mercoledì 30 novembre 2011
Haujobb - New world march (Recensione)
martedì 29 novembre 2011
The Wave Pictures - Beer In The Breakers (Recensione)
È un disco interpretato, ha il tono degli anni di battute e scene di un esperto teatrante. Epping Forest è incantata quanto un Pierrot in un monologo solitario. David Tattersal si improvvisa mattatore appassionato e gioca con le sue corde con un mood un po’ liso ma lucido. Ci sono ballate lente su assolo di basso e piatti appena sfiorati, accenni blues un po’ dismessi ma con ancora tanta voglia di amare, come in Beer In The Brakers. Atmosfera da cantina vuota e scenari da unplugged. Mettiamo da parte l’indiepophardcorepostpunk che i mattatori dei noantri vedi: i Cani) hanno chiuso ed isolato maliziosi in un verso, ritroviamo il bello dell’abbandonarsi ad un verso un po’ più sofferto.
I The Wave Pictures oscillano tra un Pete Doerthy malinconico e manerioso (Now Your Smile Comes Over On Your Face), stoccate da Knopfler e soci (echi lontani in China Whale Brand) e malinconie da Morrisey (e ultimamente pare il cantante più gettonato, ahinoi). Aggiungiamo anche un po’ di Paolo Nutini, Pale Thin Lips fa un po’ vintage. Sprizzano gioia e coralità in Blue Harbour, fanno il verso ai Kooks ne Rain Down. Un album diverso, forse. O no. Per i The Wave Pictures non si è cambiato registro, si è solo scelta una copertina più dura e più scura – se non nera, un bel verdone.
Un bel mix di ascendenze ed ascendenti, insomma: niente di nuovo sotto il sole, si direbbe, ma certamente qualcosa che non delude, anzi, piace e si ascolta con estrema facilità – portando alla mente ricordi dei bei vecchi tempi, della musica dei nostri genitori. E se questo può sembrare un giudizio esagerato, beh, è ben comprensibile; ma pensate, davvero, cosa potrebbe ricordarvi un buon boccale di birra?
Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Moshi Moshi
lunedì 28 novembre 2011
His Electro Blue Voice - Dead Sons Ep (Recensione)
Cyber society - The visible spectrum (Recensione)
Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Tannen records
sabato 26 novembre 2011
Ólafur Arnalds - Living Room Songs (Recensione)
Solo grazie ad un genio come Ólafur Arnalds potevamo vivere un'esperienza simile. Il principe d'Islanda ha deciso di creare sette penetranti sinfonie nel caldo soggiorno del suo appartamentino a Reykjavík. Un brano al giorno per una settimana, tutto registrato in presa diretta e lanciato subito dopo online in free download MP3, ed i video in streaming. Davvero una bella idea, ma lasciate che ve lo dica lui stesso.
Parlerò il meno possibile, voglio precisare, più che una recensione questo è un omaggio ad un'artista che amo. Buona lettura.
Day 1
Il padrone di casa ci fa accomodare, ci accoglie in silenzio, delicato come la carezza di un bambino, “Fyrsta”, culla il suo piano con le dita ed il suo quartetto con gli occhi. Il bello, lo stupore della semplicità, della notte.
Day 2
ci mettiamo comodi, nel frattempo sbuca la luce del giorno insieme ad un altro paio di componenti, e si sente. Un'occhiata in macchina ed ecco l'armonia in chiave Ólafur. Ci sentiamo a casa.
Day 3
si alza il vento. Il direttore d'orchestra del futuro comodo sul suo sofà, noi siamo comodi ovunque con questo quartetto che risuona nella mente, un senso di benessere, aria fresca, rilassiamoci, ci scappa anche un sorriso.
Day 4
tornano a respirare le piccole candele. Una dichiarazione d'amore, una ninna nanna, le dita sempre più eleganti nel danzare per una donna, lei s'incanta verso lui, lo sguardo di lui s'incanta verso il piano senza mai distoglierlo. Un dolce romanticismo casalingo, un letto in disordine, una leggera coperta sulle gambe stanche di lei, il solito orsetto polare. La vista si appanna, lasciamoci cadere anche noi, buonanotte.
