venerdì 30 novembre 2012

Grenouille - Il Mondo Libero (Recensione)

In gran spolvero di energia e poetica elettrica, alle porte del nuovo anno, arriva la carica riformata e in accumulo di sguardi e accuse sulla società d’oggi ed i suoi inquilini bistrattati dei lombardi Grenouille, la triage che riadatta il disadattamento a protagonista delle sue artigliate rock sempre quasi mai sotto i rassicuranti passaggi dell’ottimismo dialettico, suoni e pedaliere effervescenti che esplodono a comando come a comando accarezzano ruvidamente le superfici ombrose della realtà.

“Il mondo libero” è il secondo lavoro di questa band indie che rivolta il normale intendere musica con una atmosfera pensante, coinvolgente e legata alla schiettezza nonché al fasto underground di chitarre infiammate e ritmi controversi, tutto l’occorrente per tenere l’ascolto vigile sulla tensione di sfumature e nervosismi intelligenti, mai banali e ovvi; dodici brani comprensivi della rilettura di “Poveri suonatori” di Enzo Jannacci, che istigano una tracklist alla pari di una missione da espletare, dodici brani che giocano d’istinto e di tormento per orecchie in cerca di sensibilità e requisiti fuori dagli ambiti dilettantistici. Disco di accelerazioni e pause, rabbie e sospensioni, brezze e temporali che mostrano un evidente interesse per “l’espettorazione” della sincerità, che unita alla potenza domata dei watt, ne fa un lavoro eccellente, oltre le aspettative e gioco-forza di una sentimentalità spinta.

Un gioiellino rock che sprigiona possibilità di redenzione a tanti che gravitano nelle dabbenaggini dell’alternative, già pronto per l’esportabile e profondamente maturo sul filo immaginario del tratteggio, aperto alla contemporaneità come una finestra aperta sul cuore e sul mondo, spalancato nei sentori degli anni Novanta tricolori dei KarmaD.S.M.”, “Il mondo libero”, “La fine del mondo”, raccolto nella dolcezza eterea di “Binario 21”, consapevole “La droga più pesante” ed uggiosa di “Solo per te stesso”; i Grenouille increspano e raccontano come il dintorno di noi stessi non dovrebbe essere, come la sostanza della musica possa spesso intorbidire l’esistenzialità come del resto ripulire l’aria viziata del consueto, suonano e fanno estetica digrignando denti ma anche sollecitando l’anima a far vedere la sua parte candida oltre i jack e ben più in la dei distorsori.

Il prossimo 2013 ha già il suo disco underground di cui vantarsi come una puttana.


Voto: ◆◆◆
Label: Milano Sta Bruciando

Pharm - S/T (Recensione)

Pronti a prescrivere farmaci i cui effetti sono tutti da scoprire, ecco i Pharm gruppo nato dalla combinazione di cinque musicisti e video-maker.
Punto di forza del progetto è sicuramente l’esperienza che ognuno di loro abilmente mette a disposizione del collettivo, affinché suono ed immagine riescano a fondersi con magica leggerezza.
Osare sembra essere la loro parola d’ordine, e da bravi traghettatori d’anime riescono non solo con le immagini , ma anche con la vincente combinazione tra più “lontani” generi, dal jazz all’ elettronica, dal funky al rock, ad ottenere una musica che tocca le corde più sottili ed emotive dell’anima, avvolgendo gli ascoltatori in una sensazione quasi estatica.
Il disco, self-titled, registrato nel 2009-2010 e re-editato da Fabio Recchia, è un concentrato di un’accurata e meditata improvvisazione che da vita a sette tracce, quasi sempre evocatrici che scivolano ora pacate ora concitate ,ma di sicuro mai prepotenti. 

Le prime note di “Mrs Runciter” indugiano inquiete nell'aria prima di trasformarsi, quasi all’improvviso, in un suono che prende vigore dalla forza incalzante della batteria, su cui distorsioni e un’aliena voce si animano dando alla traccia la giusta linea di elettronica.
Ed ecco che la voce torna in “Sorbetto”, con frasi incomprensibili ma ben costruite sul nastro del basso e del synth, che danno alla traccia un suggestivo accento elettronico, anche se un leggero sprazzo di funky ci fa vivere una piccola parte in uno di quei film in cui dopo innumerevoli peripezie il crimine viene sgominato.
Totale cambio di rotta con “L’Africano”, terza e preziosa traccia dell’album. Qui i Pharm danno sicuramente prova di quanto siano versatili in qualsiasi genere musicale, mostrando le loro abilità anche nella massima forma d’improvvisazione: il Jazz. Traccia che incontrerà di sicuro il gusto di molti, dagli amanti del jazz, che troveranno non pochi richiami al sax del grande Coltrane, a coloro che già si sono sentiti come onde in balia dell’ emozioni,  ascoltando le elettroniche tracce precedenti, cupe e cariche di adrenalina.
Viaggiano quasi parallele “Buone Cose A Lei” e “Western Machines”, pezzi la cui precisa casualità di distorsioni, rumori e tintinnii,  ci fa pensare a tracce create e curate per esibizioni da vedere. Di sicuro ciò che salta all’occhio e all’orecchio è l’affascinante ossimoro del piano che chiude dolcemente la prima sonante delle due.
Voci metalliche in “Joe Chip” si presentano come bocche, occhi e un groviglio di corpi che finisce per divenire mare. Un mare in cui è “dolce naufragar” a ritmo di theremin che riesce a ricreare atmosfere degne di un video tanto avveniristico.
Finale onirico per Pharm, “Q” infatti ci porta lontano in un mondo immaginario, oltre le sei tracce già ascoltate, ma includendole, sognando un lungo viaggio verso l’indeterminatezza dei vari generi di cui la stessa traccia ne sembra essere testimone.

Musica per molti ma non per tutti, anche se siamo sicuri che i molti non potranno che aumentare “visto” l’esordio.
Ma si può davvero parlare di esordio quando si ascolta un gruppo come i Pharm, che ha già girato palchi di mezzo mondo?
Intanto restiamo in attesa della prossima “prescrizione”, che speriamo non si faccia attendere.

