Voto: ◆◆◆◆◆
Label: To lose la track e Shove Records
Dunque rock blues con accenti hard stilizzati all’epopea Grand Funk Railroad “Dark side”, confrontati col vicino ieri di Black Crowes “Can’t satisfy me now”, “Walking through stone” nel quale Ethan Miller e Soci sguazzano e gestiscono un suono forte, intraprendente e “storico” su tutti i fronti, con i tiraggi elettrici di chitarra (Isaiah Mitchell) portati allo spasimo Santaniano “Phantom in the valley”, “Still walking, still stone”, le voci in falsetto sullo schema Gillan/The Darkness e ombre Sabbathiane, un fenomenale meltin’pot che non tradisce le aspettative e che alza la temperatura rock a livelli ottimali per eruttare attraverso i coni stereo; undici tracce da manuale ed emozioni incluse che formano un complesso panorama multi cromatico, un crescendo di battiti e pulsazioni venose dei grandi fasti rocker che il quintetto di San Francisco – anche introducendoci molto della loro identità musicale – pare omaggiare, se non addirittura coverizzare, miti, vezzi e “battute” del tempo che fu, ma ciò non toglie che l’orecchio né guadagni oltremisura.
Niente di dispersivo o altro che ci faccia allontanare dai soffi stimolanti e tiepidi dei twin lead guitars alla Allmann Brothers “Beneath wild wings”, bluastra la psichedelia che scorre in “Cheeroke werewolf”, delicata la partenza di “Strange thunder” che poi in un pentimento decide di prendersi chili di watt e vento sulle orme poetiche di Page o la rilettura della ballata zuccherina della James Gang “Collage”; niente di nuovo e nulla fuori posto, tutto riporta “la” nell’Eldorado culturale delle musiche/sculture che nessuno mai scalfirà, tanto meno il tempo e la sua volontà, solo uno speciale “riascolto” del fiato del caro rock e dei suoi possedimenti di splendore sonoro che gli Howlin’Rain contribuiscono a tramandare come un – e lo è – prezioso Vangelo griffato.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: American/Columbia
Sartre diceva che la nostra vita era una strana storia di esistenza, in cui ogni cosa esistente nasce senza ragione, si protae per debolezza e muore per combinazione. Un po’ come lo dicono i cinque di Riccione, in arte Nobraino, nel loro Disco d’Oro. E si, perché questa strana storia avrebbe un senso se bagnata in qualche metallo nobile, e non sarebbe semplice esistenza.
La favola dell’ultimo lavoro dei Nobraino è una favola d’oro. Ha una spessa copertura laminata con crepe a vista, luminosa quanto un sorriso sornione beffardo, un po’ perdente. E’ una favola italiana, fatta di clichè, dalle feste dei ragazzi ‘bene’ da Lulù "Cani E Porci", agli amori effimeri e velleitari di bagnini e tedesche in vacanza "Bademeister", toccando le beghe della quotidianità, come lo può essere il vicino che parcheggia su di un passo carraio "Il Mio Vicino". E se ogni pezzo scorre come una didascalia, un negativo, uno spezzone di vita e coralità, la voce è sempre la stessa, è sempre Lorenzo Kruger che in mille corpi riporta la sua anima irrequieta e smascheratrice, capace di dar vita ad un racconto teatrale, pieno e sentito. Kruger è a metà tra un dannato (e meno realista) De Andrè; a volte suona come un italiano Kapranos , come ne Record Del Mondo. Il suo è un flusso di coscienza che guida 41 minuti di surrealismi, lo stesso che appare nel quasi un minuto di un’ipotetica telefonata in Bunker: una nebulosa di concetti mai completi o correnti, che finisce ineluttabilmente ‘nella cassetta delle lettere, solo pubblicità e bollette’.
