista gardesano ha il concetto poetico urbano e neutrale di un calore ancora troppo tiepido per assaltare febbri ben più tratteggiate, un’economia artistica che sa muoversi su territori e divagazioni che descrivono brani “troppo carini”, troppo “per bene”, “troppo sui generis” per farci saltare – chiaramente al momento – sui cornicioni esaltati dell “habemus novo indie papam” tra i gironi dell’underground.

Beat, pop, colori carta zucchero, ballate piacevoli e pruriti Korg e movimenti hip-hop casalinghi “Colpa del fonico”, “Il mondo ha perso” danno difficilmente una lettura di quanto sia – da parte di Edipo – un lavoro d’espressione naturale dentro un linguaggio sonico di tendenza oppure un sound ed una lirica adeguata alla moda del momento, se quest’ironia di repertorio sviluppa un’esigenza oppure è la velocità espressiva di una definizione d’approccio alla scaffalatura del mercato indie; nell’attesa che il tempo “di maturazione” stilistica si schiarisca in una bell’avventura Edipica, facciamo due passi lungo la tracklist di questo secondo disco all’attivo e quelle annotazioni che si facevano sopra circa le innocenti affinità artistiche con i grandi numeri italiani, esplodono con determinazione e peccati veniali, appunto il Battiatone d’antan “Idroscalo”, uno stranito Samuele Bersani al tempo di Chicco e Spillo che fa cucù in “Cattivo”, lontananze dello Zero RenatoSupertele”, un Bugo dance “I baristi stagionali” ed il Silvestri disilluso che tira rendiconti e ricordi nell’amara nebbia che copre la bella I nudisti del Mar Baltico”.

Edipo sa scrivere e architettare bene, solamente un po’ – magari abbastanza – autonomia dai cliché ispiratori aggiungerebbe “lo stuzzicante” tic che manca, ovviamente per non ritrovarsi qui a disquisire – tra un mese o poco più - circa un’artista dal moniker “impegnativo” del quale non se n’è sentito più parlare.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Foolica Records


Xiu Xiu - Rare (Recensione)

Xiu Xiu - Rare (Recensione)L'esatto contrario degli scheletri nell'armadio. Sebbene la claustrofobia e i brividi sulla schiena - che per primi vi abbiamo raccontato parlando del loro recente album - siano ancora una volta sensazioni predominanti, non c'è nulla di realmente nascosto nella raccolta di rarità degli Xiu Xiu. Queste sono nudità che imbarazzano, mostrate senza mezzi termini. Sono ossa rotte per un pugno ben assestato, o meglio ancora: sono il dolore che segue quel pugno, è il tuo naso che sanguina sotto gli sguardi di dissenso bigotti mentre ti ripieghi su te stesso. Le scelte possibili: rinunciare in partenza o far girare il disco nello stereo.
Nel secondo caso, non aspettatevi un ascolto facile. Non che ci sia bisogno di ribadirlo quando si tratta di Stewart e soci. Ma a maggior ragione, di fronte a un'antologia di questo genere, è bene ammonire ogni possibile avventore incauto.

“Rare” è l'allegato in tiratura limitata della versione in vinile di “Always”, rispetto al quale rappresenta l'altra faccia della medaglia: se l'album abbonda nelle descrizioni sonore degli incubi di Jamie mediante uso di loop e videogiochi modificati creando architetture complesse, la raccolta scarnifica i successi collezionati negli ultimi dieci anni con inediti arrangiamenti acustici. La lentezza è la cifra distintiva, pause, silenzi che quietano i fantasmi. Il risultato è quasi straziante. Le eccezioni: “Sad Cory-O-Grapher”, che rinuncia agli orpelli elettronici di “Sad Redux-O-Grapher”, le due versioni sono complementari - dai colpi di pistola metallici di un amore malato fino alle ferite, che si possono cantare solo in compagnia di una chitarra. “Don Diasco”, tratta dall'esordio “Knife play”, diventa quasi una ballad e “Clowne town” si impone sull'originale, superandola in bellezza.

Poi ci sono le cover. Basta citarne tre per comprendere in quale misura l'universo tentacolare degli Xiu Xiu sappia contaminare le realtà più distanti. “Jack the ripper” di Nick Cave diventa un concerto ad alto volume che proviene dalla casa accanto, le distorsioni raccontano un'emozione forte che pure arriva attraverso i muri, come fosse lontana. Le Pussicat dolls si sciolgono nell'acido della sorprendente rivisitazione di “Don't cha”. Il jangle pop dei Why? cede il passo a una divertita sperimentazione lo-fi in “Yoyo bye bye”.

Nel complesso, un lavoro la cui precisione collezionistica non può che appassionare i cultori del gruppo e i fan più accaniti, che vi ritroveranno dolcissime perle, come la voce adorabile di Caralee in “Helsabot”. Per i restanti ascoltatori, “Rare” potrebbe risultare come una di quelle pietanze che, pur deliziose, causano incubi da indigestione perché troppo pesanti. È sconsigliato abusarne. Da assaggiare un po' per volta, con estrema prudenza.

Voto: ◆◆◆◇◇
Autoproduzione

lunedì 26 marzo 2012

Drink To Me - S (Recensione)

Drink To Me - SChe i Drink To Me abbiano da sempre un’attitudine ed approccio musicale per nulla italiani, lo si era già ben capito dall’esordio “Brazil”, in cui ogni più piccolo frammento risultava immune dalla piaga provinciale che affligge ogni gruppo nostrano.

Ora che “S” vede la luce, il trio piemontese vira bruscamente la propria traiettoria, mettendo da parte le suggestioni noise/ataviche, sostituendole prontamente con massicce dosi di synth sotto cui riecheggia un leggero sostrato rumoristico, naturale cuscinetto ad un tatto melodico d’impatto immediato e trascinante.