Day 5
che splendida malinconia. Gli arpeggi ci massaggiano la schiena. Il contrasto di luce bianca, quasi da manicomio, soffia sulle note di un paio di violini, imprevedibili come onde celebrali.
Day 6
ballano un lento, i due amanti padroni della scena, condizionando l'inquadratura. Puff... ecco materializzarsi dodici violini e due violoncelli. La stanza muta la sua forma, sembra ondeggiare per un'instante, ma tutto si ferma prima d'iniziare a sognare.
Day 7
l'atto finale. L'atmosfera paranoica e rilassante allo stesso tempo. Sguardi d'autore accorsi per l'evento (Orri Páll Dýrason). Si scorge dalla finestra un paesaggio magistrale, fa strano pensare che dentro una stanza ci sia così tanto da vedere pur essendo quasi priva d'ornamento. Il dolce orsetto polare è stanco, ha sonno e viene cullato. È la fine, per poco non piove una lacrima su quei sorrisi.
Credo che aggiungere qualcosa sia inutile e futile.
Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Erased Tapes
venerdì 25 novembre 2011
M!R!M - It's Not Enough Anymore (Recensione)
giovedì 24 novembre 2011
Atlas Sound – Parallax (Recensione)
“Parallax”, in un sofisticato parallelismo con il precedente Logos, vice di una forza propulsiva che di certo non ci si aspettava, quel suono praticamente come “suonato da solo” che allarga subito la cerchia d’ascoltatori dell’artista di Athens (Georgia) e che va a definire una buona variazione sugli intenti primari che questo progetto psich-pop si propone; dodici tracce nella versione normale, quattordici nella versione Giapponese che si dotano di quell’effetto straniante che può suscitare solamente un disco intero dei Deerhunter con Cox in prima fila e le nebbioline a gocce di una wave sempre nella soggettiva e mai in discussione.
Tutto si fa introspettivo e molto distante da memorabilie sonore come Quick Canal o Walkabout, ma si può godere anche con questa nuova temperanza che Cox mette in piedi tra decadenze colorate “My angel is broken”, in mezzo alla liquidità effettistica che goccia in “Te amo”, il tic Merseybeat di “Mona Lisa” che vede Andrew VanWyndgarden dei MGTM sedersi alla batteria, la ninnananna psichedelica e astrale “Flagstaff” per arrivare alla ballata multisensation che tratteggia impalpabilmente “Doldrums” e che – per pochi secondi al volo – fa rivivere l’amore primo di Cox, il volare via senza patente tra cirri e asteroidi che si posizionano al confine dello sconfinato.
Da passare più di una volta sullo stereo, ma comunque ancora grande, instancabile Bradford.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: 4AD
mercoledì 23 novembre 2011
Into It Over It - Proper (Recensione)
Stiamo parlando dunque di un musicista attivo ed esperto ed in "Proper", album licenziato lo scorso 27 settembre dalla statunitense No Sleep records, sono proprio l'esperienza e il lavoro duro a trasparire.
Il grande merito di Weiss è di saper unire con naturalezza le melodie catchy del "pop punk da classifica", l'urgenza emo di stampo '90 e le atmosfere di richiamo indie-folk solitario. Il disco, magistralmente prodotto da Ed Rose (già al lavoro con Houston Calls, Motion City Soundtrack, The Get Up Kids), si apre con il mid-tempo di "Embracing Facts" che ha il compito di introdurci in un'album ricco di alternanze tra ritmi sostenuti e ballate, a sottolineare la versatilità dell'autore il quale, durante l'intero ascolto, riesce a non perdere mai di integrità e credibilità.