Quello che rimane è un affresco feroce e volubile di caratteri che si confondono e nascono l’un nell’altro, e fanno storia a parte. E’ una storia, una favola di piccolezze e bassezze (‘Voglio fare il record del mondo di chi sta più bene’) che attanagliano le povere anime come dubbi amletici. E poi perché la storia, quella vera, ‘passa e ci guarda, muta e impotente, dai polmoni bucati dagli spari di tutte le guerre’. E se i Nobraino sono la coscienza, sporca e un po’ viziosa di questo mondo che segue le sue logiche, trascinandosi nella caduta di un lucifero capriccioso e velleitario, un senso di perdita, di mancanza viene sempre a galla. Un po’ come con imprendibili muse che ‘con i miei dischi italiani, (..) inseguivo ma non ci ballavo mai’.’
Devo andarmene davvero, devo estinguermi così’ pare la nota finale di una storia la cui sorpresa finale vuol essere taciuta. E’ una farsa? E’ vera? E’ solo esistenza? Chi può dirlo. Quello umano è un teatrino come pochi, che vuol mettere coscienze contro contingenze, portando allo spreco umano. Ma come avrebbe detto il nostro francese, il tempo è troppo vasto, e non si lascia riempire – e tutto ciò che vi rimane "s’ammolisce e si stira", senza cedere del tutto. E del resto, chi non muore si rivede da Lulù.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: MArteLabel
Beat, pop, colori carta zucchero, ballate piacevoli e pruriti Korg e movimenti hip-hop casalinghi “Colpa del fonico”, “Il mondo ha perso” danno difficilmente una lettura di quanto sia – da parte di Edipo – un lavoro d’espressione naturale dentro un linguaggio sonico di tendenza oppure un sound ed una lirica adeguata alla moda del momento, se quest’ironia di repertorio sviluppa un’esigenza oppure è la velocità espressiva di una definizione d’approccio alla scaffalatura del mercato indie; nell’attesa che il tempo “di maturazione” stilistica si schiarisca in una bell’avventura Edipica, facciamo due passi lungo la tracklist di questo secondo disco all’attivo e quelle annotazioni che si facevano sopra circa le innocenti affinità artistiche con i grandi numeri italiani, esplodono con determinazione e peccati veniali, appunto il Battiatone d’antan “Idroscalo”, uno stranito Samuele Bersani al tempo di Chicco e Spillo che fa cucù in “Cattivo”, lontananze dello Zero Renato “Supertele”, un Bugo dance “I baristi stagionali” ed il Silvestri disilluso che tira rendiconti e ricordi nell’amara nebbia che copre la bella “I nudisti del Mar Baltico”.
Edipo sa scrivere e architettare bene, solamente un po’ – magari abbastanza – autonomia dai cliché ispiratori aggiungerebbe “lo stuzzicante” tic che manca, ovviamente per non ritrovarsi qui a disquisire – tra un mese o poco più - circa un’artista dal moniker “impegnativo” del quale non se n’è sentito più parlare.
Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Foolica Records
Ora che “S” vede la luce, il trio piemontese vira bruscamente la propria traiettoria, mettendo da parte le suggestioni noise/ataviche, sostituendole prontamente con massicce dosi di synth sotto cui riecheggia un leggero sostrato rumoristico, naturale cuscinetto ad un tatto melodico d’impatto immediato e trascinante.
Complici, dunque, una spiccata propensione alla melodia danzereccia, su cui s’innesta il calore vivo e pulsante di strumentazione classica, alternati a puntelli di elettronica dura&pura, “S” è un compendio preciso e dettagliato di sospiri dance esterofili che dalle nostre parti non hanno ancora trovato il proprio status definitivo, a cui questo disco aspira senza mezzi termini, assestando un filotto inarrestabile di potenziali inni da dancefloor (“Future Days” e il letale uno-due di “L.A. pt.1” ed “L.A. pt.2”), dilatazioni di psichedelia sintetica (“Picture Of The Sun”) o sognante shoegaze in falsetto (“Space Is the Place”) senza sbagliare un colpo o abbassare il tiro per un istante.
Import/export di (s)pregevolezza pop, “S” si rivela soprattutto per una spiccata sensibilità melodica (il singolo di apertura “Henry Miller” strizza più di un occhio alle melodie fluttuanti e psichedeliche degli Animal Collective elettronici) ed un’attitudine danzereccia mai prepotente, ma levigata da stratificazioni di suoni sintetici che ne aumentano lo spessore musicale, a corollario di un disco dalla forte maturità compositiva e spiccata spavalderia difficile da scovare nella marmaglia di band e dischi odierni, facendo di loro una band dall’indubbio valore aggiunto da coltivare.