Complici, dunque, una spiccata propensione alla melodia danzereccia, su cui s’innesta il calore vivo e pulsante di strumentazione classica, alternati a puntelli di elettronica dura&pura, “S” è un compendio preciso e dettagliato di sospiri dance esterofili che dalle nostre parti non hanno ancora trovato il proprio status definitivo, a cui questo disco aspira senza mezzi termini, assestando un filotto inarrestabile di potenziali inni da dancefloor (“Future Days” e il letale uno-due di “L.A. pt.1” ed “L.A. pt.2”), dilatazioni di psichedelia sintetica (“Picture Of The Sun”) o sognante shoegaze in falsetto (“Space Is the Place”) senza sbagliare un colpo o abbassare il tiro per un istante.

Import/export di (s)pregevolezza pop, “S” si rivela soprattutto per una spiccata sensibilità melodica (il singolo di apertura “Henry Miller” strizza più di un occhio alle melodie fluttuanti e psichedeliche degli Animal Collective elettronici) ed un’attitudine danzereccia mai prepotente, ma levigata da stratificazioni di suoni sintetici che ne aumentano lo spessore musicale, a corollario di un disco dalla forte maturità compositiva e spiccata spavalderia difficile da scovare nella marmaglia di band e dischi odierni, facendo di loro una band dall’indubbio valore aggiunto da coltivare.

Teniamoceli stretti, prima che vengano a rubarceli di soppiatto mentre restiamo inebetiti di fronte ai capricci dei teatranti di turno.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Unhip Records

sabato 24 marzo 2012

Iceberg – Caro Tornado (Recensione)

Iceberg – Caro TornadoUna piccola forza della natura che attenziona la natura come essere da prendere ad esempio con la forza della musica. E’ questo quello che esce dalle porte soniche degli Iceberg, formazione pavese qui al primo passo ufficiale con “Caro tornado”, nove tracce a combustione veloce e registrate in presa diretta che, una volta inserite nel lettore, danno la vita maledetta per una robusta manciata di minuti; forti, veloci, incisivi e con pochi cazzi nella testa, lucidi e elettricizzati, i nostri danno una performance rock’n’roll esaustiva e a tutto tondo, in cui la centralità delle chitarre è una formidabile presa rapida di pogo e un baccanale amplificato che mette sull’attenti.

Spore di blues catarrosi “Per un attimo mi avresti voluto morto”, stimoli ed eczemi punkyes storti e quei calori soffusi – leggermente evaporati – di indielogie pregresse, fanno bella mostra in questo prodotto sonoro niente male, vivo e urticante, che viene, morde e riparte per altri lidi da intaccare, da stravolgere con la massa di jack e poesia tagliuzzata; un disco carico di urgenze e sentimenti pestati a manetta, tracce e spiriti ribelli che ripropongono la centralità della provincia come fenomeno debordante di nuove esigenze distorte e sparate a raffica, quell’esserci prepotente che non fa male ma solo bene per nuovi ascolti e nuove voglie da assecondare, e gli Iceberg su questo non si tirano certo indietro a sentire quello che hanno imbastito in questa tracklist altamente infiammabile.

Qui si amano i grandi volumi, le “intemperie soniche” che gestiscono la titletrack, gli stati esplosivi di calma apparente “Dosati meglio”, le dissolvenze KuntzianeClima”, “Nagasaki blues”, le ballate chete di Timoriaca memoria “In piena”, le coralità espressive che battono cassa in “Ercole” per arrivare a “F”, traccia che oltre a portare al capolinea il disco, rimarca a fuoco la potenza di questo trio, di questo ottimo guazzabuglio di note, pensieri e bollette energetiche dilapidate per sottolineare che Alessandro Mogni chitarre e voci, Renzo Carbone basso e voce e Marco Monga alla batteria non esistono a caso, ma sono qui per sintetizzare quella “natura delle cose” che spinge il filo conduttore della loro intemperanza rock ad andare ben oltre questo semplice e affermativo ascolto.

Questo disco non è altro che la punta di un “Iceberg”, non osiamo immaginare quello che cova sotto!

Voto: ◆◆◆
Autoproduzione


venerdì 23 marzo 2012

Julian Cope - Psychedelic Revolution (Recensione)

Julian Cope - Psychedelic Revolution “Signori e Signore”, piante e animali, cielo e terra, il Druido è tornato per guidarci ancora una volta. Una rivoluzione psichedelica universale, Julian David Cope un nome che verrà ricordato non solo per il suo estro musicale, ma sopratutto per la sua psiche genialmente incomprensibile per semplici esseri umani dal colletto bianco. Torna a piedi nudi con “Psychedelic Revolution” doppio album, undici brani e tanta voglia di ballare. Album politico-culturale, scomodo su ogni ambito (sessismo, razzismo, specismo) la prima parte dedicata ad Ernesto "Che" Guevara, la seconda a Leila Khaled. Una simbiosi perfetta fra musica, cultura e politica in chiave psychedelic/folk. Abituati alla versatilità dell'artista “Raving on the Moor” stupisce ugualmente, altro che delirio, l'album emana da subito un'epocale potenza. S'imprimono nella testa già dal primo ascolto “Vive le Suicide” capolavoro, “Cromwell in Ireland” una birra con gli amici mentre il bar viene bombardato (come da consuetudine, Cope si avvale di una singola registrazione in ambito canoro). Lo stile è sempre lo stesso anche il Mellotron 400 sarà quasi sempre protagonista, “Revolutionary Man” allegria ed energia pura, prima di “As the Beer Flows Over Me” un brindisi funebre, un bombardare incessante che dona il riverbero perfetto, vetri frantumanti, macerie e tanti doppi sensi. Quale sepoltura migliore per Guevera se non con “Hooded & Benign” nove minuti nostalgici instile 70's.
Ospite, Lucy Brownhills apre magicamente la seconda parte dedicata alla palestinese Leila Khaled. Qui lo stile cambia, saliamo un po' con gli anni “X-Mass in the Woman's Shelter” ma non troppo. Come preannunciato l'album è un vero e proprio libro di storia universale, ne è testimone “Roswell” quasi otto minuti per raccontare questa storia attorno al fuoco, un Mellotron 400 a fondere gli acuti e dar vita ad un sound davvero non identificato. Si cambia tutto “Because He Was Wooden” folclore pagano ad alto potenziale, un disastro ambientale ed emozionale per le nostre orecchie. Ancora sotto shock giungiamo alla fine “The Death of Rock 'n' Roll” arpeggi, tamburi ed eco, son morti gli ideali, son morti gli eroi ed ora muore anche il Rock 'n' Roll.
Una grande nostalgia inculcata da questi undici brani vecchio stampo, ma vecchio non è Julian Cope ancora pieno di idee e di rabbia, in allegato all'album c'è un booklet di sedici pagine, poesie ed urla silenziose prima dell'arrivo di un secondo doppio in uscita entro la fine dell'anno intitolato “Revolutionary Suicide”.
Voto: ◆◆◆
Label: Head Heritage

