venerdì 30 settembre 2011

Banda Fratelli – Buon giorno, disse il metronotte (Recensione)

Banda Fratelli Buon giorno,  disse il metronotteSwing, freschezza mentolata ed un’infinità di spiragli stilistici che fanno una continua “festa mobile”, un disco questo “Buon giorno disse il metronotte” del trio torinese Banda Fratelli che gattona sagace e canaglia come una guida notturna a tutta velocità sulle autostrade dell’autoironia e delle intuizioni cool.

Una mirabile prova d’autore che mostra la capacità unica di costruire brani sempre diversi gli uni dagli altri, senza chiudersi in un’enclave o apparire snob, un cilindro magico che la band usa in un piacimento anomalo, con pochi trucchi e nessun inganno, con la sola forza di una verve sonica e poetica che si consuma nello spirito sano di una prova discografica da dieci e lode.

Con la scaltrezza scalena versione “educanda” alla Elio e le Storie Tese, Sergio Caputo, i vecchi Gufi e il Signor GBuongiorno, disse il metronotte” come soprammobili voodoo di magia bianca, la band mette a segno questo disco che mira dritto, in un certo modo, alla tradizione cabarettistica, quella tra l’intellettualismo impomatato Dapportiano e la modernità profusa delle tirate scavezzacollo di Paolo Belli, dieci tracce che fanno scroller tra pompate di fiati, esotici ritmi d’avanspettacolo, un pizzicorio del Moroder broadwayano da colonna sonora anni settanta “Salsa e meringhe”, lo spaghetto western tex-mex travestito da ballata dondolante “Un fratello come me”, lo scatting-funk jazzato “E’ grave” e il tremolo latin sausalito svita-anche che danza conturbante e lussurioso tra i giri armonici di “Non so dir di no”.

Andrea Bertollotti chitarra e voce, Matteo Bonavia basso e Carlo Banchio cajon, sono i tre piloti sconnessi che raccontano storie, favole ironiche e realtà tragicomiche, tutte condensate amorevolmente in questo lotto godibilissimo di musica e movimenti in tre quarti, quasi un cartoon di plastica che gira invece di sfogliarsi, specie nella uacciueriua felix-story di un gatto invulnerabile nella sua domestichezza Trippa per gatti” o nella meditabonda intimità guascona di “Le cose da salvare” traccia che con le mani in tasca e la testa tra le nuvole minacciose di un diluvio universale imminente ci fa stringere un po il cuore ; la Banda Fratelli viene alla luce splendidamente, con quella falsa ingenuità che lascia ben sperare a futuri prossimi e queste tracce - che sono volate via come la freccia indicatoria di un prossimo coming soon – vivono di una forte personalità artistica che mischia e completa il nostro bisogno assoluto di cose buone, appetibili, che tramutino i nostri stereo in juke-box dispenser per artisti e musiche intelligenti.

Previsioni metereologiche: un bel fulmine si sta abbattendo sulle scene alternative tricolori, okkio!

Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Controrecords/New Model Label


Jessica Lea Mayfield - Tell Me (Recensione)

Jessica Lea Mayfield - Tell MeClasse '89, anellino al naso. faccia pulita. Apparecchio ai denti, voce sottile. Malinconia, giovinezza e stile.
Lei è Jessica Lea Mayfield. Il suo esordio precoce a 15 anni, con l'EP "White LiesEP", fa sì che venga notata da Dan Auerbach, leader dei Black Keys, che la introduce in un mondo più adulto di fare musica, non più relegata in una cameretta. Il 2008 è il momento del suo primo LP "With Blasphemy So Heartfealt", album prodotto dal già citato Dan Auerbach che si dirà entusiasta di lavorare con lei. L'etichetta del musicista Folk\Rock è limitante per un'artista come Jessica, che va al di là del bel modo di fare musica e riesce ad immetterti in un mondo che passa dalla tenerezza all'angoscia, quasi stesse cantando e suonando in una dimensione parallela, forse ancora rinchiusa nella sua cameretta.

Nel 2011 è il turno del suo nuovo LP "Tell Me" uscito a febbraio, sotto l'etichetta Nonesuch\Warner ma non è ancora tardi per parlarne e soprattutto non è inutile perché quest'album è sicuramente un lavoro che arricchirebbe la libreria musicale di ognuno di noi! Brani come "Somewhere in Your Heart" e " Sometimes at Night" li sceglierei colonna sonora delle mie giornate. In questo nuovo lavoro ritroviamo uno spettro di suoni e atmosfere cupe che scioglie il Folk e le chitarre graffianti per abbracciare un Pop più delicato ma sempre accattivante. Il brano di apertura del disco "I'll be the one that you want someday" parte con un intro un po' alla Nancy Sinatra ma la soluzione del pezzo si risolve in modo meno ipnotico e più introspettivo così come la canzone che chiude invece l'album "Sleepless" è totalmente pregna del carattere emotivo e intimo di questa cantautrice. Il lavoro di Jessica Lea Mayfield riporta a questa ondata di nuovi e giovanissimi talenti quali Laura Marling, Sarah Jeffe, o gruppi come Wey Oak (duo di Baltimora che mescola Folk con noise) o ancora come The Everybodyfield".

Curiosità! Il nome di Jessica Lea Mayfield lo troviamo anche nello Spin, album tributo ai Nirvana, con il quale "Nevermind" viene totalmente e interamente e (forse meno fedelmente) interpretato da artisti del calibro dei Meat Puppets e dei Vaselines, proprio nel 2011, anno in cui cade il ventennale dell'abum. Jessica coverizza il brano "Lounge Act"

"Tell Me" è sicuramente un album consigliato e lei, lasciatemelo dire, è una tosta!


Voto: ◆◆◆
Label: Nonesuch\Warner

Imperative reaction - S/T (Recensione)

Imperative reaction - S/TMetropolis Records. La risposta statunitense al sound industriale europeo. Gli Imperative reaction sono una delle migliori realtà di electro - industrial d'oltreoceano. Sono forti, diretti, e hanno una fortissima attitudine punk, e, dopo mesi di attesa sul sito della label, rilasciano la loro ultima fatica, quel disco che porta il nome stesso della band e che è uno dei migliori dischi del genere in questo 2011 che non smette ancora di stupirci. Rispetto ai musicisti europei, la band californiana trasforma la melodia astratta in un synth corretto col rock e col punk, e questo è il mood che attraversa tutti i brani, dall'opener Side effect alla conclusiva Closure. Questo genere musicale ha attraversato dei grandi cambiamenti negli ultimi anni, e sin dal primo lavoro il gruppo ha mostrato una marcia in più rispetto a chi, in Europa, evolvendo la lezione dei grandi maestri, ha prodotto lavori altalenanti trasformando il genere in qualcosa di sempre meno estremo se non si considerano rare eccezioni. Rispetto alla melodia pura e alla distorsione vocale, gli Imperative Reaction fanno uso di una voce pulita ma decisa e molto rock che poggia su strutture basilari strofa - ritornello che tirano giù i muri. Le chitarre sono ben presenti insieme ai sintetizzatori, così come la batteria secca e decisa. I detrattori saranno molti tra coloro che preferiscono un sound più nordico, ma non si può non apprezzare il wall of sound prodotto da Phelps e soci. Tutti i brani sono estremamente catchy e sono potenziali inni da dancefloor e per questo è difficile promuovere alcune canzoni rispetto ad altre, si tratta di un lavoro che va preso per quello che è: un blocco monolitico di adrenalina pura da sparare ad alto volume dalle vostre casse. Side effect ha dei sintetizzatori potenti e azzeccati e una idea melodica che convince dal primo ascolto, Song of the martyr è electro - punk massiccio costruito su un muro di chitarre, Torture e Surface presentano un beat techno forte e ignorante sorretto dalle grandi doti del gruppo, Time doesn't care è un'altra sfuriata hc-electro punk riletta in chiave industrial, The signal è Hype sono pezzi catchy e decisi quanto l'opener, Permanent è sorretta da un beat old school techno molto pompato, la conclusiva Closure ha un'andatura più lenta e pop oriented e convince ampiamente.