"Discretion & Depressing People", "Write It Right", "An Evening With Ramsey Beyer", e la title track "Proper" lasciano chiaramente trasparire una radicata devozione di Weiss per quella corrente di fine anni '90 comprendente Braid, Promise Ring e The Get Up Kids, mentre le ballate malinconiche "No Good Before Noon", "Connecticut Steps" e la conclusiva "The Frames That Used To Greet Me" richiamano alle esperienze di cantautorato lo-fi da cameretta affrontanto con maestria negli scorsi episodi discografici.
In conclusione possiamo dire che "Proper", definito dall'autore stesso come un vero e proprio album d'esordio, sancisce la maturità del progetto Into It Over It, nome da appuntarsi e sottolineare. Vista la vivace e prolifica produttività di Weiss, credo sarà un arrivederci a molto molto presto.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: No Sleep Records
Alfonso De Pietro – (IN)CantoCivile (Recensione)
Un disco bello, amaro e drammatico, firmato dall’alta espressione di chi non vuole più sottacere allo stato di cose, undici tracce che fanno male e che si ascoltano con l’attenzione intera della consapevolezza, dell’impegno di ideale e della pulsione umana, di quell’umanità che vuole e rivuole la legalità, la riscossa e la libertà; e sono racconti, dialoghi stesi sulla precisa identità cantautorale italiana, un bell’equilibrio di parole e musiche che s’intersecano anche con ospiti d’eccezione che contribuiscono a rendere ancor più profondamente tangibili il peso e la bellezza dell’intero registrato.
L’artista De Pietro tratta tutta l’argomentazione con dura chiarezza ma anche con un tocco d’ironia – che si riflette moltissimo nella musica – e invita a guardare “il suono” come legittima e possibile soluzione per il futuro, un futuro da raschiare da questo barile di vita decimata; il linguaggio immediato ed essenziale dei testi e degli arrangiamenti caratterizzano un “teatro della verità” che non conosce sipari o quinte, un raffinato vortice di sensazioni agrodolci che trasportano un’intensità irraggiungibile, e poi come non farsi agguantare dalle melodie, dalle introspezioni salate e dai viaggi sulla gobba dei ricordi che ti assalgono come temporali improvvisi , la vibrante “Per amore del mio popolo”, la parola che si fa voce contro il silenzio omertoso di tanti in cui interviene la voce narrante di Don Mario Zappolini Presidente Nazionale del Coordinamento Comunità di Accoglienza (CNCA), il ritmo in levare che riporta all’attenzione la storia del pugile casertano Clemente Russo in cui s’inseriscono gli strumenti mediterranei del Parto Delle Nuvole Pesanti “Tatanka”, l’immigrazione e la ricerca di un lavoro scritta in una lettera dall’Argentina dal ritmo di una Milonga “Lettera dall’Argentina”, il mare come forma di pane da ricercare oltre la linea che non si conosce “Figli di nessuno” o la nuda prospettiva che violino e fischio ricamano in “Terra”, superbo e amarissimo numero sette della tracklist che versa nel testo una declamatoria di tutti i danni, le cattiverie e l’indifferenza che l’uomo – “l’essere pensante” – procura ogni dì alla nostra Grande Madre e dove anche il Vate Claudio Lolli mette voce e accuse.
Alfonso De Pietro riesce a scavare dentro la nostra naturale chiusura verso l’intorno, un apriscatole genuino che non mette sforzo nella sua azione sonica di aprirci la testa, forse – e lo è – è la nostra testa che si merita più che un apriscatole, ma siamo deleteri ugualmente poiché non siamo riciclabili e la nostra “latta” non vale un fico secco, siamo solo animali di serie b propensi a distruggere tutto e tutti.
Grazie a De Pietro a ricordarci cos’è la vergogna!
Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Storie Di Note / Egea / Rizoma
martedì 22 novembre 2011
Petula Clarck - Instinction (Recensione)
Aldrin – Bene (Recensione)
“Bene” è un quattro tracce ( e terzo disco) che la band perfeziona su incastri di strutture che si compenetrano l’uno nelle altre, un viaggio non ai confini, ma addirittura al nucleo centrale del gran peccato veniale e dell’identità artistica rimasta a gironzolare, impalpabile, dopo le disintegrazione punkyes e relative radiazioni; ritmi frastagliati, suites deflettenti, eclissi e ricami di chitarra elettrica, bassi che sbottano tra sensazioni pulviscolari di funky ed echi vocali artsy “Vaskij Rosso” o il potenziale status mnemonico e galleggiante che “Molto bene” continua a citare in una fondamentale moon-air che non tocca terra nemmeno a legarcela. Nessun orpello weird ad intenerire la costruzione di note ed ombre che gli Aldrin – fra trame e sottotrame che mai appesantiscono la proposta complessiva – allucinano con quella caratteristica cifra malinconica che fa equilibrio tra spleen e paranoia darkwave “La drogue” e ancor di meno, nell’openeir fastoso e lunatico che vede la traccia “Der Aldrin” suddivisa come le grandi opere progressive che colonizzavano magnificamente gli anni 70/80, ovvero in “I Espacio sideral e II Espatrio sideral”, una stupenda lezione di vento cosmique, di fasto 90 Day Men, Comfort e piccole ametiste Yes che sfumano in uno slowind down notturno per aprire il sipario su questo minuto disco dall’intelligenza “altra”.
Bello, profondo e disallineato come pochi, manna e companatico per quei “astronauti” che mettono l’orecchio tra realtà e sogni in versione landscape unlimited.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Sub Terra
lunedì 21 novembre 2011
Sick Tamburo - A.I.U.T.O (Recensione)
A due anni di distanza dall'omonimo esordio Gian Maria Accusani ed Elisabetta Imelio tornano con il secondo atto del progetto Sick tamburo, “A.I.U.T.O”. Il singolo che ha anticipato l’album, “E so che sai che un giorno”, che peraltro girava già da tempo (e chi ha visto un live di Sick lo sa bene), è stato però un po’ ingannevole. La novità di sentire una canzone interamente cantata da Gian Maria ci ha illusi che tutto l’album potesse essere improntato su questa linea, forse una scelta troppo repentina. Siamo abituati ai cambiamenti, i Sick Tamburo nascono dalle ceneri dei Prozac+ (progetto che non è stato ancora accantonato) e i nuovissimi Hard Core Tamburo definiti come una costola di Sick Tamburo ci hanno mostrato un altro lato della band.
Nell’album si evince un addolcimento del sound ma la loro cifra stilistica è evidente già dal primo brano “In Fondo Al Mare” ma anche in pezzi come “La Mia Stanza”, e soprattutto in “Finché tu sei qua”. Un elemento aggiuntivo in questo nuovo lavoro sono le diverse tematiche affrontate, il titolo mi sembra qui emblematico “Si muore di AIDS nel 2023”, temi sociali molto forti “se preghi e se non preghi e se fai l’amore solo(..)si muore in ogni stato se ti fai o non ti fai” o anche nel brano “Magra” dove il tema dell’anoressia o quanto meno dei problemi con il cibo e con la propria immagine hanno una sfumatura molto realista. Non meno è “Televisione Pericolosa”, dove si sottolinea l’influenza che questo mezzo ha sulla società, influenza che è anche segnale di controllo da parte del potere politico. Brani invece come il porta bandiera “E so che sai che un giorno” e “La mia mano” sono caratterizzati dalla novità di esser cantati interamente da Gian Maria Accusani, mente del gruppo ed autore dei testi.