The Softone – Horizon tales (Recensione)

The Softone – Horizon talesImmaginate un unico, lungo zigzagare di stili, impressioni e rumors che non si sa dove andrà a finire. Immaginate un artista polverosamente Hobo, dalla cultura musicale aperta che nel giro di un disco illumina uno sfaccettato crossover d’Americana ricco d’eccellenze sonore che rimanda – fatte le debite proporzioni – alla stagione più avventurosa dei dischi all’ascolto di tempra writing-fusion; è The Softone, moniker sotto il quale si cela il musicista napoletano Giovanni Vicinanza, uomo, artista e musico che scandaglia a fondo l’espressione della sua vera essenza, vale a dire sfumare – in questa nuova avventura - blues, rock, forme stuzzicanti di tradizione country e brividosi fantasmi southern per stiparli nella genialità di questo suo secondo disco “Horizon tales”, undici tracce che bramano sfrecciare sulle highway americane, volare sui sentieri degli Appalachi, addirittura colorarsi dei sogni del Mid-West, e nascondersi dietro i bordelli Southern senza mai dimenticarsi di respirare nel recondito la brezza soffusa della bella Mediterraneità.

Calori vintage coprono come un plaid a quadrettoni tutta la capienza della tracklist, calori senza tempo, crudi e raffinati, a tratti magici che alla fine formano un viaggio immaginario che è in grado di portarci lontano, molto lontano, oltre l’Oceano; un percorrere radici che vanno ad intrecciarsi con carature ispaniche “Matamoros”, tra saguari cichani e rettili TarantinianiSon of a God”, nella radicalità sulfurea di un Cave tratteggiata da un contrabbasso ed un beccheggio di penna da paura “True blues”, immerse nelle ballata di sangue HiattHarmless is vulgar” oppure perse di bellezza tra gli stop & go chitarristici dove puzze d’acqua stagna, alligatori ed Eric Sardinas fanno il cavolo che gli pare “Alien lanes”.

Ma in verità, più che un viaggio è un sospiro lungo, un nitido splendore che si dilata all’infinito salendo a cono verso un cielo, come una vertigine che tra terra e cielo vuole disegnare una pellicola musicata chiudendo gli occhi e violentare il cuore ed il suo tonfo concentrico.

The Softone, il gioiello che manca alla tua collezione di cose per cui vale la pena viverne suoni e brividi “It’s because”.

Voto: ◆◆◆◆
Label: Cabezon


giovedì 22 marzo 2012

Autoclav1,1 - Embark on departure (Recensione)

Autoclav1,1 - Embark on departure Stati Uniti. In una terra in cui elettronica significa principalmente detroit techno e industrial metal, laggiù nell'underground (ma non troppo) c'è Tony Young, famoso in passato come promoter di certa scena elettronica intelligente (e neanche troppo), ambientale e dura, serrata ed ermetica come un autoclave, influenzata talvolta da certa breakcore d'assalto ragionato talvolta dall'elettronica passata e ripassata nel calderone e quindi svuotata di ogni carica esplosiva, e da qualche anno musicista in prima persona, esponente di un genere che sta emergendo sempre più forte tra webradio e ristrette cerchie di locali. Young propone una formula ancora fresca e interessante, posta perfettamente all'interno del suo tempo, all'interno del clima post-IDM da guerra nucleare alla quale egli risponde estremizzando la formula e rendendola meno friendly rispetto alle sperimentazioni dei suoi, seppur enormemente più blasonati, colleghi di lavoro. Autoclav1.1 non è un genio ma conosce la sua materia sonora e si presenta molti passi avanti, si propone come una ottima alternativa alla maggior parte del panorama commerciale attuale, proprio in quanto se ne pone al di fuori. Si diceva che non è un disco che fa gridare al miracolo, non è un capolavoro ma è un ottimo ascolto. Nonostante indubbiamente il tutto suoni molto bene e ci sia un chiaro legame tra la maggior parte dei brani, tutti di alto livello, Young non dice nulla di nuovo e si attesta su quella formula di alto livello di musica intelligente e austera nella sua freddezza monumentale. Così il disco và avanti intervallato da esperimenti differenti come in Recent conversation, brano breakcore d'assalto, la metallurgica Scars e la successiva InhaleExhale, altrettando dura. Successivamente si torna sui toni freddi, cupi e ambientali fino alla conclusiva Stop the clock, e il disco si ripete sempre, all'infinito, come un loop senza un reale inizio e una reale conclusione, in un ascolto che convince ma che non si pone come paradigmatico. Un disco consigliato agli appassionati del genere.

Voto: ◆◆◆
Label: Tympanik audio

mercoledì 21 marzo 2012

Iori's Eyes - Double Soul (Recensione)

Iori's Eyes - Double SoulE' più affascinante un ristorante alla moda dal design curato e minimale o una trattoria casereccia?

Una risposta oggettiva non esiste. Personalmente ho sempre subìto il fascino di entrambi gli ambienti, se ben gestiti, apprezzandone in uno la ricercatezza nel gusto estetico e nell'altro la solida e spesso longeva genuinità delle dinamiche sociali.