Questa è la risposta più compiuta e meglio realizzata alla scuola europea. Provare per credere. I fan di questo sound non rimarranno delusi.


Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Metropolis records

giovedì 29 settembre 2011

The Rapture – In the Grace of your love (Recensione)

The Rapture – In the Grace of your loveMatt Safer li ha lasciati, e loro, i newyorkesi The Rapture, anche se un pò disorientati, se n’escono ugualmente con “In the Grace of your love”, album d’inediti sulla distanza di un silenzio durato cinque anni e sostanzialmente il sound della band è lo stesso di sempre, un appagante mix di post-punk elettrizzato da dance che riporta lontani strass e lamé dello Studio 54 o perlomeno degli afterhours clubbing della Big Apple fashion e glamour in cui si agitavano gli ancheggiamenti melodici di Freddy Mercury Roller Coaster” e si rovistavano le dark room scapigliate di Robert SmithSail away”.

Anni settanta, dance-rock, la beat disco, trucco e parrucco entravesti e tanta felicità col broncio sono gli ingredienti basali di queste undici tracce maledettamente trasmissive di una voglia matta di ballare senza orario, di una frenesia fatta di sottili rifferama di chitarra, falsetti che portano il vocalist Luke Jenner alla felice ambiguità gay-friendly, lo sludge guascone e sintetico “Miss you”, la carica corale glammy “Blue bird”, l’armonia da flipper “In the Grace of your love” e la stranezza di una fisarmonica sincopata con coro esotico dietro tale da sembrare un canto etno afrikaneer modernissimo e di liberazione che pare uscire dalla gola di George Michael “Come back to me”.

E’ un ritorno sulle scene per questa band americana con tutti i crismi per restare sotto focus – speriamo - un periodo più lungo della loro “scomparsa”, la cura negli arrangiamenti è ottima, le capacità compositive intoccabili, le reminiscenze intatte, dunque non manca nulla, poi aggiungiamoci anche la stupenda produzione di Philippe Zdar (Phoenix) e il gioco è perfetto e versatile, pronto per impazzare su Tunes e carrelli LG; molti - al loro rientro – hanno storto la bocca per l’ìnsufficienza creativa che la band americana seguita a legare al palo, ma si sa accontentare tutti non è facile, forse non sanno – i detrattori – che la loro musica è come un effetto da prestigiatore, qualunque sia il trucco, l’effetto è assicurato. Al primo ascolto.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: DFA 2011


Morkobot - Morbo (Recensione)

Morkobot MorboCon un intro che ricorda il tanto atteso album di due anni fa degli Alice in Chains "Black Gives Way to Blue", potente e scandito, si presenta il quarto cd del trittico lombardo Morkobot.

"Morbo" è davvero una malattia travolgente, ma soprattutto è di nuova conoscenza e, per ora, incurabile perchè con due bassi ed una batteria, l'approccio al rock sperimentale ed alla psichedelia è decisamente nuovo. La novità è anche nello stesso cd, più potente rispetto agli altri, più oscuro ed incalzante. Sette tracce vengono portate avanti solo strumentalmente e, seguendo quelle che erano state le parole di uno dei componenti del gruppo, Lan, sul precedente lavoro ''Morto'': "L'abbandono dell'intelletto, il disattivare il proprio cefalo durante l'esecuzione è diventata prerogativa assai portante", capiamo quanto l'esperimento sia il vero filo conduttore dei lavori del trio, quanto questo sia la matrice di ogni brano. Ed è cosi che risuona anche in "Morbo", dove sembra che “Orkotomb”, “Orbothord”, “Oktrombo” siano un'unica grande traccia spezzettata e le altre rimanendo vicine, ugualmente, non alterano il ritmo e la continuità del disco.

Il verbo di Morkobot ci arriva forte e chiaro.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Supernaturalcat


mercoledì 28 settembre 2011

NH3 – Eroi senza volto (Recensione)

NH3 – Eroi senza voltoDeboli di cuore o schiavi del dio fiatone? Se si lasciate perdere, non seguite queste mie righe e datevi da fare con altre incombenze a voi simpatiche ok? Per tutti gli altri una band che da Pesaro viene a scompigliare lo stato di calma che magari ci si era costruiti per una mezz’oretta customerizzata ad hoc; sono i NH3, formazione ska-core che agita a dovere il nuovo “Eroi senza volto” il raggio d’azione sonoro del loro stile che punzecchia come una zanzara antagonista le ottusità e le prepotenze di tante realtà barbine.

Disco di quelli in eterna postazione da barricata, rebel e altare sacrificale per pogo invalidante e stage diving pindarico, forsennato nel passo sonico e inno continuo alla propria libertà e di quella di tanti figuranti umani di “seconda classe”, felicemente posizionato sulle schermature di un’indipendenza artistica che mette a ferro & fuoco le patine figaccione del gran palcoscenico al piano di sopra dell’underground.

Dicevamo ska-core, ma anche macchiature punkyes, reggae, la London a scacchi bianchi e neri di Laurel Aitken, quell’ottimo vomito di veleno alla Shandon e, come se non bastasse, anche la voracità combattente di ideali e considerazioni sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, fanno di queste tredici esplosioni di ritmo e pensiero un tracciato epilettico che riapre un pò le teste sigillate e le menti dementi di tanti che si agitano senza avere nulla dentro da agitare; i magnifici sette dei NH3 fanno sudare a litri con le loro tensioni fiammeggianti di cori , barriti di trombe, tromboni e sax, bollette elettriche che supplicano i jack di chitarre ad un vano risparmio energetico e pelli di batteria che resistono indefesse a battenti feroci, un insieme sonico che da energia e ribellione a fare e a reagire allo stato di cose immobili, e ska, ska e ancora ska a profusione “Ancora in piedi”, la title track in cui viene ospitato Olly ex Shandon, il cortocircuito punk-rock che infiamma “Echi lontani di rivolta” con la partecipazione de L’invasione degli Omini Verdi, la Tottenham di AitkenEntusiasmo”, la splendida rivisitazione in chiave ska-punk della “Canzone popolare” di Fossati, il dinoccolamento in levare “L’ignoranza fino ad arrivare, veramente col cuore che sbomballa in gola, al caos agitato di “La rotta da seguire” (feat. Cattive Abitudini), un salto corale di entusiasmo goliardico da holligans dei diritti sociali che chiude il disco ma che riapre subito la voglia pazza di farlo ingoiare ancora e poi ancora dalla bocca del lettore cd.