Il malessere manifestato attraverso tematiche come la violenza delle reazioni, la rabbia adolescenziale che sfocia nell’anoressia, l'identificazione in precisi falsi modelli, l’autolesionismo. A.I.U.T.O è l’acronimo di “Altamente Irritanti Umane Tecniche Ossessive” ma noi possiamo affermare che è anche una delle più riuscite richieste d’aiuto di questi ultimi tempi.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: La Tempesta
Lava Lava Love – A Bunch Of Love Songs And Zombies (Recensione)
Uno di quei dischi che appena si mettono in moto ti si attaccano addosso e non si staccano per un bel pezzo, quella presa rapida, quella giocosa ventosa all’ascolto che rende giustizia e pegno a melodie dolci e “innamorate” a cuore gonfio come pochi; i LLL hanno tutto per piacere all’istante, con tutta probabilità una formazione nel definitivo lancio verso l’alto del panorama indie sempre più affamato di grazie e semplicità e questo “A Bunch Of Love Songs And Zombies” è un espressivo messaggio dello stato di benessere di questi EX ritrovati nel nuovo.
L’America indipendente qui dentro gioca più di una carta vincente, di quella tendenza a contaminarsi con session e con i flirt che l’energia melodica e la dirompenza esigente di tirare fuori l’anima richiede, e loro lo fanno nella maniera espansiva di un suono agrodolce che si fa ballata acustica con tanto di banjo “Another happy song”, nell’agreste alternanza elettrica di pedaliere e arpeggi “Tomorrow will be the worst day of my life”, nella cristallina vocalità di Florencia Di Stefano che illumina un dettaglio Nashvilleano in “Nothing special”, a bordo di una fiammante Thunderbird che sfreccia sulle direttrici for Tampa “Kenosis” fino a fare tono di base nel duetto finale che in “Morning dew” si fa epico e cinematografico, come nei bei finaloni che l’emozione ti fa salire in gola per stordirti di bene.
Non arrivano tutti i giorni cose del genere, non che i Lava Lava Love abbiamo registrato la verità assoluta, ma quello che proviene da questo pezzo di plastica è purezza stranita che piace molto, e se non dovesse avere successo, pazienza, si fermerà a livello prettamente underground, ma a queste condizioni – credetemi – ci si accontenta più che volentieri a rimanerci.
Notevole.
Voto: ◆◆◆◆◆
Label: The Prisoner 2011
sabato 19 novembre 2011
Nils Frahm - Felt (Recensione)
Dopo molteplici esperimenti (Vedi l'album di Emphemetry "Lullaby hum for tired") il giovane pianista ha voglia di respirare l'aria di casa, per casa si intende “Wintermusik”. In molti si chiedevano quand'è che Nils tornasse sul palco senza rete, “Felt” è la risposta, non solo a quest'ultima domanda, ma anche a chi si chiedeva se fosse ancora in grado di creare illusioni come nel suo primo spettacolo di magia. Basta “Keep” e nascono da subito rose ed orchidee sotto le scettiche narici di chi affermava che Nils fosse oramai orfano di nuovi trucchi. L'illusionista agita il suo mantello oscurando il teatro “Less”, l'importanza del silenzio, come in Dustin Ohalloran and Adam Wiltzie, il trucco? Microfoni posti all'interno del piano, creano un'atmosfera ancor più intima e delicata. L'illusione che stia respirando dietro la nostra nuca “Familiar” ci voltiamo di scatto e non c'è o forse non riusciamo a vederlo, senza renderci conto di cosa stia accadendo, cosa c'è sotto di noi, cosa stiamo sorvolando “Unter” è forse la miglior illusione dell'album, il mormorio soffocato dal fischio di un uomo solo con il suo strumento, “Old Thought”in una notte d'oriente se ne sta adagiato sulla sabbia a far l'amore con esso. Sospirata “Kind” stanca, quasi inerme, offre ancora più pathos all'oscura “Pause” accordi violenti come tuoni in un cielo azzurro, rabbia e lento dolore caricano un finale straordinario “More” apparentemente un uroboro di “Keep” ma qui siamo pieni fino all'orlo di suoni pizzicati e ronzii a metà strada fra l'ambient e il barocco. Nove minuti passati a nuotare a cavallo di un'orca sotto un cielo di ghiaccio nero, fino al minuto 4:33 dove tutto cambia, che vadano al diavolo i vicini! Nils domina il piano con violenza quasi “Bartókiana”, e chiude l'ultimo numero di magia con un imprevisto e clamoroso soffio psichedelico.