Voto : ◆◆◆
Label : Face Like A Frog






giovedì 29 novembre 2012

How To Destroy Angels - An omen Ep (Recensione)

Il ritorno di Trent Reznor, leader nonchè NIN, avviene attraverso questo E.P. firmato How To Destroy Angels. Ne avevamo già sentito parlare qualche anno fa, quando questo Personaggio di grande valore musicale costituì il suo side project insieme alla moglie Mariqueen Maandig, Atticus Ross e Rob Sheridan. E, considerata la fama raggiunta dal nostro, tanto che in Italia a breve uscirà un libro interamente dedicato a lui, "Niente mi può fermare", le attese sono state veramente tante, anche se personalmente ho sempre nutrito molti dubbi sul suo successo e sul suo valore di "Grande". L'ascolto è comunque fondamentale, e così mi accingo a provarlo. Se ne parla come di un lavoro trip hop e questo può essere un bene, qualcosa di sperimentale, certo, assolutamente distante da quanti lo identificano come nume moderno della musica industrial, così inizio. E inizia così, con "Keep it together", con dei ritmi per l'appunto vicini al trip hop, lenti, rilassati, ma che comunque non emozionano e non pungono, e non basta la voce di Maandig, in quello che è un tentativo di riprendere i Massive Attack mostrando una vena elettronica molto ricercata ma che è stata attraversata, e in modo meno banale, da tanti altri musicisti molto meno blasonati. Va bene, andiamo avanti con il cantico / ballata "Ice age", si scende in un ritmo che sta tra il tribale e il trip hop, effetto nullo. E' solo lunga, lunghissima, la voce è sempre quella, l'espressività è poca, ancor più evidenziata dalla cacofonia, ma che cacofonia non è, che Reznor punta a produrre per stordire. Comunque sia, l'effetto non viene sortito e si è piuttosto annoiati che straniati. L'impressione è che la voce costituisca l'elemento principale, ma che essa non abbia nulla da comunicare escludendo l'espressione di sè stessa, laddove Reznor adotta soluzioni banali. E così via, cambia il brano, "On the wing", ma in fondo sono un po tutti così, un po scontati, un po di derivazione. E si arriva alla conclusione di un disco piatto, un b-side di qualcosa che ci aspettiamo che, all'alba del 2013, sia diverso, ma non ne sono così sicuro. Dicono di lui che "niente lo possa fermare", ma cos'è quel qualcosa che potrebbe avere interesse a fermare un artista che si ciba di interesse mediatico ma che, sulla prova, non produce niente di veramente interessante? Dove risiede questa genialità? Certamente non in questo e.p. Due punti: uno per la qualità, l'altro per la fiducia.

Voto: ◆◆◇◇◇
Label The Null Corporation

Borderline Symphony - Ragazze Con Pistole (Recensione)

“Ragazze Con Pistole” è il debutto alla grande per Filippo Argento (basso, tastiere) e Luca Pollioni (voci, chitarre e tastiere), al secolo artistico Bordeline Symphony, duo italo.svizzero con una insana quanto ottima propensione e passione per il suono caldo, rimbombatamente vintage lo-fi, quelle atmosfere ovattate che ancora infatuano centinaia di musicisti e adepti in spiccata affinità con i sixsteen meticciati più profondi e alcaloidi che ci siano.

Ballate che danno piacere ai sensi collaudati di una certa riflessa psichedelica che anch’essa si specchia in una variegata texiture stilistica che comprende wave, anni Ottanta, scatti rock e la sincerità di un’anarchia di ripetuti ascolti di calibri distonici che riemergono ed esplodono, come polle di buona creatività, qua e la nella scaletta e che fanno narrazione pop come sintesi perfetta di una voracità di esecuzione visionaria e di più ancora; registrato su di un recorder 24 tracks, il disco è una fulminante allucinazione vigile che conduce in un ascolto temporalmente – di primo acchito – sfasante, senza guide e riferimenti, ma è solo una momentanea incapacità di seguire la mira del duo dei BS, poi una volta preso il verso giusto e la direttrice sonica tutto diventa una vetrina appariscente di proposte sonore che sfuggono all’omologazione e si esprimono in una audace straordinarietà originalissima.

Undici brani, undici takes che distribuiscono alternativamente frangenti emozionali con urgenze melodiche, immensità suggestive e autentiche coperture radiofoniche sfuggenti, una vera capacità di essere musica e musicanti senza distinzioni di ruoli, sole enfasi e assemblamenti radicali che ci riportano in un viaggio stimolante e pressoché sotterraneo; c’è anche moltissima contemporaneità fuori dai canoni consueti, una scelta di modulare – in un disco ufficiale e ancora privo di posture mainstream – un cosi ampio manifesto di timbri che è già un premio “alla carriera” potremmo definirlo, e che porta in un molto avanti il sentore di un buon affare su cui mettere mano ed orecchi.

Vengano dunque operazioni come queste dei nostri Borderline Symphony, arrivino pure il beat convulso di “La notte del dottor dolce vita”, l’elettro-wave alla CureSettimana snob”, “Terrorismo!”, la freschezza ventosa di una disillusione realistica “Gioventù senza gioventù”, la tubolarità di un eco nebbioso “Fiume d’oro” o il rock dall’eco Depeche che muove “It’s all about being in and stepping out”, e ancora ben vengano ondate di piena di tale portata, un suono di ieri e di un probabile domani che fa del presente una nuova rampa di lancio e di un differente modo di “costruire e montare suoni” per restare.

Sono in due ma fanno baccano per dieci, e le loro ragazze con pistole è un esperimento riuscito davvero. Violentateci il vostro stereo!

Voto: ◆◆◆
Label: Autoproduzione

mercoledì 28 novembre 2012

Ninos Du Brasil - Muito N.D.B. (Recensione)

La grande truffa del rock'n'roll (a partire dal nome volutamente scritto sbagliato: Ninos Du Brasil invece che Niños Do Brasil) la dispensano a questo giro Nico Vascellari (artista visivo internazionale, voce in With LoveLago Morto) e Nicolò Fortuni (farmacista friulano, batteria con With Love e Man On Wire, voce negli Smart Cops) in compagnia di Riccardo Mazza (chitarrista in A Flower KollapsedLago Morto, Orfanado, Lettera 22con l'appoggio della sempre più lungimirante branca extrastivale La Tempesta International (del vinile se ne occupa, come al solito, Tannen). Percussioni, urla e cori, coriandoli, stelle filanti e fuochi d'artificio per un carnevale pagano (ovviamente) in salsa punk/noise. Un tripudio di percussioni e poliritmie generate da cuica, congas, campane, jambè, rulli, piatti, claves, maracas, fischietti, campanelli ma anche bottiglie, lattine, pezzi di legno o plastica e quant'altro possa essere passato per le mani di Nicolò e di Nico, filtrati dagli effetti e dai suoni di Riccardo. La ritmica, il suono prima di tutto e un addio a qualsiasi inibizione o imbarazzo. Il denudarsi (o il cambiare abito, il travestirsi) e fare rumore. Il suono è quello incalzante di Rio durante il carnevale ma maneggiato da tre punk burloni forsennati, travestiti con costumi multicolore e sudici, sudati e con coriandoli e paillettes incollate al corpo e espressioni da invasati sul viso. Una truffa bella e buona ma di quelle che ci piacciono perchè fanno rumore e intortano chiunque perchè capaci di trascendere la musica stessa ed essere performance tout court. E infatti nasce dalla spontaneità dei due Nico e dalla loro anima punk questo progetto. Prima di tutto su palchi o in spazi espositivi, come estemporanea fuoriuscita di vitalità estrema e parossistica, affinata di show in show fino a diventare ad ogni passaggio una festa pagana in cui la catarsi la raggiungi urlando e menando il tamburo oltre che il culo. E non ti vergogni più di aver danzato musica sudamericana, perchè qua è trasfigurata in rituale ritmico/ipnotico, in baccanale capace sia di farti trascendere con l'ipnotismo cullante di una "Abacaxi Nax Coxas" o della conclusiva "Hysà" sia di farti saltare come non credevi mai di poter fare con l'ossessivo ritmico di "Tuppelo" (che inizia col fischio elettronico di "Swastika Eyes" dei Primal Scream, o perlomeno quella è la prima cosa che mi è venuta in mente appena parte!). Mi sembra chiaro che a questo punto più che il disco da ascoltare, in questo caso sia importante vederli dal vivo questi tre sciamannati: provare per credere! In concomitanza con l'uscita del disco verranno anche pubblicati in versione digitale altri due brani: un remix di uno dei deejay più caldi della scena internazionale, Congorock, e un pezzo con la partecipazione di Arto Lindsay.