Velocissimo, puro di impurità cool ed un peso specifico altissimo, quasi una jam session o un party di quelli che si facevano tanti anni fa nei ghetti occupati nei sobborghi di Chelsea per pagare con il ritmo ribelle quello che il potere svendeva a prezzi inarrivabili.

NH3 ? Un sublime Ska-tafascio di libertà.

Voto:
◆◆◆◆◇
Label: One Step Records 2011


lunedì 26 settembre 2011

Pig Sitter – Anamnesi (Recensione)

Pig Sitter – Anamnesi “Se i Marziani ci fossero veramente…”. Bè quasi quasi la prova calcante e tangibile l’ho sotto mano & orecchio e viene dalla bella Taranto per mano di Giuseppe e Claudia, bassista e cantante Lui e chitarrista Lei, un bel duo “alluccinatamente naif” che prende il nome di Pig Sitter e che con “Anamnesi” vengo a scompigliare quel poco che c’era rimasto da scompigliare con il loro rock-toy ibridato di psichedelia casalinga e non, calori sixsteen e pazzia indie quanto basta, un dieci graffi che tra sbilenchi White Stripes accennati e un magnetismo hand-made d’idee che, se all’inizio non ci si fa quasi caso, poi, come con le migliori “essenze rizlesche” ti da lo sturbo necessario per andare avanti per un’ora di “sollucchero sonico”.

Lo sci-fi di “L’estenuante lotta dei peluches contro la polvere” caotico, casinaro e grezzo, col suo Icaro Re degli Acari che spadroneggia nel testo, rende subito questo lavoro tenero e dal quale pare non ci si possa staccare, una forma musicale che fa la differenza non con la patina dei cd dell’ufficialità, ma con l’entusiasmo ultra-casalingo che comunica, con le stonatezze di voce, i ritmi scaleni, e le personalità felicemente deliranti che raccontano di personaggi stravaganti e di sfighe urbane.

Musica indie da cartoons, note e risate che si fanno ascoltando queste dieci piccole “sbornie” con ruttino annesso e che portano questo primitivo approccio alla goduria chiamato Anamnesi a rovinare l’esistenza al tasto repeat; con Simone Martorana (Hobo e Folkabbestia) nelle collaborazioni, i Pig Sitter sono sordi ai richiami della falsa attualità, hanno voglia di trasgressione e di non convenzionalità, basta un organetto toy e una chitarra calda per sfornare il mantra circolare di “Semplice”, basta un nulla per riesumare il giro rock-blues di Jack White per colorare di nero “P-jama” o l’onda surf-easy di “Sliptonite” per ritrovarsi sulle spalle distoniche d’energumeni Wilsoniani sulle beach virtuali di una California dietro l’angolo di casa.

Voglia di stupire e puro divertimento senza tante cerimonie, mai paraculo ma spiccio e molto piacevolmente “out”, specie nei 49 secondi di banjo sopra una canzoncina ina ina “Clacson-G” che sembra appena uscita, fresca fresca da una prova dello Zecchino D’Oro effettuata al Repartino della neuro locale.

Da Taranto una prova discografica di un duo che, senza tante pretese, lascia comunque un segno del suo passaggio, eccome se lo lascia, serve solo un po’ di pazienza, poi al decimo ascolto sarà amore. Garantito.

Voto: ◆◆◆◆◇
Autoproduzione 2011


domenica 25 settembre 2011

Marco Notari - Io? (Recensione)

Fin dalla copertina (realizzata da Tommaso Cerasuolo dei Perturbazione), "IO?" terzo album di Marco Notari è un caleidoscopio di colori e idee. Dopo Babele, un concept antropocentrico che indagava sulla storia dell'uomo attraverso gli occhi dei personaggi immaginari di Cristiano e Lucia, Notari scende in campo in prima persona nel mettere a nudo tutte le sfaccettature dell'essere umano, interrogandosi sul ruolo che ognuno di noi ricopre nel mondo in cui vive. Un cerchio della vita toccato da mille esperienze, situazioni, sentimenti, immagini. Un distacco dal passato che lascia apertamente intravedere la maturità artistica di Marco Notari sempre accompagnato dai compagni Madam. Sincero, idilliaco e leggero, "IO?" miscela in modo pratico e ragionato, indietronica, folk, pop, ambient e rock, tramite l' utilizzo di pianoforti, glockenspiel, synth, Fender Rhodes, archi e ottoni. Si parte dalla nascita, i nove mesi nel grembo materno ("Io?"). Una title track solare caratterizzata da una folktronica che punta apertamente verso l'Islanda dei Sigur Ros o, volendo guardare anche in casa nostra, alle sonorità fiabesche dei maceratesi Aedi. Seguono momenti delicati nei quali si parla di crescita attraverso il superamento dei sensi di colpa e delle paure ("Le Stelle Ci Cambieranno Pelle" con Tommaso Cerasuolo) e attimi in cui la tensione del rock torna a far padrona denunciando quanto l'essere umano abusi del proprio pianeta e delle altre specie attraverso un punto di vista diverso da quello umano. ("La Terra Senza L'Uomo") "Avvelenato in un laboratorio. Scuoiato vivo nella mia prigione. Io per il mondo non esisto. Il mondo per me non esiste. La terra senza l'uomo sarebbe un posto più luminoso..." Storie d'amore del passato ma sempre attuali raccontate attraverso derive elettroniche Jonsiane ("Dina") illuminano di speranza e mettono a nudo una sfera emozionale privata eppur così condivisibile. Non manca il momento di affrontare l'immoralità e ambiguità del proprio paese, quell "Italia glabra, grassa, impomatata e decadente" nella quale gli unici momenti d'amore collettivo per la propria nazione sembrano essere quelli davanti allo schermo di una partita di calcio. Una sconfitta nei valori del Paese accostata a quella di una partita della nazionale di calcio ("Hamsik") Melodie oniriche e terapeutiche si affacciano nel flusso di coscienza di "Io, Il Mio Corpo e l'Inconscio" mentre "L'Invasione degli Ultracorpi" si eleva a momento di riflessione in un crescendo di tensione e pathos che lascia scorrere sul finale la voce dell'ospite Dario Brunori. Le contraddizioni dell' uomo si riaffacciano nelle dinamiche dream slanciate verso crescite noise di "Apollo 11", dove ci si interroga sul grado di evoluzione raggiunto dall'essere umano nel riuscire ad andare nello spazio eppur continuare in terra a compiere azioni atroci. L'intimismo e il tema d'amore riemergono sul finale in "Canzone d'Amore e Anarchia" e il cerchio si chiude con la reprise strumentale di "Io?" che unisce la fine all'inizio, la vita alla morte, la morte ad un nuovo inizio.
Marco Notari si conferma, ancora una volta, una personalità ricca di idee ed intuizioni che, se prima spaziavano solo dal cantautorato al rock alternativo italico, ora si avvalgono di sonorità ricercate e sperimentali all'interno della musica leggera. "IO?" è sicuramente l'album più maturo dell'artista torinese che, con sincerità, realizza un'opera all'interno della quale sono racchiuse tutti i suoi dubbi, sfoghi e passioni. Il privato giunge al pubblico per annichilire paure ed arrivare ad una sorta di pace ed equilibrio interiore. Una perfetta sintesi di elettronica, dream pop e rock che, attraverso una cura quasi chirurgica degli arrangiamenti (dall'aspetto spesso barocco), si smarca da molte delle attuali uscite indie, dando ragione ad un lavoro che racchiude in sè molto più di quel che può sembrare a primo ascolto.