Una registrazione che rende l'album particolarmente ingordo, graffiandoci le orecchie come un ago da sismografo; i silenzi sporchi e divini come il vuoto dell'inizio di un 33giri. Ancora una volta Nils Frahm sorprende e realizza un album eccellente, ottime le idee, ottimi i giochi di tempo ed ottima la scaletta dell'album. Forse la fame sperimentale di Nils non è ancora sazia, si diverte, ci diverte, ci sorprende, ci affascina, ci strega.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Erased Tapes
The Sea and Cake – The Moonlight Butterfly (Recensione)
La band americana - qui al nono disco dal 1994 “The Moonlight Butterfly” – lascia le scie fumose del post-rock per attraversare le costellazioni tenui e ricercate di un pop-rock dai colori sfumati ed incondizionatamente stemperati da ogni vigore, da qualsiasi ricorrenza effettistica per dimostrare – in fondo – che il bello viene anche dall’utilizzo della sincerità; sei tracce che messe a confronto con le precedenti summe di running time, sono molto più elastiche e lunghe e mostrano in un lampo acceso che il fattore versatilità è la grande prerogativa, la novità, di questo nuovo work che i TSAK sperimentano con un addensato d’orgoglio che non guasta mai.
Si, sperimentazione è il verbo rigenerante di questo nuovo episodio, sono musiche che servono sia a ballare sia a creare un’atmosfera cinematica, come una colonna sonora pre-serale, una piccola cascata di sinfonie per una giornata che finisce per rinascere nel sogno dove gli incedere nervosi non trovano locazione, ma si accasano piacevolmente l’elettro-beat soffice “Covers”, “Up on the north shore” con una chitarrina twangy in tremolo fighissima, il tenero afro-beat “Lyric”, la gassosità spacey che fa galleggiare nell’amniotico “The moonlight butterfly” e le sognanti dodici battute che sintonizzano “Inn keeping” verso i migliori ricettori del piacere softyng rilassato.
A sigillare la grande “libertà compositiva” che circuita nel registrato il funky minimalista di “Monday” con un tocco di Rodhes liquido che stringe il cuore a tutti gli irriducibili amanti del pop col marchio TSAK, un trio che fa “personaggio” e tratteggio di una linea sonora capace di mutare la vostra atmosfera in qualcosa di radicalmente nuovo.
Averlo nelle vostre collezioni sarà classe al quadrato.
Voto: ◆◆◆◆◇
Lebel: Thrill Jockey 2011
giovedì 17 novembre 2011
Sandro Perri - Impossible Spaces (Recensione)
Con "Impossible Spaces" (uscito il 5 novembre per Constellation Records) il cantautore canadese continua incessante la sua evoluzione dando un meritato seguito a "Tiny Mirrors" (Contellation Records, 2007), primo full-length firmato con il proprio nome di battesimo.