Voto: ◆◆◆
Label: La Tempesta International


martedì 27 novembre 2012

Gli Sportivi - Black Sheep (Recensione)

Ce ne fossero di pecore nere così. L'esordio full lenght de Gli Sportivi me lo immaginavo sulla falsariga degli Offlaga Disco Pax e di tutti i gruppi da lì in avanti sorti sull'onda lunga del loro successo (non me ne vogliano Massimo Volume et similia ma sono Max Collini e compagni ad aver riportato in auge il trend del reading), ingannato da un nome che ritenevo più adatto a quel tipo di sonorità, ma i titoli in inglese mi han fatto ricredere subito e già alla prima traccia “Gimme Gimme Your Hand” si capisce che i riferimenti sono puramente rock'n'roll, aggiornando suoni anni 70 ad un immaginario che pesca anche dalla sfrontatezza del garage rock britannico.
Sarebbe un errore sbolognare queste 8 tracce come semplice e puro rock, veloce e d'impatto, il che non sarebbe neanche così male come definizione: è vero che le strutture che stanno dietro ai pezzi del duo formato da Lorenzo Petri (chitarra e voce) e Nicola Zanetti (batteria) non sono le più articolate sentite negli ultimi anni, ma il funk che si insinua in “Talking About” (a cui un basso più presente avrebbe garantito maggiore incisività) e le influenze mudhoneyiane della conclusiva “Commit Suicide” garantiscono un minimo di varietà all'album. E' facendo attenzione a ciò che si nasconde sotto la superficie scanzonata però che ci si accorge del reale valore della band, soprattutto a livello chitarristico: brani piacevoli ma tutto sommato non indimenticabili come l'opening track, “I'm A Cop” o la scheggia “Go Back” sono portati ad un livello più alto da invenzioni della 6 corde, che passano da un semplice utilizzo azzeccato del wah nella seconda traccia al reverse utilizzato con parsimonia e senza sfoggio di tecnicismi inutili, per concludere con i ritornelli tellurici dell'ultimo pezzo di questa triade. La batteria da par suo svolge ottimamente il compito, sfogando la fame d'improvvisazione nella già citata “Talking About” e mostrandosi a suo agio anche quando il ritmo rallenta, come nella tranquilla ed intensa “How Does It Feel”, dove Gli Sportivi lasciano intravedere eredità nineties fin lì ben nascoste. Qualche sbavatura c'è (la poca verve della scialba “Black Cat” in particolare), ma l'energia del duo è contagiosa e fa passare sopra ai difetti minori, soprattutto quando si sfoga in pieno nell'esplosiva “I'm Going To Mexico”, pezzo al fulmicotone granitico nel suo incedere ruvido e grezzo.
F
orse le 4 stelle del voto qui sotto sono troppe per il duo, ma 3 sarebbero state sicuramente troppe poche. A voi valutare quanto le piccole sfumature di personalità infilate in una veste rock'n'roll non originalissima contino nella vostra scala personale, io il mio parere l'ho dato e spero di vedere se questa miscela esplosiva si dimostra tale anche dal vivo.

Voto: ◆◆◆

Label: Flue Records


lunedì 26 novembre 2012

Apash 2012 - Blacker (Recensione)

Indossate un paio di cuffie che vi isolino dal frastuono intorno.

Premere play è d’obbligo, con cautela per i cuori con le crepe, come i muri straziati dai terremoti.
Condividetene il dramma e prendetene la poesia.
È questo che il nuovo lavoro di Apash 2012, Blacker, suggerisce.
L’intimo struggimento cantato in dieci brani.
Mezz’ora (appena) di vita per raccontare una vita.
È la voce di Fabio Armando Patini a guidare l’ascolto, proposto da questi nomadi del suono, che, con l’umiltà più dolce e delicata, si confida un po’ agli accordi di chitarra, un po’ alle pareti d’una cameretta forse troppo stretta, un po’ a sé stesso.
Incipit a capella, a “profanare” il canto di chiesa “Holy”, in una versione pietrificante e originale quasi inattesa, a cui segue un racconto, una sorta di presa di coscienza del tempo andato, dei colpi subiti in pieno petto, delle strade percorse senza giungere ad una meta. Nella dispersione delle cose non illuminate dal sole che non splende c’è “It's your tourn” , dove la sconfitta non è la rassegnazione di un hikikomori deluso, è piuttosto una tappa d’un corridore stanco e con le scarpe lacerate, consapevole che l’immensità del mondo non finisce col dolore. E nemmeno la bellezza, che è nei sentimenti, quelli veri.



Ed è con la quasi spensierata “Happiness” che le tonalità si fanno “radiofoniche”, distese, e nonostante quel “sadness” irrompa austero a metà brano, la voglia di felicità e la pazienza per ottenerla, rendono tutta l’ingenuità del desiderio puro d’un’esistenza meno grave.
Un amore a tratti universale, a tratti privatissimo con la sua solitudine ed incomprensione, è quello che si dispiega nella trama di questo flusso di pensieri, mentre le dita ticchettano sul tavolo alla ricerca della soluzione, tra ballate e capricciosi “esperimenti elettronici” ("Rosemary Fields Whatever" , "All In").
I sentimenti bui sono sani, sinceri, e nella loro oscurità reali più che mai.
Nobody wants to be alone tonight, gotta stay together”. In “Jealousy” il lamento è rabbia discreta che consuma il tempo e porta alla pazzia, la stessa che nella ruvida “Alcatraz” si preannuncia una fuga che è anche, un po’, una rincorsa. Colpa dell’abitudine, abitudine a star male, a guardarsi negli occhi senza dirsi le parole che vorremmo. “In Routine” c’è la constatazione del disorientamento, della dispersione, dei ritorni, delle dipartite; ma il momento di “andare”arriva, per focalizzarsi su tutto il resto, sul nuovo, sull’imprevisto, su quello che s’era tralasciato".