Voto: ◆◆◆◆◇

Label: Libellula Music

sabato 24 settembre 2011

Clap Your Hands Say Yeah – Hysterical (Recensione)

Clap Your Hands Say Yeah – HystericalToh chi si risente dopo quattro anni e mezzo, si credevano perduti per sempre nei vortici delle accademie indigene degli anni zero e pure incazzati marci con il loro “capoccia” Alec Ounsworth per via del suo lavoro in solitario “Mo Beauty”, tra l’altro un mega bluff; ma a quanto pare i Brooklyniani Clap Your Hands Say Yeah, al completo, tutto pare meno che siano stati con le mani in mano e gli strumenti nei foderi, si erano eclissati per fare incetta d’idee e ritornare con i musical muscles turgidi di canzoni e melodie, un pit stop necessario per non affossarsi nel successo e fare muffa negli scaffali di recenti ex collezioni indie.

Prodotto da John Congleton, “Hysterical” è il gioiello dei nuovi CYHSY, il passaporto per la maturità per questo quintetto americano e il disco che tormenterà a livello industriale il lettore d’ogni stereo per un “repeat no-tregua” maniacale; energetico, tiratissimo, maneggevole e molto concentrato per farsi figo ammiccante tra le charts FM del vecchio continente, l’album macina energia tra spume wave, ammennicoli stile anni sessanta, Talking Heads dei primordi come leggero contorno, pelucchi brit e tanta simpatia a sciorinare come vento tra le tredici tracce contenute (eufemismo puro) nel disco.

Ci si diverte veramente immersi nella loro attitudine di cambiare le carte in tavola canzone dopo canzone, un divertissement sonico che ti rimane incollato nella testa e non ti lascia per un bel po’, ti tiene compagnia e ci fa pensare anche agli Editors nell’affinità “storica”; ma quello che è più importante che questa raggiunta maturità in un sol salto per la band americana non si fermi qui, che la propulsione a scrivere bene e belle cose seguiti a mietere consensi e riempire stadi, per il momento caliamoci nel tu x tu con un Bowie romanticone “Adam’s plane”, apriamo le riserve d’emozioni per il venticello wave che spira in “Misspent junior”, teniamo le antenne dritte sul pianeta Queen “In a motel” o, se si preferisce sculettare felici al ritmo dance e sinth c’è “Ketamine and ecstasi” che insieme a “Same mistake”, fanno bingo di un ascolto totale effervescente, elisir di lunga vita per questa formazione che sembra rimasti indietro nel tempo, quando invece è il tempo che non gliela fa a stargli dietro.

Hysterical, un disco d’oltreoceano che arriva come un parente da lontano, non come una tradizione da rispettare ma semplicemente come un progressivo mutamento rigenerativo per oceani d’orecchie stanche, stanchissime.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: V2 Music 2011


giovedì 22 settembre 2011

Maraiton - Papa (Recensione)

Per la serie guai a dire Teatro degli Orrori.
Maraiton è due bassi, due voci, una batteria e un fonico. Nasce sull'asse Cecina/Rosignano ed è formato da membri di Mafalda Strasse, Verily So, Medea, Ceausescu's snuff movie, The Bargain, Hilo, The Voids. "Non una band ma un progetto di 5 persone", come amano definirsi. Un esordio fuori da ogni logica nell'inserirsi in modo anarchico tra le pieghe stropicciate dell'hardcore, condendolo di ritmiche math-rock e apparente non-sense testuale. Due voci che raschiano una sull'altra, trovando raramente intesa. Se anche può apparire una certa goliardia di fondo (titoli come "Mo To Seghe" e "Vodka"), i rimandi superficiali servono solo a mascherare frustrazione e un senso di fastidio misto a follia. In apertura troviamo ad introdurre l'album la voce di Andy Casanova, tratta dalla collana di film "Stupri Italiani" ("Andy"). Immagini affastellate una sull'altra si ergono sopra il dinamismo sonoro della band che spazia dall' emo-stoner dei Gazebo Penguins ("Sissi"), fino a momenti più sperimentali e stranianti (la loungiana "Due Minuti"). I Rantoli noise alla Jesus Lizard che, volenti o nolenti portano al confronto con certi canoni ormai affermatisi in Italia (l'intro Capovilliano de "La Mosca"), precedono sfuriate hc snaturalizzate nei continui saliscendi e intermezzi sincopati ("Tarantein"). La sfortuna vuole che quest'anno abbiano visto la luce dischi come "Legna" e "Lacrima-Pantera" dei TDOAK che hanno elevato di gran lunga i generi nel tesserne le lodi fino ad oggi, andando in parte ad oscurare quest'opera. In ogni caso i Maraiton con Papa rivelano un lavoro decisamente convincente seppur dai richiami molto forti. Una furia inattesa, deflagrante e vera nello scuoterti torcibudella lasciandoti ad occhi sgranati.

Dritti per la loro strada senza compromessi. Un elogio alla follia pratico e totalmente autoprodotto con tanto di grafica accattivante e ottimo packaging fatto a mano (vedere la bellissima versione limitata e numerata in 100 copie). Un' amalgama noise che tutto suscita fuorchè noia.
Un benvenuto ai nuovi esteti dell'anti forma-canzone.

"Non ho bisogno di niente. Non ho bisogno di gente. Non ho bisogno di fede. Non ho bisogno di strade. Io non ascolto le cose strane. Non ho niente".

Voto: ◆◆◆◆◇

Label: Autoproduzione


Jonathan Wilson – Gentle Spirit (Recensione)

Jonathan Wilson – Gentle SpiritE’ occasionalmente stato batterista dei Fleet Foxes e, in altri sporadici casi, collaboratore on stage di Jackson Browne, Costello, Gary Louris, ma rimane sempre uno spirito in sordina, a rimorchio di sogni folk e trentasette anni d’occhi aperti sui movimenti sonori che vibravano intorno alla sua Forest City nel North Carolina; il folk singer Jonathan Wilson ora gioca in casa, decide di dare aria alla sua passione personale di suonare e cantare quello che più illumina la sua interiorità, ovvero un folk adagiato su sentori pop che di per sé regala momenti di sinfonia agreste patinata quando però dall’altro canto trapela anche una pressione - forse anche troppo pressante per usare un giro di parole - che mette in evidenza la divinità predominante che pistacchia qua e la il registrato, cioè Mr. David Gilmour dei Pink Floyd e i suoi allunaggi di corda elettrica.