Clod e Sofia, a.k.a. Iori's Eyes, hanno da poco inaugurato il "Double Soul". Avendoli visti cucinare prelibatezze per anni, destreggiandosi tra antipasti post-rock, primi piatti a base di folk acustico seguiti da secondi dal retrogusto electro-pop, mi immagino di trovare un locale generosamente arredato con le esperienze acquisite nel corso del lungo apprendistato culinario. Ad accogliermi, appena oltre la porta, trovo Clod che con una voce soave e confidenziale, ricca di quelle rare frequenze basse in grado di accarezzare lo stomaco (a mio avviso sempre troppo sacrificate a favore di quel falsetto androgino ormai marchio di fabbrica della ditta Iori's Eyes e mai come in questo caso in perfetta linea con il concept di base del disco) mi sussurra all'orecchio i versi di Wake Up Friend (P.vo) accompagnandomi al tavolo.

L'arredamento è scarno, ridotto all'osso. La luce è soffusa.

Mi siedo e do un'occhiata al menù. Delle abbondanti portate del passato non sembra esserci traccia ma, incuriosito, fiducioso ed impaziente, decido di prendere tutto quello che mi offre il menù. Le prime portate (All the People Outside Are Killing My Feelings, Bubblegum, Winter Olympics) hanno il gusto forte ed intenso della Bristol anni '90 e la ricercatezza minimale della giovane ondata elettronica contemporanea, tanto da far pensare che al di là delle porte della cucina si nascondano, indaffarati tra i fornelli, Massive Attack e Maxi Jazz assistiti dai giovani apprendisti James Blake e Nicolas Jaar. Something's Comin' Over Me e Vlad hanno un sapore più deciso e personale, ma basta poco perché le papille gustative si ritrovino a riassaporare quegli aromi così gradevolmente anglosassoni quanto pericolosamente ingombranti, provati ad inizio cena (In Love With Your Worst Side, con lo zampino degli Aucan, The Merging e Why Here She Is?). Infine, tra i dessert, la casa propone la martellante dolcezza di They Used to Call It Love a riscoprire quella piacevole personalità stilistica troppo spesso nascosta tra luci soffuse ed ingredienti di importazione.

Esco dal locale con la bocca gustosamente trionfante di sapori, ma non completamente sazio.

"Double Soul" è un esordio ambizioso, ricco di gusto estetico e formalmente impeccabile; affascinato, tornerò spesso a cenare da Clod e Sofia, attendendo con ansia l'apertura della prossima filiale, sicuro di trovarci, oltre alla cura e alla ricercatezza di un locale all'ultima moda, anche i pregi di una vivace ed amichevole trattoria.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: La Tempesta Dischi


Asino - Crudo Ep (Recensione)

Asino - Crudo EpAsino è formato da due somari casinisti di nome Orsomaria Arrighi (chitarra, valigia e voce ragliata) e Giacomo "Jah" Ferrari (batteria e cori ragliati ). Ti metti all'ascolto di questi sette sporchissimi brani e ti accorgi che è come quella miscela ideale su non genere tra Shellac, Nirvana (si parla di Bleach) e Lightning Bolt che hai più o meno sempre sognato per digrignare i denti dalla rabbia e dar sfogo ad ogni tua recondita frustrazione. Asino è immune al fascino delle velleità italiche che tanto aiutano a campare e anzi, parafrasando il Bukowski de “Il Capitano é fuori a pranzo”, non esita a ragliare contro coloro “troppo presi a scopare, film soldi, famiglia”(“Chinaski”) Asino sbatte la testa, cade e si rialza bestemmiando -“Il cadere stanchi è come avere le spalle al muro con un fucile che ti guarda sorridendo...l'importante è cadere e avere la forza per rialzarsi. Dio cane..”- (“Non E' Tutta Colpa Di Uno Scalino”) ; è un equino cocciuto, rumoroso al quale non fregano le buone maniere, che mangia gli uomini di buona volontà, scalcia furioso contro di noi con la chitarra scordata a specchiarsi nell' ampli, si veste di feedback, malmena brutalmente piatti e pelli ed esterna un' urgenza mai così diretta, violenta ed irragionevole. Gli spintoni hardcore (“Lui Era Contentissimo”), le declinazioni a metà strada tra reading e delirio post-core, (“Pre '67 D.C.”), le cavalcate acide, folli e sbilenche (“Asinosauro”), i pestoni tra lamine di rumore e visceralità corale (“Mi Sono Bruciato Con i Coriandoli”), sono prova evidente del forte piglio sardonico espresso dalla band, di una saturazione d'intenti e sentimenti che esplode in tutta la sua incompromissoria violenza. Asino sono due tizi che non hanno paura di vomitarti addosso il loro ammasso di bile marciscente e farti pogare fino a crepare. Asino è punk tutto l'anno, non solo a Carnevale.
Questa è roba che non saprete bene come definire. Musica che probabilmente non vorrete mai ascoltare se non (bene o male) predisposti, cruda come il titolo che svetta in copertina. Sono canzoni sbagliate, tecnicamente improprie, registrate in diretta come flusso di coscienza istantaneo, con i suoni della saletta e senza tante menate. Roba che troverete mille scuse per non farvela piacere. Che lo vogliate o meno questa è musica che vuol dire qualcosa, fatta per sé stessi e scagliata in questa lotta infinita tra poveri. Questa è collera, violenza, esternazione del proprio fastidio. Questa è musica. Quella che può contare ad un certo punto.
La cosa terribile non è la morte, ma le vite che la gente vive o non vive fino alla morte"

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: fromSCRATCH Records                                                                                                            

Leggi qui l'intervista ad Asino

martedì 20 marzo 2012

The Mojomatics - You Are The Reason Of My Troubles (Recensione)