Paid attention to your needs”. Tutto quello che c’è da fare è dare voce ai proprio bisogni, e non soffocarli solo perché qualcun altro l’ha fatto.
Non è certo un ascolto da “posta del cuore” o poco impegnativo, Blacker. Tutt’il contrario.
L’inadeguatezza e le insicurezze vengono a galla nel mare di lacrime e bisogna affrontarle con navi sicure e robuste. Se tra i vostri dischi ci sono “Figure 8 “ ed “Ellioth Smith” dell’omonimo cantautore statunitense, allora sarà tutto più affrontabile.
E qualora siate impreparati, la musica salva, sempre.

Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Autoproduzione

sabato 24 novembre 2012

Shijo X - ...If a night (Recensione)

Sarebbe troppo facile iniziare a parlare di If a night sfruttando le pressoché infinite possibilità che ci offre la linguistica nel campo del periodo ipotetico: se una notte mi svegliassi nel bel mezzo di un coma etilico, potrei credere di essere un ranocchio e saltellare qui e lì tutto agitato, se una notte non riuscissi a dormire potrei andare a farmi un giro sulla variante e scoprire che Sailor Moon fa la puttana. Mondo cattivo. Ma rientrando nei ranghi imposti dalla seriosa e notturna atmosfera del disco, lasciamoci scivolare in questo piccolo viaggio oscillante tra ore vuote e languidamente piene di niente. Ultima fatica dei teramani Shijo X, If a night è un album che mescola un'elettronica morbida e avvolgente agli schemi e le sonorità del trip-hop inglese. Tredici canzoni che sono un collage di note decadenti, giri di basso dal sapore jazz, dissonanze e tastiere che spaziano dal synth ai pianoforti scordati e impolverati. La voce di Laura Sinigaglia è squillante o ariosa nei momenti giusti, si inclina perfettamente in cadenze blues che impreziosiscono il cantato e passa con sorprendente facilità da linee vocali sinuose e classicheggianti come "Almost in trouble" a quelle più nevrotiche e meno convenzionali come "Krueger" o "Runnin' ". Complessivamente non vi è nulla di particolarmente innovativo o che non abbiano fatto i Portishead o i Lamb da quindici anni a questa parte, ma i quattro raccolgono i frammenti di un cuore ancora pulsante e li ricompongono in canzoni che non si fa fatica a definire semplicemente "belle". La competenza musicale è alta, le idee ben strutturate in un viaggio mentale che dura infinite notti. Troviamo potenziali singoli come "Bologna by night" o "Uptown bike", brani più particolari come "In (the) Moscow" o "Colors", in cui il gruppo trova geniali soluzioni a quella che può essere una banalità preannunciata, o pezzi come la già citata Almost in trouble: piacevoli ma che lasciano un po' il tempo che trovano. Teramo non è Bristol, ma gli Shijo X se la cavano più che degnamente dando alla loro musica un'impronta matura e internazionale: il loro è un mondo sospeso e denso di colori coagulati nelle tenebre, fatale e leggero come il volo di una farfalla che muore e dove una notte, sulla bici arrugginita, scoprire la crudeltà del bianco e nero.

Voto: ◆◆◆
Label: Audioglobe

venerdì 23 novembre 2012

Three Second Kiss - Tastyville (Recensione)


Quale altra migliore copertina che il dipinto La Tigre E Il Serpente del pittore italiano Antonio Ligabue per esprimere la versatilità con cui i Three Second Kiss ritornano agli strumenti dopo l'ultimo Long Distance del 2008? Ovviamente, nessuna. Il trio bolognese, legato a June of 44, Shipping News e Blonde Redhead da vincoli di sangue musicale, vede nuovamente Massimo Mosca (basso e voce), Sergio Carlini (chitarra) e Sacha Tilotta (batterista, nonchè figlio di Giovanna Cacciola degli Uzeda) in prima linea su Tastyville, coeso prodotto sfornato in casa Africantape. Mescolando con estrema sapienza un rock primitivo che trabocca di suggestioni alternative americane unito a uno spiccato gusto per la componente istintiva e caotica del punk, l'album non necessita di troppe presentazioni; i Big Black e gli Shellac albiniani hanno insegnato bene la lezione ai Three Second Kiss, che riescono a creare un originale pot-pourri superiore addirittura al free-jazz. Ce lo dimostra già Caterpillar Tracks Haircut, prima traccia che si muove sinuosa dentro forme melodiche poliedriche, fatte di armonie lente, a tratti spezzettate da lunghe strumentali batteristiche, l'organetto introduce la voce ammaliante di Mosca che insegue con incredibile naturalezza i guizzi sostenuti dalla chitarra di Carlini verso una quasi suite che termina leggera e sommessa. The Sky Is Mine entra in scena più altezzosa come una tra le tracce più interessanti del lavoro insieme a Maya, pezzo in cui si concentra tutta la passione endocrina del gruppo, oltre che l'intrinseca dolcezza. A Catastrophe Outside gioca su parabole d'accordi ripetuti che non tardano però a palesare un altro ritornello atipico, perforante, se non illuminante nelle sue parole. Vampirized non perdona, con l'incipit volutamente francese, avanza orrorifica e decadente. Don't Dirty My Heart è patetica, sentimentale quasi, a giudicare dai gridi contenuti dentro i cambi ritmici, senza troppo oscurare però le esoticissime Cut The Nerve e In Winter, The Sun Shines Over The Bridge. Il finale in bellezza è invece riservato alla misteriosa Moon Red, apice dello start 'n stop così come di un flirt chitarristico di non poco conto.
Se anche si può avere la sensazione di avvertire una certa monotematicità sonora, i tre riescono sempre a frullare tutti i miscugli possibili, con la loro formula esplosiva post-hardcore e math ben architettata.

Niente male per tre ragazzi che suonano solo da 15 anni.