Gentle Spirit”, nel comunque dei due casi evidenziati, si colloca benissimo nello spazio sfrangiato del nu-folk d’ultima sfornata e queste tredici tracce sono il risultato di un lavoro limato negli anni, fresco e stiloso come una coperta di lana a quadrettoni in cui raggomitolarcisi nelle sere d’inverno; l’artista americano ama il Neil Young con la spina elettrica “ Valley of the silver moon”, i bombardini freak alla Donovan Ballad of the pines” e non fa, appunto, mistero per l’ispirazione maxima che Gilmour imprime in tracce “Desert rave”, “Canyon in the rain” quest’ultima fedele figlia non riconosciuta di un b-side di The dark side of the moon.

Ma poi, come a sollevare un sole caldo sulle strade per Tulsa, arrivano la psichedelia e i tremori valvolari dell’Hammond degli anni seventies, il toccasana evergreen che riporta le quotazioni del disco all’ottimale “The way I feel”, l’acido ondulamento di prassi “Rolling universe” e per tirare su la lampo di questa tracklist accennata arriva a random “Can we really today?” dove una voce impastata e molto calcante alle storditaggini di Elliott Smith, canta, parla e vagheggia dolcemente su amori e fiori di marijuana.

Bello veramente, un’album che cresce man mano lo si ascolta, qualche neo da passare come un tic guaribile e un avvertimento basilare ai fans prossimi di Wilson: ogni volta che ascoltate il nu-folk ascoltate amore, e l’amore ha bisogno di fiori, e allora non siate parsimoniosi mettetene tanti – di fiori – nei vostri cannoni! Peace & Love Brothers & Sisters!

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Bella Union 2011

mercoledì 21 settembre 2011

Wilco - The Whole Love (Review)

Wilco - The Whole Love (Review)Ho avuto per le mani quest’album così a lungo, che non mi pareva vero di poter buttare giù qualche parola a riguardo. The Whole Love è un mondo a sé, è un whole, è un intero. L’opera ultima di Jeff Tweedy e soci – in arte Wilco – è un prodotto di una band che ‘sa il fatto suo’ , nel senso che ha un proprio stile, unico e forse stavolta un po’ più country; si propone come un tema ben compiuto : ha un suo inizio, un suo svolgimento e una sua fine.

Al cuore di tutto c’è l’amore, tutto l’amore, o meglio, l’amore intero, che si estende per ben dodici track senza perdere mai l’impronta originaria: un sorriso sornione mai forzato, ma sinceramente positivo che si riafferma in quasi ogni pezzo, un po’ Tom Petty , un po’ boogie ( vedi pezzi come I Might o Born Alone ) ma anche altro. L’amore per intero dei Wilco va per stanze, città, vede giorno e notte; passa da digressioni progressive rock dell’intro track Art Of Almost a ballate soft e ‘sognate’ quasi al modo di una liceale al suo primo ballo come Sunloathe ( magari facendo un po’ il verso agli Air ). Art of Almost è un chiaro tributo radiohediano ( se ti metti a dialogare con i massimi sistemi mentre sperimenti nuovi orizzonti musicali, si sa, Yorke è un po’ come il medium a cui devi necessariamente riferirti ) apre il sipario come una genesi biblica condita di fine elettronica e citazioni letterarie - I can’t be so far from my wasteland è un chiaro riferimento a Eliot.

Quindi, The Whole Love si mette in moto, circumnaviga il globo, cambia tono. Un po’ come il sole sorge e tramonta, in un circolo vizioso naturale e mai sofferto, Dawned on me dice che I can’t help if I fall in love with you’ se mi albeggi contro, ed il tono è scanzonato di una prima mattina di carica. La carica è la stessa che si addormenta, si assopisce senza diventare troppo malinconica in Black Moon, come un’immagine che si allontana nel buio di una notte di luna nuova. Senza perdere mai la carica un po’ da marcia, Borne Alone sigilla i due momenti ricordandoci, come fece Ligabue una volta, che, in fin dei conti, nasci solo e solo andrai; allora viene Open Mind, ed eccolo che canta con il piglio di un viandante in una locanda della via,come lo immagino un po’ country un po’ stereotipato dietro il suo microfono e alle spalle il suo complessino, ad allietare le coppie con i suoi accenni di assolo di basso.

Capitol City è la ripresa del viaggio, un po’ passare per una Las Vegas piena di luci, ironica , un po’ foxtrot ma non troppo, sempre disincantata – You wouldn’t like it here, no, la sua donna dovrebbe stare lì, a respirare in quell’aria di campagna. O meglio, dovrebbe essere lui lì. Dopo la chiusa di campane di chiesa, Standing O viene avanti corposo a suon di organo, di corsa come ad un appuntamento , in ritardo magari. Stempera il tutto con Rising Red Lung, si incanta in One Sunday Morning, ballata dolce dal ritornello – un gioco di note sulle corde che poi diventano tasti, di piano e xilofono – vagamente ipnotico e interminabile: dopo dieci minuti continua a reiterarsi come una speranza un po’ patetica, un po’ immortale , come un carillon rotto e che continua a ripetersi.

Con pur tante influenze, è un lavoro unico, da chiamare col suo marchio, Wilco, ecco. C’è una completezza, una circolarità in questo album che va oltre il nome, il concetto e persino la sua copertina. È l’idea. In fondo è questo The Whole Love: una storia mai finita, circolare quindi perfetta, a volte desolata, mai sconfitta, fatta di ritornelli e di cariche, come anche di pause e tempo per riposare dagli eroici furori. Perché l’amore stanca, e non ci stanca mai del tutto; non abbandoneremmo mai del tutto un amore, come non ci scorderemmo mai di una canzone. Forse non ricorderemmo Wilco per quest’album, ma per quello che mi ha ricordato in tante volte che l’ho ascoltato. Che l’amore, quello vero, è l’amore intero.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: dBpm Records

  • Leggi anche la recensione del 3 settembre (streaming).



ES – Tutti contro tutti portiere volante (Recensione)

ES – Tutti contro tutti portiere volanteAvreste voi mai pensato di salmodiare i veneti ES e rendere allegorica la loro carica allargata a forme stilistiche che stirano il pop, pettinano l’indie e scombussalano la forma canzone come una gomma americana appiccicata sotto il sedile dell’ascolto? No, invece con lo stupore corredato da un ohoooo la cosa viene giusta e da fare; Tutti contro tutti portiere volante” è il disco ambasciatore del loro ritornare sotto i lettori ottici di tutta Italia e “fare solo quello che si vuole fare, se ci si diverte a farlo” è il loro motto, il loro manifesto/pensiero con cui propagandono attraverso i woofer la loro innata voglia di farsi sentire come si deve.

Se qualcuno avesse dubbi sul fatto che il pop indipendente oggidì significhi distrazione, noia e sbadiglio extralarge deve ricredersi, chiedere perdono e ascoltare queste tredici tracce per poi tirare una linea di demarcazione tra il piacere acquisito dell’ascolto e i cattivi pensieri di prima, poi tirare avanti e sorridere seguendo il tracciato; appunto tredici percorsi che si tengono benissimo alla larga da vocazioni commerciali e da eccessive levigature modaiole, mentre i suoni, parole e le soluzioni invece di accumulare sempre tutto e subito ricercano l’essenziale, la pulizia e l’onestà intellettiva per un disco che ha la fortunata sindrome di non essere uguale o pressappoco a nessuno che ciondola nel circondario.