The Mojomatics - You Are The Reason Of My TroublesA dispetto di un titolo dal tono perentorio, che in italiano suonerebbe più o meno come "Tu sei la causa dei miei problemi", il nuovo album dei Mojomatics attira l'attenzione afferrando la grinta per le orecchie come un coniglio dal cappello ed esplode immediatamente in una conflagrazione di allegria. Ci ritroviamo con una sveglia musicale impazzita sul comodino a tirarci giù dal letto insistendo che ci si butti dell'acqua fresca in faccia e si cominci la giornata come si deve. Il duo veneziano, composto da Matteo Bordin alla voce e alla chitarra e da Davide Zolli alla batteria, dopo una lunga serie di EP, una collezione di greatest hits e tre album, ritorna allegramente in scena con le sue irresistibili chitarre e ci prende per le spalle scuotendoci musicalmente con vigore.
"You Are The Reason of My Troubles" ,frutto di tre anni di duro cesello e di un attento studio sull'addolcimento delle tracce, si fa ascoltare con prepotenza ricordandoci immediatamente i migliori lavori di Byrds e Kinks, e si impone all'ascolto con sfacciataggine tra cembali e semplici giri di accordi su cui la voce, vagamente Dylaniana nel fraseggio, intona melodie pulite ed orecchiabili, talmente dirette da riuscire ad ispirare un'allegra fischiettata ancor prima del sing along.
L'album è una collezione di piccole esplosioni musicali ed irrompe senza mezzi termini con la spensierata "Behind the Trees", una sorta di inno estivo scandito da un handclapping alla George Harrison che mette immediatamente di buon umore mentre "You don't give a shit about me", disperatamente ispirata a Dylan con la sua fisarmonica ed il suo tappeto di chitarra folk, allenta leggermente la sfrenata gioia delle tracce precedenti regalando un momento di malinconica riflessione stemperata nell'ironia.
"Feet in the hole" è un blues incalzante che si impone con un'interessantissima sezione ritmica in solo raggiunta in seguito dal resto della strumentazione e dal cantato.
A chiudere l'album ci sono "Ghost Story",che ribadisce gli spudoratissimi richiami retrò agli anni '60 in un giro di piano di stampo profondamente beatlesiano, e "Her Song" che suona come una b-side dei Beach Boys tra atmosfere sognanti e chitarre in eco.
"You Are The Reason of My Troubles" è un curatissimo tuffo nel passato, un'allegra raccolta di tracce dal sapore vintage che cantano l'amore e la delusione nei toni dell'irriverenza e della spontaneità più diretta.
Curato maniacalmente nel dettaglio, sia a livello strumentale che nella registrazione analogica e nell'artwork, quest'album celebra la passione del duo veneziano per i Sixties e per le felici sonorità che li caratterizzavano, divenendo un tributo alla canzone di buon gusto e all'onestà di un periodo musicale genuino e senza fronzoli.

Voto: ◆◆◆◆
Label: Outside Inside Records/ Wild Honey Records

Oratio – Discorrendo senza ratio (Recensione)

Oratio – Discorrendo senza ratioChitarre, nervi, poesia, tenerezze, timbriche miste ed una buona impostazione d’acchiappo per l’ascolto, questo è il segreto della gradevolezza di questo secondo cd di Andrea Corno in arte Oratio, poeta a sbieco, siciliano e con tante cose da dire e cantare che sapientemente affida a questo “Discorrendo senza ratio”, dodici finestrelle aperte e qualcuna semichiusa su un mondo distratto, acuto, che lascia in dote il senso e la predisposizione irrefrenabile di adottarlo e farne un piccolo “campo volo personale” per sognare fitto alla bisogna.

L’alchimia di questo cantautore volatile è quella di racchiudere dentro l’energia della tracklist la vera interpretazione del richiamo poetico e quella sana leggerezza cha fa bilance e che una volta unite trasgrediscono il mero ascolto per un perfetto spruzzo d’innovazione che va a schizzare oltre il solito andazzo cantautorale, quello delle premesse e dei dettagli impresentabili; una bella mutazione senza trucchi che sa rendere al meglio ogni situazione, dunque non solo una “fotografia” ma un buon disco variegato, diretto che esplode ed implode, gigiona e gattona in un “freestyle” di tradizione, deliri e scatti rockeggianti.

La contemporaneità mai finita di GaetanoPirati”, “Sparirò”, l’inganno impacciato di una spennata alla FiumanòIl laccio”, il caracollare mex snocciolato da “Non c’è pericolo”, un Gazzè intimisto “Sonno stregone” e quel pezzo “italiano d’America” appeso al broncio dondolante di Badly Drawn BoyCT-PA disegnano la strada intrapresa da Oratio, giovane guascone di una profonda favola reale urbana, affabulatore moderno all’interno di un quadro immaginifico, stupendo.

Imperdibile oltre che per l’orecchio, per un’esperienza di lievitazione momentanea dal quotidiano sopravvivere.

Voto: ◆◆◆
Label: Malintenti Dischi


lunedì 19 marzo 2012

Vacanza - S/t (Recensione)

I Vacanza sono i Raein che hanno incontrato il demonio e hanno pensato bene di traghettare un po' di anime perdute. C'è il solito screamo accacì come piace a noi, c'è la voglia di buttar via la bile come fosse di troppo, la sofferenza che contraddistingue il genere, la totale mancanza di forma ma al contempo il desiderio di plasmare una nuova realtà nell'ascoltatore. L'esigenza di piantare anche loro uno spillo dentro la coscienza per causare quel fastidio così forte che porta inevitabilmente ad urlare, ma anche il rifiuto della realtà, mettersi le mani davanti agli occhi (con tanto di cover esplicativa) per incontrare il buio ("Adesso che tutto questo tempo mi ha preso a coltellate non sapreidove andare"). Un sette pollici che, per chi conosce il genere, non aggiunge niente di nuovo al panorama hardcore, tuttavia è pur sempre affranto al punto giusto da essere accettabile.


Non c’è altro da aggiungere, beccatevelo sul Bandcamp, così aiutate anche le balene in estinzione che piacciono tanto ai Vacanza.