Voto:  ◆◆◆◇+
Label: Africantape
 


giovedì 22 novembre 2012

Godspeed You! Black Emperor - 'Allelujah! Don't Bend! Ascend! (Recensione)

E' facile arrivare a posizionare il NON genere musicale chiamato Post Rock come fenomeno di moda e costume di questo primo, poco più che decennale, terzo millennio che, quindi, ha già vissuto l'Avvento, il Picco e la Degressione di questo trend, senza essere mutato, poi, nemmeno troppo.
Quando, però, si arriva a posizionare in questa isterica teoria il peso e l'importanza di una band nata nel 1994, che ha lo stesso impatto scenico-cinematografico di alcuni suoi colleghi (per autocitarmi vedi Mono), ma una tendenza epica ed apocalittica come nessuno, diventa difficile credere alla stessa.
È in questo modo che tornano dopo dieci anni dal loro ultimo lavoro i Godspeed You! Black Emperor con quattro tracce che si allontanano un po' da quella influenza Morriconiana a loro attribuita.
Meno parole e meno archi, più musica e più digressioni negli stessi brani ricchi di nervosismo e durezza nelle note: si lasciano un po' alle spalle la sospensione e la grazia, non perdendo l'abitudine a dividere la traccia in movimenti, cosi come se fosse una sinfonia classica.
Un esempio perfetto è "We Drift Like Worried Fire" (uno dei titoli più pertinenti all'interno di un cd), che parte con un ritmo creato da batteria e corde, ripetitive e rassicuranti, ma che si spezza in favore di parti elettroniche che si proiettano come schegge di luce fino alla fine del brano.
Parafrasando la band: "Se inizieranno ad ascoltarci solo perchè spinti dai media, smetteremo di suonare" ed ascoltarli è davvero l'unico modo di capire il loro talento.
Per quanto meno incisivi, non smettono di far sentire i fan Protagonisti delle loro tracce, che diventano, quindi, sceneggiature complete di immaginari film.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Constellation



mercoledì 21 novembre 2012

Gentless3 - Speak To The Bones (Recensione)

Spesso mancano le parole, quando la musica è talmente intensa da trascinarti in una sorta di vortice afasico, quando tutto sembra fermare i battiti cardiaci e ti lasci andare alla potenza delle cantilene. Tra rintocchi accorati di piano, banjo, mandola, sorde batterie e folk rock isolano, la fortuna ragusana chiamata Gentless3 imbarca su una nuova, seconda avventura iniziata quest'estate al Teatro Coppola di Catania. Complici amici musicisti di altissimo livello come Francesco Cantone (ex Twig Infection, Tellaro, Colapesce) nonchè Joe Lally, storico bassista dei Fugazi e membri irrinunciabili dell'Arsenale, come l'illustre Cesare Basile. Già dall'artwork baudelairiano da spleen, si può intuire tutta la magnificenza di questo capolavoro, sicuramente più variegato e interessante del precedente e tuttavia seminale I've Buried Your Shoes Down By The Garden; il modulato dismesso ma sempre romantico di Carlo Natoli permea 12 serenate che forse dire toccanti è poco, accompagnato a lunghe riprese dalle backing vocals di Sebastiano Cataudo e Sergio Occhipinti. Ed è subito facile perdersi dentro aure talmente intimistiche che quasi si stenta a credere possano uscire dalle sole mani di un trio, che si lascia pure andare alla forma parlata e agli strumentali, presenti in "Jellyfish", "March e Another Ghost World", mentre fanno la loro comparsa anche "Letters From A New Form"  e "My Father Moved Through Dooms Of  Love", ballate folk atipiche dall'intro lenta che però presto ascende a una maggior potenza, avvinghiandosi dentro spirali di irresistibile post-rock. Ma poi sbattiamo contro una parete di lirismo tradizionale che ci fa pensare che forse il Medioevo non se n'è mai andato; vedi "V For Vittoria e A New Spell", quest'ultima insieme a "Savedtra le più incisive e sentimentali dell'album. Subentra, senza troppo farsi attendere, la dolcissima "Destination Unknown", coronata da un trittico di mandolino, piano e distorsione elettrica. "Cardgame", a sua volta, è eterea e corale, nell'intento stilistico di questo lavoro che vuole dotarsi di tutti gli strumenti a disposizione della musicalità, in particolar modo dell'estrema duttilità della voce. La vera sorpresa è però senza dubbio rappresentata da "Ellis Island", una ghost track appositamente  dedicata a uno degli ultimi padri spirituali del folk-songwriting americano, Elliott Smith. Inutile quindi nascondere il manifesto apprezzamento che Carlo provi per scene alternative a Boston, Louisville, Portland, e tutte quelle piccole "shiny towns" che hanno sfornato band di rara bellezza compositiva quali Codeine, Slint, June Of 44, Don Caballero, Karate, Come. Da esse, i Gentless3 sanno mutuare le chiare idee math-rock del gusto per la ritmica convulsa, disomogenea, e tuttavia polarizzarle nell'universo ibleo di una Sicilia che può anche fregiarsi dei suoi vessilli da terra bruciata, ma certo non artisticamente arida.
E allora, sussurri e fughe sgangherate di lamenti attivi invitano a non dire altro su questo incredibile compendio melodico, il quale con ogni probabilità, sarà il compagno perfetto nelle fredde sere d'inverno.

Voto: ◆◆◆
Label: Viceversa/Audioglobe

lunedì 19 novembre 2012

Mamavegas - Hymn For the Bad Things (Recensione)

Hymn For the Bad Things è un disco che fa rimpiangere l'assenza di un'etichetta indipendente come la Homesleep, per il fatto che sarebbe stato degno del suo catalogo, ed è questo il primo complimento che mi sento di fare e in realtà vuol dire molto altro ancora. Con quest'album si ripercorrere la storia di una determinata attitudine musicale che pian piano sta venendo a mancare in Italia, dove si ha come la sensazione di un continuo disorientamento tra chi produce e chi ascolta musica.
In questo senso i Mamavegas si presentano al primo vero appuntamento discografico con un lavoro impeccabile, con undici brani folk rock, alcuni se vogliamo vicini alle sonorità della band tedesca Get Well Soon, uno dei pochi paragoni che mi sento di fare e dato che in molti attendevano da anni una simile band in Italia credo la loro uscita farà parecchio parlare di sé. "Hymn For the Bad Things" è un concept album su i repentini cambiamenti che la vita ci propina non a caso queste sono le prime parole del disco: "if only you'd known what my mind was dreaming about". Ogni brano è accompagnato da un sottotitolo: Beauty, Time, People, Hope, Nature, Trust, Love, Faith, Happines, Hymn, Tales from Today che arricchiscono i testi di un'ulteriore senso.
L'album vanta la produzione artistica e il missaggio di Giacomo Fiorenza che è riuscito nell'arduo compito di plasmare tutti gli arrangiamenti portando ordine e armonia. Importante segnalare anche la presenza all'interno di questo sestetto di Matteo Portelli già attivo come bassista negli Yuppie Flu
Un plauso va inoltre a 42 Records che ha creduto in una band molto distante da I Cani, Colapesce e Criminal Jokers, ma che impreziosisce l'orami ricco catalogo alzando decisamente il livello qualitativo e spingendo il disco verso una distribuzione estera che partirà da febbraio 2013 verso Germania, Spagna, Austria e Spagna da Rough Trade e addirittura negli Stati Uniti e Sudamerica da The Orchard

Voto: ◆◆◆
Label: 42 Records



Alessandro Grazian - Armi (Recensione)

Rimane sotto il poeta che è, ma il modo di confidarlo è cambiato profondamente, ora la linea d’ombra di demarcazione tra un certo barocco di ieri e la svolta elettrica e minimalista d’oggi è netta, disincantata e relegata ad una wave gentile, nervosa, ma gentile davvero.