Pazzie, piccole storie, dolcezze da carillion, soft-tone dell’anima e Mogol/Battisti in qualche taschino sdrucito “La lingua sotto i denti”, “Ho ormai i tuoi nei (quando tu accarezzi i miei)” pop d’autore con il vizio indigeno dell’imprevedibilità, questo più o meno il gioco dinamico di questo bel disco molto estetico e seguibile e che una volta ingoiato dal lettore regala una bella manciata di minuti tutti contaminati da una febbre armonica; bello lo shake aggiornato all’oggi “Kerry Von Erich”, grazioso il tempo liquido come una pozzanghera di un dopo pioggia “Sto benissimo”, tenero il sussurro confidenziale “Un soldino per i tuoi pensieri (economia domestica)”, pensieroso il tocco greve di un pianoforte imbronciato “Lenzuola nuove” e stupenda quell’onda sixsteen di “Pardesòra” che riporta alle ballatone in bianco e nero dei Dik Dik e a tanti amarcord inestimabili.

Il repertorio ES è pronto per andare oltre i gironi dell’underground, la loro attitudine a creare stupori e bella musica è qui sotto gli orecchi di tutti e la contemporaneità trascinante che si portano come bagaglio al collo è di quelle che attraversano correnti ed inquadramenti; questa musica sia da “ES-empio” per i tanti e per i tutti che vogliono musicare la vita.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Fosbury Records/Dischi Soviet Studio 2011

martedì 20 settembre 2011

News For Lulu - They Know (Recensione)

News For Lulu - They KnowIl secondo disco dei News For Lulu, ha il sapore del miglior cantautorato indie rock d'oltreoceano, servito in modo sublime in un'unica portata di dodici splendide tracce. Il fulcro centrale attorno al quale ruotano le passioni musicali del quintetto lombardo è la musica pop che qui assume un' accezione del tutto solenne nel condensare il meglio della tradizione estera. E' infatti "pop", il termine più adatto per definire "They Know". Dopo l'acclamato esordio "Ten Little White Monsters" del 2006, nel quale si esibiva un indie-rock deviato verso destrutturalismi post, la band ridefinisce la formazione e sceglie di far rotta verso la forma canzone abbandonando quelle digressioni strumentali con le quali aveva esordito. Ed è così che questa seconda prova si configura come sunto funzionale e concettualmente perfetto di ciò che la musica leggera deve essere, mostrando un talento sincero e sempre appagante, da ottimi songwriter. Un album con arrangiamenti mai banali o scontati, ben ragionati e che regalano momenti di genuino ed edulcorato intrattenimento. A far da guida più delle chitarre che, in ogni caso si muovono ottimamente in ogni brano, è l'onnipresente piano, attorno al quale si avvolgono le solide ritmiche, le armoniche, i fiati (che comprendono la tromba di Alessandro Scagliarini dei My Awesome Mixtape) e i synth. Andando per sottrazione è facile trovare i richiami di una prova dalla forte appartenenza internazionale, sia nelle sonorità che nelle forti suggestioni suscitate. Se l'iniziale title track potrebbe trovar posto nell'ultima opera solista dell'ex Pavement Stephen Malkmus, proseguendo, la strada volge verso il meglio della musica d'autore del passato e del presente. Con un'inclinazione vocale così simile, non è poi così azzardato l'accostamento ad Elliot Smith (la stralunata "Delivery Girl" e la dolce ninna nanna "We Slept on The Sidewalk") Quando è l'intimismo a far da padrone e l' atmosfera a suscitare torpore e quiete, la vicinanza a Tom McRae, uno degli indiscussi alfieri del new acoustic movement, è facile da cogliere ("Some Refused"). Umori altalenanti, melodie candide e positive che rimbalzano sulla lisergia che, senza farsi troppo notare, permea ed invade a più riprese l'intera opera ("The Invisible Gun") Sarà la lap steel, il contrabasso (dell'ospite Simone Fratti degli Emily Plays), i fiati, l'organo e tutte le altre controparti strumentali, ad assumere un'atteggiamento di innocua ebbrezza circoscritta, ma ciò che fuoriesce da "They Know" non porta mai all'alienazione ed è pronto ad alleggerire pomeriggi uggiosi e accompagnare alla fine di notti insonni. Incanto più che disincanto. Musica da cameretta ("My Home is My Head" titolo manifesto) facilmente esportabile al di fuori delle proprie quattro mura, da condividere gradevolmente con qualcuno di speciale. Un album per certi versi romantico, sognante e sbarazzino anche quando verte, senza alcun pretesto, verso il pop sperimentale dei Grizzly Bear ("Rolling Down The Hillside") o l'alt-folk dei Wilco.

I News For Lulu seppur ricalcano in parte le orme dei campani A Toys Orchestra (anche loro in casa Urtovox) nelle sonorità pop 60s e 70s, se ne discostano, però, nella compostezza di un album emozionante dalla prima all'ultima traccia.
"They Know" è qualcosa che mancava all'interno della discografia italiana nel mettere così a nudo la sfera emozionale dell'ascoltatore e allo stesso tempo coinvolgerlo in un viaggio euforico in una sorta di paese delle meraviglie sonore.
Leggero, idilliaco, sereno e malinconico quanto basta per essere felici di deprimersi, fate vostro quest'album e ne potreste venir soggiogati.

Voto: ◆◆◆◆◇+

Label: Urtovox Records

"Scarecrows at the Window" dal precedente "Ten Little White Monsters"

Thievery Corporation – Culture Of Fear (Recensione)

Thievery Corporation – Culture Of FearDurata: 49:40, quasi un’oretta d’apnea totale o come si preferisce un’oretta di planate a tu per tu con la ionosfera, fate voi, l’importante che usiate i meccanismi originali per effettuare questi pindarismi sotto/sopra, vale a dire sempre e comunque le “emulsioni” perfette dei Washingtoniani Thievery Corporation, da anni piloti ufficiali del trip-hop chill out (ex- lounge music) mondiale, ed ora che arrivano con il nuovo “Culture Of Fear”, la concorrenza di quelle band inglesi, colleghe solo in carta, che li vedono sott’occhio si inalbera, ruggisce e schiuma rabbia.

Eppure c’è posto per tutti in questo “stile sensoriale”, si tratta solo di chi lo fa meglio, e il duo americano sin dagli anni 90 è reo di un’infinita strage di piacere mentale sotto l’ipnotic dance, nella quale milioni e milioni di esseri pensanti, si sono immolati come cavie di un sacrificale ordine.

Dopo Radio Retaliaton del 2007, l’arrivo del nuovo lavoro TC per molti è stato motivo di storture di naso per via di una certa “linea continua” che non si smarca da tutte le precedenti produzioni, vale a dire stallo di creatività, ma queste sono solo estremismi che non vanno da nessuna parte, il loro suono globale non si è sgonfiato di un millimetro, anzi seguita ad inglobare e rinnovare, con infinite nuove diramazioni e dettagli, ogni piccolo soffio o brezza che il mondo dona tramite le sue “onde di trasmissione” di jazz, tribal sound, drum’n’bass, pop, rock, world, acid, dub e che una volta incamerate nelle dream-machine di Eric Hilton e Rob Garza, vengono rimesse in circolo sottoforma di profumi, bassi che esplodono in gola, funky e la straordinaria sensazione di essere come un palombaro che scandaglia l’aria.