"troppo presto per svegliarsi, troppotardi per riprender sonno"

Voto: ◆◆◆
Label: La Fine & Fallodischi

Nolatzco - Assalto alla Luna (Recensione)

Nolatzco - Assalto alla LunaLa rinata Psicolabel di Giorgio Canali torna, dopo Operaja Criminale, con un ennesimo esordio, quello dei Nolatzco di Giovanni "Nanni" Fanelli , ex leader dei Quinto Stato nonchè attuale bassista dei Rossofuoco. Ed infatti Assalto alla Luna non può che avvalersi di quel sound rock graffiante tipico della band del Giorgione nazionale, qui al mix, mastering e post-produzione. Immerso in liriche poetiche ma sempre intrise di una forte componente di denuncia, ciò che colpisce con effetto immediato dei Nolatzco è quel tiro genuinamente viscerale e la sfrontatezza con la quale elargiscono il proprio messaggio. Diretto e ruvido, Assalto alla Luna presenta dieci tracce ben dosate tra intermittenze post-punk (l'adrenalinica opening "Babyrivoluzione") derive di pura disillusione cantautorale (il Canali apocrifo di "Tutto Svanisce" o la struggente "La Ballata dei Cuori Intermittenti") espliciti ed irati sfoghi ("Educati al Successo" -"Condannati alla nullità, con il cervello a mollo nel cesso...", le follie tumultuose di "Signorina Diesel" con tanto di armoniche di Canali -"Inghiottito dalla fica, masticato e rigettato...") e digressioni verso poetiche lande post-rock degne di band come Massimo Volume o Offlaga, tra testi recitati e crepuscolari decadimenti d'atmosfera ("Avida sale la nebbia e si dissolvono i contorni di questa notte atroce di devozione a te...", la stupenda "Un Caos che ti Assomiglia"). La sognante avvenenza wave della title track o il sofferto crescendo di "Lullabymoon", a metà strada tra un cantato a là Manuel Agnelli e infrastrutture soniche dei primi Marlene, mostrano l'altra faccia del progetto nello spingersi in contesti meno abravisi a mettere in risalto le componenti più mature della scrittura.

Liriche che rimangono impresse ed una produzione di tutto rispetto convincono in un'opera che tende, nell' avvalersi di svariati rimandi ad esperienze di chiara indicizzazione alternative italico, a rendersi portavoce in ogni caso di una certa personalità e tenere ben alta l'attenzione durante l'ascolto. Il futuro passo dei Nolatzco verso la totale maturità, sarà quello di smarcarsi completamente dalla personalità di Giorgio Canali e rendersi padroni di uno stile che, nel bene o nel male, cerchi di allontanarsi dall'ombra della tradizione rock classica italiana.

Voto: ◆◆◆
Label: Psicolabel

domenica 18 marzo 2012

Movie Star Junkies - Son of the Dust (Recensione)

Movie Star Junkies - Son of the DustI torinesi Movie Star Junkies tornano con un terzo lavoro firmato Outside Inside Records e tratteggiano per noi un'atmosfera cupa e torbida che sembra richiamare quelle storie e quelle leggende metropolitane raccontate dai fratelli maggiori davanti ai fuochi di bivacco per farci salire un brivido lungo la schiena e farci stringere in un solidale abbraccio con la luce mentre dietro di noi tutto è nero.
"Son of the Dust" è infatti un album crepuscolare, una collezione di pezzi blues a tinte fosche impreziosito qua e là da momenti di punk scolorito. Sono storie che ci immergono in un bosco oscuro, ad abbandonare una volta per tutte il campo visivo ed a farci guidare dalla voce ruvida e profonda di Stefano Isaia, che a tratti ricorda quella di Strummer, e che narra per noi di cupi personaggi e loschi affari.
A dipingere lo sfondo di una così fosca esperienza si mescolano con perfetta sincronia solenni cori, chitarre in lento finger picking, organi vecchio stile, una voce cadenzata e alcolica che sembra fatta apposta per rivangare a grandi zollate tutte le storie sepolte e mai raccontate.
I Movie Star Junkies propongono dunque un lavoro che sembra essere un incontro frontale tra l'oscurità senza fine di Nick Cave e lo scanzonato blues psichedelico dei britannici Coral offrendo un ascolto che ha del profondo e che tiene avvinti come un ottimo thriller storico a vicende e soggetti di storie rivelate come un segreto da troppo tempo taciuto.
L'album si apre con "These Woods have Ears" in cui sono gli organi a farla da padrona mettendo in piedi uno scenario che risveglia orecchie sopite come di fronte ad una nuova scoperta, un epilogo da tempo cercato. Le chitarre si mescolano ai cori ed entrambi sembrano rieccheggiare da certe profondità dimenticate.
"The Damage is Done" trasporta le sonorità cupe dalle chitarre alla voce, qui infatti la ritmica incalza i tempi della traccia affidando al cantato le sfumature malinconiche che caratterizzano l'album.
Con "End of the Day" ci si trova di fronte ad una sorta di epica marcia western, polverosa come un regolamento di conti, mentre la traccia di chiusura "How it all Began" regala all'album uno sprazzo di luce soffusa, rallegrando i toni con un tappeto ritmico particolare e accenti squillanti di chitarra in sottofondo.
Ciò che impreziosisce l'intero lavoro sono i cori di Nathalie Naigre, Marie Mourier e Federico Zanatta (Father Murphy): è infatti l'intrigante intreccio di voci di sottofondo a dare a "Son of the Dust" un taglio rugginoso ed epico, una sorta di salto di qualità nell'atmosfera e un contributo importantissimo per la riuscita di un concept così ben definito. Le chitarre si dipanano come gli scenari di un vecchio film, dipingendo gli sfondi a grosse pennellate e la voce al rum di Stefano, marchio di fabbrica della band, permette all'intero lavoro di rimanere profondamente aggrappato all'ascolto restando in testa anche a disco finito.
Un album che sa dunque di buio e storie stantie raccontate fra respiri di whiskey. Un' avventura per coraggiosi tra "foreste che hanno orecchie" in un paesaggio autunnale e decadente che concede rivelazioni e coinvolge l'ascoltatore in confidenze dolci amare e impronunciabili segreti. Un sonoro circolo vizioso, esclusivo e selezionato,solo per gli adepti al buio e gli estimatori della malinconia nei misteri.