Alessandro Grazian – dopo un silenzio tecnico – torna con “Armi”, l’album della trasformazione, crisalide e farfalla nell’arco di una metamorfosi compiuta, una nuova atmosferizzazione che impressiona in positivo la latitudine in cui l’artista padovano ora si muove, dileggia e rinasce in un immaginario filtrato da scosse e lampi; canzoni sospese e immediatamente dopo cariche di energia, pura canzone d’autore che – tra melodia e grigi cromatici – si fa piccolo capolavoro della nuova stagione che arriva e che in otto tracce, realizzate in collaborazione con Leziero Rescigno degli Amour Fou, riesce a rientrare negli evidenti gusti di un ascolto conturbato e attratto.

C’è il rock, la wave soffusa, la penna raffinata e le visioni di un Grazian di nuovo corso, la duttilità di pezzi d’arte e frequenze sonore che vibrano, allietano e scaricano una poetica gridata “Se tocca a te”, il cortocircuito di nervi che scuote la titletrack per poi farsi unguento lenitivo e uggioso nella sua ondifraga deriva post-rock “Estate”, nella piega nebbiosa dello shoegazer “Nonchalance” o nell’epilettismo orale che riflette lontanissimi CCCPNon devi essere poetico mai”, un disco che passa in rassegna riverberi e larsen d’anima che fanno nodi in gola e inebrianti immediatezze che, specialmente se si sale a bordo di “Soltanto io” - trionfo leggiadro di liquidità e movimento dubbato – ci si rende conto che questo “Angelo risolto” prestato alla musica ha molto da dire e che pulsa incessantemente di eleganza mai invadente.

Grazian si è fatto grande, osa e vince la sfida, le sfide che ogni giorno si appostano davanti, non è interessato alla rigidità dei canoni sonanti, glissa e si riprende quella stupenda libertà di versi e toni che la propria gravità zero gli permette, gli concede e lo premia. Disco di grande potenza interiore.

Voto: ◆◆◆
Label: Ghost Record

Normal Insane - Sedici (Recensione)

Sedici è l'esordio ufficiale dei Normal Insane, e la maggior parte degli esordi porta con sé inevitabilmente dei difetti. Cose che si possono perdonare all'inizio della carriera (anche se pare che la band veneta sia in giro da un bel po'), basta che non si esageri. Purtroppo però in questo disco si esagera.
Le prime due tracce, “Corn Flakes” e “Farfalla”, contengono già difetti non di poco conto, a partire da una registrazione che privilegia in maniera massiccia la voce nella prima e la seppellisce sotto gli strumenti nella seconda, dando già un'immagine generale di poca coesione che, pur senza estremi simili, si nota in tutte le tredici tracce. La scelta di privilegiare la voce nella opening track ammazza oltretutto le dinamiche di una canzone già di per sé non eccezionale, che paradossalmente trova nei ritornelli i suoi momenti più loffi invece di dare libero sfogo alla tensione accumulata da strofe in crescendo continuo: che la scelta di calare il ritmo sia voluta è evidenziata dagli inserimenti soft di tastiera, ma che la voce non faccia niente per rimarcare questo cambio di registro è totalmente controproducente. “Farfalla” inaugura invece una lunga sfilza di canzoni prese di peso da un revival di musica grunge anni 90, che sembrano arrivare da due decenni fa più per i suoni vecchi e totalmente impersonali che non per la fantasia compositiva (che ai tempi c'era, checchè ne possano dire i detrattori che citeranno Smells Like Teen Spirit e poco altro), al cui confronto i Nirvana di inizio carriera sembravano i Pink Floyd. Le tinte cupe regnano perlopiù sovrane, ma anche quando i suoni si fanno più soft e solari non si passano certo bei momenti: la storiella surreale di “Ufo” chiude 4 minuti scarsi di noia con vocalizzi pessimi, mentre “Toilette” è quasi fastidiosa nella sua mancanza di idee. Ci sono classiche canzoni cupe in cui le distorsioni si sfogano in anonimi ritornelli (“Missa”), lenti che vorrebbero essere ammalianti ma sono solo estenuanti (“Hawaii” e “Glicine”), pezzi ritmati in cui i suoni risultano peggiori che mai (ascoltare l'anonima chitarra in secondo piano in “Tango”): si salva giusto l'allegra ed intensa“Mai”, ma giusto per capirci non è niente di più di quanto potessero fare senza sforzo i primi Verdena. E se il cantato fa solo il suo compitino e niente più per tutta la durata dell'album è nei testi che Denny lascia veramente perplesso, rimandando al trio bergamasco poc'anzi citato ma con effetti peggiori: non sono un fan dei testi di Alberto Ferrari, ma le parole arzigigolate che si va a ricercare (o inventare, stenuo esiste veramente come parola? Secondo il correttore di Openword no) danno ai suoi testi un'aria di ermetismo che le banalità infilate nei pezzi di Normal Insane non possono sperare di raggiungere.
Si può perdonare l'inesperienza, ma ai Normal Insane mancano i fondamentali. Innanzitutto un passo: uscire dagli anni 90, o almeno riscriverli senza fare copia incolla.

Voto: ◆◇◇◇◇
Label: Black Nutria




sabato 17 novembre 2012

Metz - S/t (Recensione)

Saturazioni rumoriste, claustrofobia sonora; rock'n roll consacrato allo sballo sotto forma di power trio canadese. I Metz sono i figli marci e (met)anfetaminici degli anni'90. Una pioggia di feedback, il nervo teso delle percussioni che palpita ad ogni skip, l'urlo che ti entra dentro e sa di aneurisma imminente.
Sono il rinculo del Remington calibro 20 di "flanella" Cobain ("Wasted"), sono i trip acidi e dissonanti della Gioventù Sonica ("Rats", "Nausea"), il ghigno famelico di David Yow ("Get Off"), la visceralità  primigenia dei Drive Like Jehu ("Wet Blanket"), l'alienazione devastante e devastata della vecchia scuola noise, quella dei volumi folli (vedere alla voce Unsane) ma anche quella dei riverberi stranianti ed onnivori a livello d'immondizia sonora ("Knife in The  Water","Negative Space"). I Metz sono l'istantanea di un'immediatezza e carnalità che non vuole aggiungere nè togliere nulla ma solo far male, stordire, inebriare e lasciare con un dopo sbornia di tutto rispetto. I Metz puzzano di Touch and Go da un miglio ed hanno il marchio Sub Pop, sono il capitolo successivo a quel ritorno in auge delle chitarrone e dell'autodistruzione d'oggi, quell' attitudine nineties meets anni'00 già vista in band come Japandroids e Cloud Nothings.