L'album si presenta fin da subito come un giusto sunto stilistico delle passate esperienze discografiche; qua e là ritroviamo la batteria bossa/jazzata del già citato "Tiny Mirrors" unita a saltuarie digressioni ambient caratteristiche dei lavori a nome Polmo Polpo. I fiati, non nuovi nelle produzioni di Perri, si uniscono sapientemente alle linee di un basso mai domo al contempo fluido e percussivo, che tiene inevitabilmente incollato l'orecchio dell'ascoltatore anche nelle tracce più prolisse (su tutte "Wolfman", piccolo trionfo compositivo ricco di alternanze ed intrecci tra basso, fiati e synth, della durata di oltre 10 minuti, anche se percettivamente sembrano molti meno). Il tutto è piacevolmente accompagnato da una voce morbida e soave, mai scontata e, nonostante strizzi spesso l'occhio a tonalità vicine al falsetto, distante dalle mode del momento. Il risultato è un ottimo disco folk, che si distacca però da gran parte delle produzioni del genere grazie ad una cura negli arrangiamenti e nella scelta delle sonorità che a tratti lascia romanticamente immaginare ci possa essere lo zampino di un Nino Rota in visita a casa Perri, giusto il tempo per un the caldo e un saluto.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Constellation Records
Fair To Midland – Arrows & Anchors (Recensione)
La bella voce di Darroh Sudderth mette in evidenza una dolcezza arpionata che fa slalom tra bordate, riff arcigni e momentanee apnee sorrette da stuoli di tastiere che avvampano un quadrato sonico, un ring in cui combattono sintetismi progressive e aggressioni metal rocciose, d’oscura potenza; lontano dal power heavy metal americano della dinastia Blue Oyster Cult e ancor più degli anni ottanta delle scie sanguinarie tipo Manowar, Manilla Road o Metal Church, i FTM si accostano molto al Nu-Metal - nella parte “meccanica” – circoscritto a band come System Of A Down o Deftones, e nella parte versatile sono rintracciabili “brutti ceffi” come i Rush con la bava alla bocca “Whiskey & Ritalin”, i Butthole Surfers che fanno a botte con Perry Farrel nella psicotica e ariosa “Golden Parachutes”, il tocco grunge alla Alice In Chains “Amarillo spleeps on my pillow”.
Ma crediamo veramente che anche lo zampino pazzo e fuori orbita di un iper-cromatico Mr. Bungle non sia presente tra le gengive infuocate di questa dentatura aguzza formato disco? Tana, il sofisticato quanto schizofrenico febbrone del camaleontico artista tuona, schizza e si sgola un po’ qua e la “Musical chairs”, “Hu-oh”, nascosto tra i tasti di piano in “Typoid Mary sends her best”, nei gargarismi growl & love “Rikki tikki tavi” per poi scomparire e fare posto alla celestialità insospettabile di una ballata field che ripulisce, come un soffio d’aria fresca, l’odore saturo di bruciature e pedaliere fuse che si era impossessato di tutto “The greener grass”.
Fair To Midland, una band che gronda fierezza e potenza, un dolceamaro elettrificato su cui vale la pena puntare, una band che rifonda il genere dall’interno piuttosto che quei dementi emo-core plastificati, che gonfiano più che polmoni, testicoli al prossimo.
Da scoprire con gusto.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: E1 Music
mercoledì 16 novembre 2011
The boats - The ballad of the eagle (Recensione)
Musica da Cucina - Musica da Cucina (Recensione)
Quando nel 2006 uscì il primo disco di Musica da Cucina (Mondo Pop, City Living) ricordo che il mio personale modo di rapportarmi alla musica e a gli strumenti, anche non canonicamente musicali, cambiò radicalmente. Quello che a prima vista poteva sembrare un side project sperimentale e bizzarro del chitarrista di una delle realtà musicali più concrete partorite da inizio secolo in territorio Valtellinese, si è subito trasformato in una solida e convincente certezza. I soggetti in questione sono Fabio Bonelli, alias Musica da Cucina, e i Milaus, band/culto Valtellinese dalle cui ceneri (anche se lo scioglimento non è mai stato annunciato ufficialmente) hanno preso vita progetti interessanti quali Manetti! e, appunto, la stessa Musica da Cucina. Il 2011 è dunque l'anno della conferma per Fabio Bonelli che dopo anni di tour e concerti in giro per