Voto: ◆◆◆◆
Label: Outside Inside Records



sabato 17 marzo 2012

Anelli Soli – Malomodo (Recensione)

Anelli Soli – MalomodoSnodano una lingua tra il tenero e lo sfacciato, suonano evanescenti e scoppiano in lapilli, formano un punto di partenza tra chiccherie acustiche e sequenze amplificate, hanno la leggerezza fluttuante di un aquilone e la sospensione umida atmosferica di venti litri di pioggia, tutti contorni che intontiscono di bellezza surreale. Si chiamano Anelli Soli, Luca e Marco Anello ora con Antonio Stella e “Malomodo” è il loro svenire sonoro volatile, il disco che finalmente ci rapisce via e mette un salutare “incomprensibile” tra noi ed il mondo fotocopia che ci trattiene ogni giorno.

Folk strattonato, poetica picaresca, lacerazioni teatrali off e miracolistiche indie-funamboliche attraversano queste undici tracce che dischiudono dolcezze e resoconti sconfinati, una distanza impressionante da quello che siamo – per la verità mai abituati - a sentire da cose sonanti provenienti dal sottobosco dell’emergenza, una forma sformata di canzone tra i vortici imperturbabili ed alchemici di una creatività pienissima che la Sicilia continua a partorire a raffica, in uno “sbarco” sonoro senza pari e di splendore naif; il popolo indie-folk isoscele andrà in brodo di giuggiole nel sentire questa bell’orbita colorata, questo biglietto da visita per il “mondo particolare” degli Anelli Soli che setacciano come alieni le coralità scordate e ubriache del folk alla Gong Youppi du per bambole (Oh papà), il thrillerrock che seghetta “Santaresa”, una taranta che giura di spaccare il culo a tanti “La classica scena in cui muoio”o la drunken-ballad sulle onde e i cavalloni sixsteen “Come Ernesto l’ombra”.

Con la forte attitudine di un Vittorio Cane o del Pan del Diavolo, gli Anelli Soli sono una scoperta che segnerà di molto il terreno alternativo, sono surreali ed intensi, storti il giusto e gioielli esaltati di verve psicotica, il loro mondo risuona di feroci anticipazioni sotto il tendone delle nuove proposte e queste tracce danno l’ebbrezza di un sogno/incubo che si materializza in arte fresca, giovane e baldanzosamente Barnum “Viaggio intorno al suo cranio”, tesa nelle corde murder-acustiche “Canzone per persone buone” o persa nella dolcezza corale senza fondo, alla Devics, che “Il cane stanco” rilascia come un saluto amarognolo a piè tracklist.

Riduciamo i tempi e diciamocela tutta, i siculi Anelli Soli sanno perfettamente dove colpire diabolicamente l’ascolto e questo disco lo potremmo giudicare o complementare, o scandalosamente bello o solo rimbombante, ed è appunto qui che il suo animo “grande” sta nell’essere, in ogni momento, le tre cose insieme.

Voto: ◆◆◆◆
Label: Seahorse Recordings

venerdì 16 marzo 2012

Jester at Work - Magellano (Recensione)

Jester at Work - Magellano Ci sarebbe da chiedersi quanto la dimensione privata influenzi artisti intenti a far, più che arte, artigianato. Opere rustiche che nascono dalla propria estensione più intima per poi abbracciare la causa live nei locali di turno, portando quelle atmosfere e suggestioni impresse tra le proprie quattro mura in ambienti più ampi. Magellano oltre ad esser stato il primo esploratore a circumnavigare il globo è anche il nome della via in cui vive il pescarese Antonio Vitale che decide così di intitolare il suo secondo album. Magellano nasce nelle immediate vicinanze di un porto e mostra i tratti tipici di un'opera minimale ed introspettiva sviluppatasi attorno ad esigenze artistiche fortemente incanalate in contesti artigianali. Ne è forte prova l'uso della registrazione analogica, quel fruscio di fondo onnipresente, quasi protagonista in quei brevi silenzi che emergono tra accordi e arpeggi di chitarra, strumenti accessori come il metallophone ed una voce che sembra quella di un Lanegan con meno nicotina in gola e dotata di quella leggerezza impalpabile che tanto ci fece amare Nick Drake (“vedere “The Branch” e Come Back Soon”). C'è dunque di fondo un forte richiamo alla tradizione cantautorale anglosassone (John Martyn) e d' oltreoceano (Tim Buckley e, i più recenti, Will Oldham e Elliott Smith), in un songwriting maturo e convincente. Il calore emozionale dell'opera nel suo insieme si avvale anche di episodi tipicamente più aperti alla sperimentazione come “Green Eyes” o abbraccia la causa folk più classica in “Little Sad Song”, breve intermezzo a là Johnny Cash corrotto solo da accenni fantasmagorici di piano vibrato. Le pennellate dell'affresco si fanno più cupe e, se possibile, ancora più confidenziali sulle note di “Deep Black Sea” e “Unsolved (Mistery) Misery” mentre, a riprova di un talento versatile, giungono le mantriche lisergie di “Estacion 14” o l'indolenza crepuscolare di “This Night Will Be Dead”, a lasciar intendere quanto lo stile di Vitale si ponga come una sorta di vademecum dell'estetica d'autore globale. A mettere il punto ad un lavoro che, senza saperne la provenienza, difficilmente assoceremmo alla nostra penisola, vi è la splendida “Alphabet Tree” legata ad una tradizione country-blues immortale che non potrà mai smettere di affascinare.