Come passare un chiodo sul vetro bagnato.

Voto: 
Label: Sub Pop

venerdì 16 novembre 2012

ManzOni - Cucina Povera (Recensione)

Cucina povera” è il titolo del secondo album dei ManzOni ed è uno di quegli album  che non deve passare inosservato, anche perché davvero, non sarebbe possibile rimanere indifferenti.
Ogni indizio è indispensabile per capire questo lavoro, poiché ricco di riflessioni e richiami, quindi facciamo un passo indietro e cominciamo dall’inizio.
Il nome del gruppo si riferisce espressamente a Piero Manzoni, che tutti noi conosciamo per “Merda d’artista”  anche se è davvero riduttivo circoscrivere il tutto solo a questo, Piero Manzoni è “Fiati d’artista”, i palloncini, per intenderci ( a cui gli stessi ManzOni non sono estranei), è “Achrome” ,è provocazione, è specchio di una determinata società. Ma la domanda che più  perseguita la sua arte è “Ma cosa voleva dire?” o il tanto odiato quanto legittimo “ Potevo farlo anche io!” il grande dilemma agita più il fruitore che la critica, genio o bluff?
La risposta di certo non la troveremo in queste pagine, ma è un grande spunto per capire cosa confluisce nei ManzOni, che poi tra l’altro quella “O” nel nome, sta ad indicare lo stupore e la meraviglia degli uomini di fronte ad un’opera, d’avanti alla vita.
Quando si ascolta “Cucina Povera” , si rimane stupiti dalle soluzioni che si  trovato nel loro sound, e infatti non è mai solo quello che sembra, non è semplicemente post rock, non è solamente cantautorato, non è un bluff, ma è una somma di tutti questi ingredienti.
Se volessimo definirlo in parole povere e culinarie (visto che si sta parlando di cucina), dovremmo dire che si tratta di un “minestrone” , e invece anche qui ci sbaglieremmo, sono più degli “spaghetti aglio, olio e peperoncino”, di quelli semplici, ma che non possono essere mangiati in solitudine. Si mangiano in compagnia, la sera, improvvisando questo piatto semplice ma che rende speciale la condivisione di più esperienze e che mette d’accordo tutti.
Non è sbagliato parlare di post rock e di anima cantautorale, perché effettivamente questi due filoni si notato sin da subito, la voce e la personalità Luigi Tenca, è fondamentale per comprendere tutto questo, è il punto di congiunzione tra questi due mondi ma anche il punto di rottura. A volte sembra che si adagia sulla musica, che di certo non può essere definita cantautorale, con una voce mai impostata, non recitata, non esagerata, non enfatizzata, come se si trovasse su quelle battute quasi per caso, a volte invece sembra che tutto ruoti attorno ai suoi testi, come se fosse esattamente il contrario, cioè che è la musica a seguire la sua metrica. Forse l’arcano di questi intrecci  è attribuibile al loro sound , alle quattro chitarre, alla batteria che a quanto pare viene suonata da quasi tutti i membri della band (Ummer Freguia, Fiorenzo Fuolega, Carlo Trevisan, Emilio Veronese), ai suoni in loop, e ai  testi, estremamente contemporanei.
L’album si apre con “Mario in diretta tv” , storia di un operaio, fortemente attuale come tema, due generazioni a confronto, le preoccupazioni dinanzi al futuro, dinanzi al lavoro, il passaggio del testimone, il velo dell’angoscia. Si continua con “Dal diario, a mia madre” che assieme a “A mio padre”  crea un dittico di intimità, di affetti, di una riservatezza svelata con grande nostalgia e  maestria da Luigi e accompagnata da un’atmosfera molto alla Goodspeed You! Black Emperor!
Scusami” assieme a quella che è la perla di questo lavoro, “Una Garzantina”, sono quei pezzi, sussurrati, dolci, ma anche con un pizzico di rimprovero, perché effettivamente tutti noi tendiamo a complicare ogni cosa, ma alla fine non dovrebbe servire una garzantina per vivere, forse bisogna solo lasciar andare le cose così come vanno.
...ed ecco l’alba”   suoni in loop, voce, il congiungersi di metriche che si fondono perfettamente. È la volta di  “Dimmi se è vero” e “In Toscana” da ascoltare fino alle ultime battute.
La chiusa è affidata a “La Strada” con una coda strumentale di tutto rispetto, il giusto modo per chiudere un album, il giusto modo per fare capire tutto quello che c’è stato prima, niente ritornelli, solo flussi, solo vita raccontata, come potrebbero fare tutti, come ci riescono in pochi.
Sembra tutto complicato, sembra il minestrone di prima, ma quando poi ti fermi ad ascoltare, traccia dopo traccia, resti soddisfatto come quelle cene improvvisate a tarda sera con gli amici, dove c’è confusione e dove c’è sapore di casa e di racconti che ci appartengono.

Chiudiamo menzionando la bellissima copertina ad opera di Marcello Petruzzi, che ben si intona con il concept di questo ricchissimo album.

Voto: ◆◆◆
Label: Garricha Dischi

giovedì 15 novembre 2012

Pinback - Information Retrieved (Recensione)

Si rifanno vivi dopo una pausa durata quasi cinque anni – da fonti ufficiali per motivi interni e di carattere – i californiani Pinback, forse una delle band di San Diego che più incarnano la trasformazione più completa che la scena americana underground abbia mai avuto fino ad ora; da un passato esperienziale di band dedita al math-hardcore e post-rock ritrovarceli in un pop ben strutturato che non scende al di sotto dello zuccheroso, sempre in perfetta bolla per piacere è quasi una favola urbana che si può raccontare ovunque, sta di fatto che “Information Retrieved” oltre che suonare pop è stramaledettamente bello, alternativo e nuovo da non crederci se non ascoltato.