Teniamoceli stretti, prima che vengano a rubarceli di soppiatto mentre restiamo inebetiti di fronte ai capricci dei teatranti di turno.
Voto: ◆◆◆◆◇
Spore di blues catarrosi “Per un attimo mi avresti voluto morto”, stimoli ed eczemi punkyes storti e quei calori soffusi – leggermente evaporati – di indielogie pregresse, fanno bella mostra in questo prodotto sonoro niente male, vivo e urticante, che viene, morde e riparte per altri lidi da intaccare, da stravolgere con la massa di jack e poesia tagliuzzata; un disco carico di urgenze e sentimenti pestati a manetta, tracce e spiriti ribelli che ripropongono la centralità della provincia come fenomeno debordante di nuove esigenze distorte e sparate a raffica, quell’esserci prepotente che non fa male ma solo bene per nuovi ascolti e nuove voglie da assecondare, e gli Iceberg su questo non si tirano certo indietro a sentire quello che hanno imbastito in questa tracklist altamente infiammabile.
Qui si amano i grandi volumi, le “intemperie soniche” che gestiscono la titletrack, gli stati esplosivi di calma apparente “Dosati meglio”, le dissolvenze Kuntziane “Clima”, “Nagasaki blues”, le ballate chete di Timoriaca memoria “In piena”, le coralità espressive che battono cassa in “Ercole” per arrivare a “F”, traccia che oltre a portare al capolinea il disco, rimarca a fuoco la potenza di questo trio, di questo ottimo guazzabuglio di note, pensieri e bollette energetiche dilapidate per sottolineare che Alessandro Mogni chitarre e voci, Renzo Carbone basso e voce e Marco Monga alla batteria non esistono a caso, ma sono qui per sintetizzare quella “natura delle cose” che spinge il filo conduttore della loro intemperanza rock ad andare ben oltre questo semplice e affermativo ascolto.
Questo disco non è altro che la punta di un “Iceberg”, non osiamo immaginare quello che cova sotto!
Voto: ◆◆◆◆◇
Autoproduzione
Calori vintage coprono come un plaid a quadrettoni tutta la capienza della tracklist, calori senza tempo, crudi e raffinati, a tratti magici che alla fine formano un viaggio immaginario che è in grado di portarci lontano, molto lontano, oltre l’Oceano; un percorrere radici che vanno ad intrecciarsi con carature ispaniche “Matamoros”, tra saguari cichani e rettili Tarantiniani “Son of a God”, nella radicalità sulfurea di un Cave tratteggiata da un contrabbasso ed un beccheggio di penna da paura “True blues”, immerse nelle ballata di sangue Hiatt “Harmless is vulgar” oppure perse di bellezza tra gli stop & go chitarristici dove puzze d’acqua stagna, alligatori ed Eric Sardinas fanno il cavolo che gli pare “Alien lanes”.
Ma in verità, più che un viaggio è un sospiro lungo, un nitido splendore che si dilata all’infinito salendo a cono verso un cielo, come una vertigine che tra terra e cielo vuole disegnare una pellicola musicata chiudendo gli occhi e violentare il cuore ed il suo tonfo concentrico.
The Softone, il gioiello che manca alla tua collezione di cose per cui vale la pena viverne suoni e brividi “It’s because”.
Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Cabezon
Una risposta oggettiva non esiste. Personalmente ho sempre subìto il fascino di entrambi gli ambienti, se ben gestiti, apprezzandone in uno la ricercatezza nel gusto estetico e nell'altro la solida e spesso longeva genuinità delle dinamiche sociali.