Come Magellano partì per mari e terre inesplorate, così Jester at Work è pronto per salpare da quello stesso porto nei pressi del quale questa bellissima prova ha avuto origine ed inserirsi meritevolmente in un contesto musicale più grande. Mettetevi comodi, tabacco in una mano, bicchiere di whiskey nell'altra e lasciatevi andare tra le pieghe acustiche e pregne di salsedine di Jester.

Voto: ◆◆◆◆

Label: Twelve Records

giovedì 15 marzo 2012

Air - Les Voyage Dans La Lune (Recensione)

Air - Les Voyage Dans La LuneNel 1902, Georges Melies proiettava il suo ‘Voyage Dans la Lune’ e con fare sornione parodiava l’estrema aspirazione dell’uomo di raggiungere la luna. Nel 2011 gli Air producono il loro ‘Voyage Dans La Lune’, disco che verrà distribuito in sole 70.000 copie in tutto il globo terrestre insieme alla versione restaurata del film.

Gli Air non sono qui per dare la loro personale colonna sonora ad un film senza tempo (ha più di cent’anni, poi); per quello esiste la distribuzione in larga scala. In verità, quello di Nicolas Godin e Jean Benoit Dunkel è un disco che vuole essere un omaggio ad un opera venuta prima di loro eppure così vicina a loro.

Se quello di Melies era un film innovativo nel suo ridicolizzare ed allo stesso tempo (psico)analizzare le velleità megalomani del mondo mortale, questo degli Air è a suo modo un film, una descrizione sonorizzata di un possibile giro del piccolo satellite che gira intorno alla terra. Risultato? Un mondo fantascientifico a colpi di elettronica e tanta, ma tanta teatralità. Non c’è bisogno di perdersi in manierismi o elucubrazioni sul quid di quest’album: è un concept album con l’intento di raccontare una storia, scandito per pezzi come del resto un film o un cortometraggio necessita di stacchi nello svolgimento di una storia. Non mancano collaborazioni interessanti, come Seven Stars con Victoria Legrand dei Beach House, o con l’americano Au Revoir Simon ne Who I Am Now. Il risultato è un simpatico ed avveniristico pandemonio di elettronica, sinfonia e suggestive atmosfere soft e dream pop alla ricerca di un punto di amalgama con un titolo (ed una cover) un po’ pesanti, ma nel senso buono, ossia quello del significato cinematografico se non ‘storico’ che porta. Nessuna emulazione, per quanto l’idea sia imprestata, si tratta di una ri-elaborazione unica che porta gli Air su di un altro livello, quello della band capace di mettere a punto un disco che non rappresenti semplicemente una raccolta di tracks, ma di un insieme completo di elementi. Le influenze sono notevoli, a partire da Parade che fa notevolmente il verso ai Daft Punk; non manca lo spirito anni settanta (come in Sonic Armada), che finisce in lunghe un po’ impolverate ballades ambientante in curiosi quanto bizzarri laboratori dei sogni della scienza.

Quello degli Air è un ottimo album, o meglio un’ottima colonna sonora. Ma non è quello che, alla fine, riesce ad essere. C’è molto nelle dieci tracce del duo francese che non traspare nella pellicola del 1902, per quanto bene possa essere stata pulita e rimessa a posto. C’è la luna più di cento anni dopo, e gli Air che la guardano di nuovo.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Virgin



Shana Falana - In the Light Ep (Recensione)

Shana Falana - In the Light EpLontano dai riflettori di aristocratiche vocalist come Florence, Zola Jesus, Anna Calvi e recentemente Lana Del Rey, in quel di Rosendale, New York c'è una miss che sotto la guida di gente del settore con ottime referenze (Kevin McMahon già al lavoro con Titus Andronicus, Swans e Realestate e Gareth Jones, Grizzly Bear, Mogwai, Interpol), esordisce in sordina con una delle opere più oniriche ed affascinanti degli ultimi tempi. In the Light è un viaggio metafisico, candido e minimale tra ethereal pop, shoegaze e psych-pop, che, anche nel trovarne le giuste coordinate di riferimento (Cocteau Twins, Galaxie 500, Slowdive), sembra volgere in favore di un approccio musicale a metà strada tra il poetico e il giocoso, a donar grazia fino in fondo ad una sorta di rituale perpetuo che si trascina per tutta la durata dell'ep. Shana Falana dipinge, con la sua splendida voce, sei affreschi evanescenti, registrati interamente in un loft di Brooklyn. L'approccio lo-fi ben si presta ad ambientazioni riverberate, languide dilatazioni, violoncello (di Jane Scarpantoni, Lou Reed, Yeah Yeah Yeahs, Kristen Hirsch), tastiere, arpeggi e comparto ritmico stilizzato. Una forte presa di coscenza delle proprie doti, in continue e mirabolanti crescite d'atmosfera. Brani resi traslucidi da una sorta di bolla lisergica onnipresente, rilassante e sfuggevole allo stesso tempo (“Dizzy Chant”, l'allucinata filastrocca “Light The Fire”), come una sorta d'immersione in una fiaba trascendentale perfetta nelle sue svariate fascinazioni. Si aggiungano i perfetti singoli più marcatamente pop e dai forti picchi emotivi come “In The Light”, i richiami a certo alternative (“U.R Everything”, una sorta di Melissa Auf De Mar in salsa sognante) lasciandosi poi andare alle considerazioni di un finale festoso ed esplosivo (“Yea Yeah” su rimembranza Sigur Ros) e sarà chiaro fin dal primo ascolto che quello di Shana Falana è un nome da appuntarsi assolutamente.

Intrigante con il suo stile a metà strada tra musa eterea e hippie navigata, un po' Enya, un po' Feist, Shana Falana si configura come una personalità di tutto rispetto e dalla quale ci si aspettano grandi cose in futuro.

L'album è in download sul bandcamp dell'artista a questo link con la formula del "pay what you want".

Voto: ◆◆◆◆

Label: Autoproduzione

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