I Pinback – duo formato dall’incontro di Rob Crow e Armistead Burwell IV – uniscono i loro forti background sonori e li fondano in un tutto nuovo modo di sintetizzare le emozioni, dieci brani che infiocchettano una tracklist piacevolissima, un songwrtiting adulto e in linea con le necessità d’ascolto che pretendono intuizioni convincenti e nuovi stupori da portare dentro, e a questo scopo il disco in questione soddisfa egregiamente le aspettative; canzoni che si muovono libere tra i linguaggi, senza badare al proprio piccolo orticello e preparate a saltare verso nuovi confini e interpretare i sentimenti collettivi come l’amore “Glide”, “Drawstring”, gli amici di sempre ritrovati “Sherman”, le piogge melanconiche di Elliott Smith “Diminished” o le sfumature godibilissime che “Denslow, you idiot!” e “Sediment” lasciano strada facendo tra radiofonicità espressiva e costruzioni per piccole vertigini.

Il pop dei Pinback non vuole assecondare le mode, suona e cambia provando a trasferire il proprio pubblico in un universo di note e ritmi che pur restando marcatamente personale, si allarga e respira ampiamente per restare ancora più ampio e vario, più affascinante ma soprattutto mai ovvio, fuori della provincialità e al centro di un nuovo manifesto di genere.

Da consumare con ingordigia.

Voto: ◆◆◆
label: Temporary Residence 

Il Marchese - Carnivoro (Recensione)

Secondo album per la band monzese Il Marchese, gruppo che mi aveva lasciato in passato sensazioni contrastanti: se infatti il disco d'esordio Effetto Bukowski mi aveva lasciato piuttosto indifferente è incrociandoli dal vivo che avevo preso coscienza del loro potenziale energico, un potenziale che me li aveva fatti apprezzare più dei loffi The Fire e quasi più anche del Teatro Degli Orrori (Capovilla e soci salvati in corner dai pezzi del primo album sparati tutti in fila in coda al concerto) in una data condivisa coi due gruppi al Live Club di Trezzo Sull'Adda. Ce l'hanno fatta stavolta a portare la magia live su disco? Sì e no...
L'apertura con “1 In 2 @ Bombay” trasmette sensazioni positive, con un sound aggressivo e cadenze da stoner band, un abito che sembra stargli addosso meglio di quanto non facesse in passato. Le unghie le tirano fuori con ancora maggiore convinzione nelle tiratissime “Vv Veloce” e “La Soluzione”, ma arrivato a metà album rimango sempre meno convinto della miscela della band. Sarà che la tranquillità di “Luna Bar” mi palesa davanti agli occhi una somiglianza coi Negrita che la voce grattata ed i suoni incattiviti mi avevano nascosto, sarà che “Toilette” mi lascia indifferente sia come testo che come struttura ma mi godo sempre meno il viaggio sonoro, e la sterile polemica contro la società italiana di “Pubblicità” mi dà quasi il colpo di grazia a causa anche di una ripetitività pesante da digerire nonostante duri solo 3 minuti: non sono certo i primi e non saranno gli ultimi a prendersela coi luoghi comuni del paese del sole, ma se devo farmi intortare da dei clichè continuo a preferire chi me li sa camuffare con testi di alto livello (“Mp Nella Bg” di Canali e Rossofuoco ad esempio). “Chanel” rimette gli “Il Marchese” in carreggiata, impreziosita da un testo non epocale ma piacevole, e la potenza della conclusiva “Z 149” li potrebbe anche traghettare in modo soddisfacente verso la fine se non fosse che arriva poco prima la sbandata decisiva con la ballad banalissima “L'Attesa”, buona per un pubblico che ascolta solamente le 4 canzoni che passa giornalmente Virgin Radio...ma forse sono io ad essere troppo esigente.
Più convincenti come potenza ma incastrati in un limbo: Il Marchese è un progetto che sembra non aver ancora deciso se abbracciare la potenza di fuoco che si avverte in secondo piano o votarsi al grande pubblico, verso il quale “Luna Bar” e “L'Attesa” riscontrerebbero sicuramente buon successo. Che siano consapevoli o meno di questa metà oscura non posso evitare di giudicarla come ciò che fa precipitare “Carnivoro” da buon album a disco da ascoltare senza particolari pretese.

Voto: ◆◆◆◇◇

Label: Live Club/Libra


mercoledì 14 novembre 2012

Title Fight - Floral Green (Recensione)


…e poi un giorno ti consigliano di ascoltare i Title Fight, un gruppo del quale non hai mai sentito parlare nonostante sia già alla seconda prova full-length (in due anni!) su Side One Dummy e nonostante negli ultimi mesi, a dire della critica, abbia infiammato i palchi di mezza America, Warped Tour compreso.
Allora reciti il "mea culpa", ti informi un po', inserisci Floral Green nel lettore e schiacci play; quello che arriva all'orecchio è un'immediata scarica di adrenalina frutto di una soluzione più che perfetta di punk melodico ed emo vecchia scuola; i primi quattro pezzi volano rapidi, con la costruzione solida di chi il genere lo mastica da anni (arrivano tardi alle stampe, ma i ragazzi calcano i palchi e sfornano ep già dal 2003) e con un'impronta vocale ruvida, che ricorda in parte gli Strike Anywhere e in parte quel Russ Rankin voce e marchio indelebile di Good Riddence e Only Crime.
Alla traccia cinque però succede qualcosa, le atmosfere si attenuano, i ritmi si dimezzano, un intro di chitarra insolitamente riverberata ci introduce a Head In The Ceiling Fan, vero e proprio trionfo emozionale del disco; a cantare questa volta è Jamie Rhoden (chitarrista del gruppo), che con una voce sensibilmente più morbida, a metà tra Samiam e Lifetime, ci traghetta in quell'universo musicale che tanto puzza di fine anni novanta.
Da qui si ricomincia, in maniera impeccabile e naturale: i toni si rialzano per riaddolcirsi nuovamente quattro tracce più avanti all'arrivo di Lefty, altro mid-tempo non privo di energia, riuscitissimo, che sfocia nella conclusiva In Between, dai tratti quasi post-grunge.
Ed è proprio il brano di chiusura a farci capire che non sarà così facile uscire da un circolo in cui ci siamo ormai pericolosamente infilati e che finita questa traccia di passaggio (In Between, appunto) ritorneremo istintivamente alla numero uno, rialzando i toni, urlando a squarciagola con la consapevolezza che puntualmente le atmosfere andranno ad abbassarsi, lasciandoci respirare a cuore aperto per qualche minuto prima di rialzarsi di nuovo con ritrovata energia; e quindi via così, all'infinito.

I Title Fight ci regalano il moto perpetuo in veste punk melodico; Floral Green arriva nei nostri stereo con l'intenzione di non andarsene più, al momento di schiacciare play siatene (piacevolmente) consapevoli.

Label: Side One Dummy
Voto: ◆◆◆

Licenza Creative Commons

 
© 2011-2013 Stordisco_blog Theme Design by New WP Themes | Bloggerized by Lasantha - Premiumbloggertemplates.com | Questo blog non è una testata giornalistica Ÿ