Il loro spirit è uno space-age pop in 3D, e veramente se avvicinate anche il naso ai coni, durante la performance di questo disco su stereo, toccherete, sentirete e annuserete tutte le sfumature che vi si condenseranno davanti come prestidigitazioni di una magia zeppa di grooves e vibes senza ritegno da tanta bellezza; ripeto, non cliché, ma stati tridimensionali irresistibili, un morire fuori e rinascere dentro con lo shafty funk che vi libera dai muscoli “Web of deception”, il french touch che morde delicatamente l’orecchio con una doppietta di tracce miracolose “Take my soul” e “Light Flares”, un tuffo nei carribean in levare “Overstand”, “False flag dub” in cui uno strepitoso Chris Ras Puma Smith mette anima e voce e “Stargazer” guest Sleepy Wonder.

Con l’amniotica andatura di “Is this over?” si galleggia da dio e dentro la bambagia eterea di “Free”, agitata delicatissimamente dalla feat. Sylvia Berenice Eberhardt, si rischia - a furia di rotolarsi oziosamente - di non “tornare più sul pianeta Terra”, e questo tutto sommato non sarebbe male rimanerci impigliati per sempre nel lassù dei Thievery Corporation; un altro karmachoma che i nostri americani mettono a segno, del resto chi è abituato a vivere e suonare a “mille metri sopra il cielo” non può fallire la rotta del suo nuovo volo, mentre noi poveri esseri appiccicati all’asfalto siamo ancora allo stato evolutivo di bruco. Meglio non pensarci.

Voto:
Label: ESL 2011


lunedì 19 settembre 2011

Jazzsteppa - Hyper nomads (Recensione)

Jazzsteppa - Hyper nomadsHyper nomads. I Jazzsteppa sono i nuovi nomadi del suono. Si spostano tra vari generi, anche se la base è il dubstep, un nuovo modo di fare musica rallentando la drum 'n bass che trova le sue origini nell'underground londinese di qualche anno fa e che, qualche tempo fa, è saltato all'occhio della critica e sta diventando avvezzo al grande pubblico, come è stato dimostrato da tutti quei gruppi che hanno attinto a questo tipo di suono. Ascoltando i Jazzsteppa abbiamo però la sicurezza di un prodotto che si distacca dalle produzioni dei nuovi fenomeni del music biz, per due ragioni. La prima è che i nostri implementano strumenti fisici all'interno del loro sound e questo rende molto interessante la loro proposta, la seconda è che usano dei suoni intelligenti, al contrario di quei musicisti fotocopia che si servono di beat utilizzati dagli australiani Pendulum già dal loro primo album. Qui i richiami ci sono ma non sono preponderanti, soprattutto in pezzi come l'opener Baby jesus, che è un piccolo capolavoro, e la conclusiva Wipeout. Questo non costituisce un demerito, in quanto i Jazzsteppa conoscono la musica e sono in grado di creare degli ottimi pezzi anche all'interno di un genere che, nella sua forma minimale, può apparire un po statico. Per realizzare questo senso di varietà fanno leva sulle collaborazioni, e ciò che ne esce fuori è un misto di dubstep pura, elementi jazz, hip hop, etc...Sebbene non si possa gridare al miracolo, ma oggi è difficile farlo, i pezzi sono tutti ottimi, alcuni spiccano sugli altri per l'originalità della soluzione, altri puntano su una linea di basso cupa sorretta da beat lenti (come vuole il genere) e dall'incedere quasi marziale, il tutto accompagnato da suoni sintetici particolarmente marcati. L'unica pecca del disco è che in questo lungo fluire di brani ce ne sono alcuni che si presentano come fotocopie o talvolta si ascoltano degli skit non realizzati che suonano terribilmente bene, citando una traccia veramente dura come Minneapolis, si spera che venga realizzata in futuro. Tra le tracce migliori mi sento di consigliare Baby jesus che nel suo incedere minimale riesce ad esprimere più di mille parole, Raising the bar che sperimenta nell'hip hop come nella migliore tradizione big beat, Rusty trombone molto sperimentale e "fisica", Sweet tooth che richiama alcuni lavori di Aphrodite come Dj do me a favour, con le dovute differenze, Naked lunch e la conclusiva Wipeout che richiama direttamente la drum 'n bass australiana su una base a metà tra il suddetto genere e la jungle più old school. I Jazzsteppa sono molto convincenti e bisognerebbe testarli live. Un "nuovo" genere come questo ha bisogno di sperimentatori di questo livello per emanciparsi dalla sua sorellastra, il cui peso grava ancora sulle sue spalle. Dall'Inghilterra all'Italia il passo può essere molto breve.

Voto: ◆◆◆
Label: Boomkat

domenica 18 settembre 2011

Sam Brookes – S/T (Recensione)

Sam Brookes – S/T Che ci fa un giovane cantautore inglese con lo sguardo fisso e sognante verso chissà quale arcobaleno che nessun altro vede all’orizzonte? Sogna fitto d’essere, alla fine, una pietra o perlomeno breccia miliare della nuova scena folk in terra d’Albione ed in questo suo primo progetto su disco ci mette tutta l’eleganza e la forza d’animo per non sfigurare specialmente davanti ai suoi due speciali angeli protettori, Nick Drake e John Martin.

Sam Brookes, zazzera incolta, fisionomia alla Kid Rock, chitarra acustica e un cassetto pieno d’idee folkyes che fremono d’essere messe all’aria fa toc toc sugli impianti stereo di tutta Europa con un otto piste che, senza invertire nessun senso alla storia del folk, e tantomeno con velleità di far rizzare il pelo sulla schiena di bramosi cercatori di nuovo oro sonoro da scoprire, con la sua andatura “innocente”, figlia legittima dell’Eldorado stilistico sopraccitato, tra un “punta di piedi” e una certa timidezza campagnola riesce a farsi sentire e piacere, se non altro per l’atmosfera field da fiore in bocca e testa tra nuvole sfaccettate che detta la calligrafia dreamers ad un ascolto che vuole fare a meno del tormento della gravità terrestre.

Una gavetta – nonostante l’età giovane – spalmata sui palchi di provincia, fino ai grandi mainstage di Glanstonbury, ma non con questo pare avere una caratterialità libera da rossori e mutismi nella vita privata, ma una volta armato di tutto punto della sua sei corde dolce e triste, Brookes è capace di smorzare l’attesa e dare fuoco alle impressioni di chi – sul suo conto - ha già scommesso più di una partita; folksinger di talento, l’artista inglese forgia queste canzoni tenere come lattuga primaverile, senza curve e ossidazioni costipate, arpeggi cristallini e parole velate, andamenti intimisti che “urlano” grazia e bellezza che non hanno il beffardo potere – meno male – dei tormentoni, che non hanno il potere di annoiare mai.