Clod e Sofia, a.k.a. Iori's Eyes, hanno da poco inaugurato il "Double Soul". Avendoli visti cucinare prelibatezze per anni, destreggiandosi tra antipasti post-rock, primi piatti a base di folk acustico seguiti da secondi dal retrogusto electro-pop, mi immagino di trovare un locale generosamente arredato con le esperienze acquisite nel corso del lungo apprendistato culinario. Ad accogliermi, appena oltre la porta, trovo Clod che con una voce soave e confidenziale, ricca di quelle rare frequenze basse in grado di accarezzare lo stomaco (a mio avviso sempre troppo sacrificate a favore di quel falsetto androgino ormai marchio di fabbrica della ditta Iori's Eyes e mai come in questo caso in perfetta linea con il concept di base del disco) mi sussurra all'orecchio i versi di Wake Up Friend (P.vo) accompagnandomi al tavolo.
L'arredamento è scarno, ridotto all'osso. La luce è soffusa.
Mi siedo e do un'occhiata al menù. Delle abbondanti portate del passato non sembra esserci traccia ma, incuriosito, fiducioso ed impaziente, decido di prendere tutto quello che mi offre il menù. Le prime portate (All the People Outside Are Killing My Feelings, Bubblegum, Winter Olympics) hanno il gusto forte ed intenso della Bristol anni '90 e la ricercatezza minimale della giovane ondata elettronica contemporanea, tanto da far pensare che al di là delle porte della cucina si nascondano, indaffarati tra i fornelli, Massive Attack e Maxi Jazz assistiti dai giovani apprendisti James Blake e Nicolas Jaar. Something's Comin' Over Me e Vlad hanno un sapore più deciso e personale, ma basta poco perché le papille gustative si ritrovino a riassaporare quegli aromi così gradevolmente anglosassoni quanto pericolosamente ingombranti, provati ad inizio cena (In Love With Your Worst Side, con lo zampino degli Aucan, The Merging e Why Here She Is?). Infine, tra i dessert, la casa propone la martellante dolcezza di They Used to Call It Love a riscoprire quella piacevole personalità stilistica troppo spesso nascosta tra luci soffuse ed ingredienti di importazione.
Esco dal locale con la bocca gustosamente trionfante di sapori, ma non completamente sazio.
"Double Soul" è un esordio ambizioso, ricco di gusto estetico e formalmente impeccabile; affascinato, tornerò spesso a cenare da Clod e Sofia, attendendo con ansia l'apertura della prossima filiale, sicuro di trovarci, oltre alla cura e alla ricercatezza di un locale all'ultima moda, anche i pregi di una vivace ed amichevole trattoria.
Voto: ◆◆◆◇◇
Label: La Tempesta Dischi
L’alchimia di questo cantautore volatile è quella di racchiudere dentro l’energia della tracklist la vera interpretazione del richiamo poetico e quella sana leggerezza cha fa bilance e che una volta unite trasgrediscono il mero ascolto per un perfetto spruzzo d’innovazione che va a schizzare oltre il solito andazzo cantautorale, quello delle premesse e dei dettagli impresentabili; una bella mutazione senza trucchi che sa rendere al meglio ogni situazione, dunque non solo una “fotografia” ma un buon disco variegato, diretto che esplode ed implode, gigiona e gattona in un “freestyle” di tradizione, deliri e scatti rockeggianti.
La contemporaneità mai finita di Gaetano “Pirati”, “Sparirò”, l’inganno impacciato di una spennata alla Fiumanò “Il laccio”, il caracollare mex snocciolato da “Non c’è pericolo”, un Gazzè intimisto “Sonno stregone” e quel pezzo “italiano d’America” appeso al broncio dondolante di Badly Drawn Boy “CT-PA” disegnano la strada intrapresa da Oratio, giovane guascone di una profonda favola reale urbana, affabulatore moderno all’interno di un quadro immaginifico, stupendo.