l'Italia, per l'Europa e non solo (da sottolineare il prestigioso MONA FOMA, festival Tazmano organizzato da Brian Ritchie) arriva al secondo atto discografico, questa volta per Long Song Records. Fin dal primo ascolto traspare una crescita, un'evoluzione positiva non tanto nella composizione dei singoli pezzi, eccellente qui come nell'album di debutto, ma nella visione totale dell'album. Il lavoro certosino organizzato e portato avanti da Fabio, affiancato del fidato Lorenzo Monti al mixer, regala al disco una piacevole omogeneità che, unita all'inserimento saltuario finora inedito di armonica, pianoforte e batteria, permette a Musica da Cucina di fare un'ulteriore salto avanti qualitativo. All'orecchio si percepisce un piacevole intreccio di folk-pop d'autore (come la ballata melodica "For Ellen", la hit "Today" in cui ci si può quasi immaginare uno Stephen Malkmus impegnato a canticchiare cucinando, o la giocosa "Chicchi di riso") unito a divagazioni ambient/concrete (la ripescata "Elvira ed Amelia" già presente nel lavoro del 2006 o la bellissima "Pasta Madre") che rendono l'album, e il progetto stesso, difficilmente affiancabile ad un genere ben definito. Il segreto, ed il merito, di Musica da Cucina risiede senza dubbio nel presentarci una versione pop/musicale della quotidianità casalinga, affiancando con naturalezza alla parola "strumento" l'aggettivo "musicale", anche quando l'associazione non risulta così scontata; ed è così che lo "strumento" rotella, comunemente utilizzato per tagliare la pasta, ha la possibilità spensierata di esprimere tutto il suo potenziale "musicale", vivendo una nuova ed inaspettata giovinezza. Una sensazione di libertà assoluta e contagiosa. A chiusura del cerchio troviamo un gradevole packaging frutto dell'unione tra i fittissimi disegni di zia Elvira (...la cura per il particolare dev'essere un dono di famiglia) e lo studio grafico di Giacomo Spazio nome noto nell'ambiente dell'arte e della musica alternativa.
Se volete accettare un consiglio, domattina alzatevi con una 40ina di minuti d'anticipo sulla sveglia e fate una lunga colazione, rigorosamente tra i fornelli, insieme a Musica da Cucina; La giornata comincerà molto meglio, ve lo assicuro.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Long Song Records
martedì 15 novembre 2011
Fast Animals and Slow Kids - Cavalli (Recensione)
Grazie Signore, grazie mille, per la nostra mediocrità. Da mediocri vediamo meglio, ma ci affrontiamo di meno – perché abbandonare la comodità del posto di spettatore per buttarci nel rischio di scoprirci davvero capaci? Servirebbe una rivoluzione, anzi no, servirebbe qualcuno che la faccia per noi. Ci vorrebbe un Copernico per dirci che è il sole che gira attorno alla terra. E invece si brancola nel buio, se non nell’inerzia di milioni di parole a cui non seguono azioni. Fuori dalla parabola rassicurante di Forrest Gump, gli esseri umani cercano una scatola di cioccolatini quando hanno fame, per cercare una via d’uscita dall’incrocio in cui sono immessi. E se ‘la banalità di un testo d’amore è paragonabile solo alla banalità di un testo politico’ , figurarsi il resto. L’universo dantesco è quello di anime che scontano il loro contrappasso senza essere davvero morte, e subiscono la giusta punizione per lo spreco di carne che effettuano; e non lo sanno più cos’è il gusto, e cos’è giusto. Magari perdono la loro integrità, riflettendo che qualcuno è proprio meglio di sé, ma del resto morto un papa se ne fa un altro. E se ci si ammazza per parlare a tutti di sé, è troppo tardi, la messa è finita, e, del resto, non interessa granchè. E non interessa neanche l’amore: ‘senza Lei, probabilmente non ce la farei’ può solo offrire spunto per il sarcasmo più feroce. I FASK non discriminano fra palati fini o meno. Il vigore con cui ogni pezzo viene affrontato e letteralmente fatto implodere è per tutti, soprattutto se tutti sono incazzati neri. Ti piacciono, o non ti piacciono, il loro è un out-out senza mezzi termini – ma non si neghi l’amara verità delle loro prediche. E di certo non serve un parroco per farcela.
Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Ice For Everyone / Audioglobe