Ventiquattro anni ed una poesia da appendere su qualsiasi ascolto, la ballata Donoviana dell’era beatnik “In weeks”, il brio a ritmo di treno in direzione la Sausalito dei sogni “The design”, un rimando a Buckley junior “Like a butterfly” e una passatina malinconica di fingerpicking al crepuscolo di una giornata “Glass house”, sono alcune delle chicche contenute nello spazio vitale di questo debutto, di quest’anteprima “all english” per Sam Brookes, un nome che tornerà a farsi sentire in giro, la convinzione c’è, quello che manca - ora come ora – è una buona e gelata Kronenbourg della sua terra per brindare a quest’ottima scoperta.


Voto:
◆◆◆
Label: Helium 2011


Machine Head - Unto the Locust (Recensione)

Machine Head - Unto the LocustHo iniziato a scrivere questa recensione ed ho subito letto una comunicazione sulla bacheca di un mio contatto FB da parte di un altro contatto, il quale gli consigliava di cercare ed ascoltare "Unto the Locust", il nuovo lavoro degli americani Machine Head, storica band che, partendo da radici thrash e heavy metal è riuscita da subito a creare un proprio trademark facilmente riconoscibile già dal primo "armonico".
Mi metto così ad ascoltare "Unto the Locust", in uscita dopo quattro anni di silenzio. La opening track, I Am Hell (Sonata In C#), si apre con una sorta di coro gregoriano che ripete la stessa litania per tutto il primo minuto del brano, per poi lasciare spazio a delle poderose chitarre distorte che entrano con un riffing lento, cadenzato, pesante al quale si abbina perfettamente la graffiante voce di Robb Flynn, un gran bell'inizio devo dire! Trascorre un altro minuto e il brano si trasforma in una cavalcata veloce ed articolata che non lascia spazio a noia o perplessità. L'ottima conclusione del brano sembra essere uno sprone a tutte quelle band doom che a quanto pare hanno dimenticato, negli ultimi tempi, come emozionare l'ascoltatore con le armonizzazioni di chitarra che hanno contraddistinto il genere, nonostante i Machine Head siano tutto tranne che doom!
Le tracce successive, mantengono le caratteristiche classiche della band. Da cattivi e pesanti i brani riescono alle volte anche ad aprirsi varchi di malinconica melodia altamente orecchiabile, cosa alla quale il combo ci ha abituati progressivamente in tutta la sua carriera ma che si è acuita nel 2004, quando il singolo Imperium (da Through the Ashes of Empires) lasciò gli utenti di quel segmento musicale positivamente a bocca aperta. Insomma, buona tecnica, richiami al glorioso passato della Bay Area e della NWOBHM con sprazzi di death svedese, repentini cambi ti tempo e ritmiche fanno da padroni in questo gran bel disco! La produzione dell'album è a dir poco perfetta, gli strumenti si amalgamano alla grande e il suono che viene fuori è definito e potente allo stesso tempo. Tutto l'album scorre bene, lo si ascolta in 50 minuti scarsi. E si mantiene a livelli decisamente alti.
Consigliato a tutti i fan della band che si riconferma grande ancora una volta, e a tutti i nostalgici di un passato musicale che sembra non voler tornare più ma che non disdegnano la modernità.
Buon ascolto, decisamente!

Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Roadrunner


venerdì 16 settembre 2011

dEUS – Keep you close (Recensione)

dEUS Keep you closeTra le pieghe di Vantage Point - che oramai risale a tre anni orsono - ribadimmo che i dEUS ad ogni nuovo lavoro potessero dare sempre qualcosa in più oltre il dovuto, ora con questo “Keep you close la band belga mette in mostra una tonicità perfetta e allenata, libera da ricercatezze scintillanti e nuda del potere dei tormentoni, ma che pare – al primo giro di giostra – ferma nella buona concezione dei modi e ancor più ferma nel punto esatto di dove l’avevamo lasciata.

Nove tracce che non ridimensionano il nostro senso acuto circa l’illimitata bravura del gruppo, ma che lasciano su questo rientro un pochetto d’amarognolo in bocca perché effettivamente manca quello sprint, quell’evoluzione compositiva che sposti un millimetro più in la il fattore dEUS oltre il limite dell’osare e, di poter ancora usufruire da parte nostra, di quelle emozioni passate che già con Worst Case Scenario ci facevano beatamente affondare nel loop ossessivo del riascolto.

Ok pazienza, non possiamo sovvertire l’ordine mentale di un prodotto discografico che è così e che non ci possiamo fare nulla, ma la qualità non si mette in dubbio, l’eleganza idem e considerarlo negativo è fuori luogo, il disco è tirato benissimo, un trademark inaffondabile che porta sempre alta la fronte di uno strano “alternative thing” che dagli anni novanta ad oggi suggella patti e giuramenti con le forme musicali e le soluzioni piriche che più di tutte hanno consacrato la parte oscura di un certo rock; basta saperlo leggere dalla parte giusta e vi accorgerete delle bizzarrie buone di un assortimento sonico che affolla la tracklist da capo e piedi, come l’architettura gotica che predomina l’armonia deep eighties di “The final blast”, la plastic dance robotica di un minimalismo campionato “Ghost”, il nero di Cave che schizza ombre e pece in “Darks sets in” con un ben ritrovato Greg Dulli a svociare nei cori , la confidenzialità alla Barry White su un tappeto di lavorio di basso e liquidi slanguimenti di Rodhes e corde acustiche “The end of romance”, e la tentazione di fasciarsi negli archi ariosi che fanno da cappotto all’epicità della titletrack.

Il noise, il rumorismo d’intelletto, l’epilessia creativa e le cappe di fumi ottenebranti ogni forma di concessione alla leggerezza sono stipati tutti in “altre storie” già musicate dai belgi, rimane qui un’espressione che “staziona” come una pausa - buona – ma pausa di un lungo tragitto che, speriamo, riprenda la sua stupenda direttrice in avanti. E che un dEUS ci protegga!

Voto: ◆◆◆
Label: Pias 2011


Astolfo sulla Luna - Moti Browniani (Recensione)

Astolfo sulla luna moti browniani“È questo il modo in cui finisce il mondo?” urla una ragazza incredula sotto un ritmo cadenzato di un basso potente. La ragazza in questione è Lei degli Astolfo sulla Luna e continua a pronunciare frasi d'effetto per tutta la durata del cd. Frasi che richiedono uno stomaco di ferro, o forse no, grazie all'ipnosi dagli altri componenti, ovvero Lui e L'Altra, in perfetta armonia tra loro, Nessun virtuosismo sopra le righe, solo una buona ed azzeccatissima combinazione di basso-batteria, di un incerto alternative/post rock, ma sconvolge l'avvento del suono sintetizzato nel brano “Fino all'ultimo Battito”. Tutto viene più apprezzato in “ Dick Laurent è morto”, dove si lascia piede libero agli strumenti tanto da riuscire a far intravedere un bagliore di psichedelia, per lasciarsi immergere lontani dagli sfoghi urlati. Essi che, in realtà, si parla di paradossi dell'età moderna, ma credo che nemmeno il 'citato' David Lynch apprezzerebbe la frase “La guerra è pace” se coprisse un riuscitissimo giro di basso.

Scarica il disco da QUI!

Voto:
Label: Autoproduzione


Licenza Creative Commons

 
© 2011-2013 Stordisco_blog Theme Design by New WP Themes | Bloggerized by Lasantha - Premiumbloggertemplates.com | Questo blog non è una testata giornalistica Ÿ