Imperdibile oltre che per l’orecchio, per un’esperienza di lievitazione momentanea dal quotidiano sopravvivere.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Malintenti Dischi
Folk strattonato, poetica picaresca, lacerazioni teatrali off e miracolistiche indie-funamboliche attraversano queste undici tracce che dischiudono dolcezze e resoconti sconfinati, una distanza impressionante da quello che siamo – per la verità mai abituati - a sentire da cose sonanti provenienti dal sottobosco dell’emergenza, una forma sformata di canzone tra i vortici imperturbabili ed alchemici di una creatività pienissima che la Sicilia continua a partorire a raffica, in uno “sbarco” sonoro senza pari e di splendore naif; il popolo indie-folk isoscele andrà in brodo di giuggiole nel sentire questa bell’orbita colorata, questo biglietto da visita per il “mondo particolare” degli Anelli Soli che setacciano come alieni le coralità scordate e ubriache del folk alla Gong “Youppi du per bambole (Oh papà), il thrillerrock che seghetta “Santaresa”, una taranta che giura di spaccare il culo a tanti “La classica scena in cui muoio”o la drunken-ballad sulle onde e i cavalloni sixsteen “Come Ernesto l’ombra”.
Con la forte attitudine di un Vittorio Cane o del Pan del Diavolo, gli Anelli Soli sono una scoperta che segnerà di molto il terreno alternativo, sono surreali ed intensi, storti il giusto e gioielli esaltati di verve psicotica, il loro mondo risuona di feroci anticipazioni sotto il tendone delle nuove proposte e queste tracce danno l’ebbrezza di un sogno/incubo che si materializza in arte fresca, giovane e baldanzosamente Barnum “Viaggio intorno al suo cranio”, tesa nelle corde murder-acustiche “Canzone per persone buone” o persa nella dolcezza corale senza fondo, alla Devics, che “Il cane stanco” rilascia come un saluto amarognolo a piè tracklist.
Riduciamo i tempi e diciamocela tutta, i siculi Anelli Soli sanno perfettamente dove colpire diabolicamente l’ascolto e questo disco lo potremmo giudicare o complementare, o scandalosamente bello o solo rimbombante, ed è appunto qui che il suo animo “grande” sta nell’essere, in ogni momento, le tre cose insieme.
Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Seahorse Recordings
Gli Air non sono qui per dare la loro personale colonna sonora ad un film senza tempo (ha più di cent’anni, poi); per quello esiste la distribuzione in larga scala. In verità, quello di Nicolas Godin e Jean Benoit Dunkel è un disco che vuole essere un omaggio ad un opera venuta prima di loro eppure così vicina a loro.
Se quello di Melies era un film innovativo nel suo ridicolizzare ed allo stesso tempo (psico)analizzare le velleità megalomani del mondo mortale, questo degli Air è a suo modo un film, una descrizione sonorizzata di un possibile giro del piccolo satellite che gira intorno alla terra. Risultato? Un mondo fantascientifico a colpi di elettronica e tanta, ma tanta teatralità. Non c’è bisogno di perdersi in manierismi o elucubrazioni sul quid di quest’album: è un concept album con l’intento di raccontare una storia, scandito per pezzi come del resto un film o un cortometraggio necessita di stacchi nello svolgimento di una storia. Non mancano collaborazioni interessanti, come Seven Stars con Victoria Legrand dei Beach House, o con l’americano Au Revoir Simon ne Who I Am Now. Il risultato è un simpatico ed avveniristico pandemonio di elettronica, sinfonia e suggestive atmosfere soft e dream pop alla ricerca di un punto di amalgama con un titolo (ed una cover) un po’ pesanti, ma nel senso buono, ossia quello del significato cinematografico se non ‘storico’ che porta. Nessuna emulazione, per quanto l’idea sia imprestata, si tratta di una ri-elaborazione unica che porta gli Air su di un altro livello, quello della band capace di mettere a punto un disco che non rappresenti semplicemente una raccolta di tracks, ma di un insieme completo di elementi. Le influenze sono notevoli, a partire da Parade che fa notevolmente il verso ai Daft Punk; non manca lo spirito anni settanta (come in Sonic Armada), che finisce in lunghe un po’ impolverate ballades ambientante in curiosi quanto bizzarri laboratori dei sogni della scienza.
Quello degli Air è un ottimo album, o meglio un’ottima colonna sonora. Ma non è quello che, alla fine, riesce ad essere. C’è molto nelle dieci tracce del duo francese che non traspare nella pellicola del 1902, per quanto bene possa essere stata pulita e rimessa a posto. C’è la luna più di cento anni dopo, e gli Air che la guardano di nuovo.
Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Virgin