venerdì 29 aprile 2011

El Santo Nada - Tuco (Recensione)

"Vado, l' ammazzo e torno"

Umberto Palazzo e Il Santo Niente li conosciamo un pò tutti. Siamo qui per parlare della loro reincarnazione tex-mex le cui coordinate appaiono ben chiare in quelle del confine Stati Uniti-Messico. Superata la frontiera, ci ritroviamo tra mariachi, tequila e peyote, a vagare tra farabutti d'ogni genere, fino a giungere in un deserto infuocato, tra visioni del passato e del futuro. Tuco è il "brutto" del celebre film di Sergio Leone. Atmosfere desertiche per l'eterna lotta tra nord e sud. Nove tracce strumentali guidate in primis dalle chitarre di Palazzo e Alessio D'Onofrio ma anche da un'ottima sezione ritmica che pienamente descrive l'aspetto maledetto di tutta l'opera. Con grande maestria si creano sonorità e atmosfere tridimensionali nel trasportarci davvero in quello che è una via di mezzo tra un film di Leone e Rodriguez. Tuco riesce nella grande impresa di immergere stile e caratteristiche del post rock in un'ambientazione ben definita, come una grande cornice che ne delinei le tematiche. L'intero album è un racconto senza parole, inteso a narrare la lotta del Sud, la sua discriminazione e il senso di riscatto. Un disco che accompagna senza mai graffiare, perfetto per un viaggio in macchina, specialmente se nella discesa della penisola. In apertura, nella title track, già si mette mano alle pistole nell'attesa di estrarle in un duello in grande stile. Proseguendo "Gallinas Y Lagartos" e "Sciuorbazizi" ci portano tra cavalcate e bevute al bancone dei peggior bar dei Caracas, mentre con un occhio siamo intenti a osservare le puttane che ci ballano intorno e con l'altro gli avventori del locale che potrebbero decidere in qualsiasi momento di volere la nostra testa. Il surf de "Las Nuevas Fashion Chicas" è uno dei momenti più alti e movimentati: Tarantino ne sarebbe fiero. In "Ilusion" potremmo essere già scappati dalla città e vagare in preda alla droga a piedi nudi nella sabbia incandescente che poi è il sole a sfinirci e a farci perdere la cognizione della realtà ("El Sol De Hierro") "El Perdido" segna il senso di riscatto, a partire dalla sconfitta per poi arrivare alla rivoluzione ("Viva la Rivolucion") "Esto no Es El Final" ci accompagna, nella sua sfuriata post rock, alla fine, ai margini della frontiera. Scorrono i titoli di coda ma come dice anche il titolo questa non è la fine...
Un'opera di grande impatto e meritevole di avere un pubblico più grande, se non fosse così difficile da reperire. Per averla basta richiederla sul sito della band.

"Certo che me ne vado! Ma aspettando che il signore si ricordi di me, io Tuco Benedicto Pacifico Juan Maria Ramirez, ti voglio dire una cosa. Tu ti credi meglio di me, ma dalle nostre parti se uno non vuole morire di fame o fa il prete o fa il bandito. Tu hai scelto la tua strada, io ho scelto la mia..."

Label: Autoproduzione

Voto:


As Blood Runs Black - Instinct (Recensione)

Dopo la lunga pausa dei ragazzoni californiani, usata per dare una rinfrescata al gruppo, vedi ingresso nuovo cantante Ken Maxwel, ci troviamo di fronte al secondo album della band As Blood Runs Black che con “Instinct”, preannunciano dei live a dir poco massacranti. Un secondo album da ascoltare in maniera distaccata, senza lasciarsi prendere dal ritmo se non volete prendere a scazzottate l’aria o buttarvi dalla finestra durante un breackdown. Siamo sulla linea dell’album precedente, un sound che taglia i timpani e riff con una velocità da nausea, tengono testa ad una batteria i quali passaggi rasentano il campionamento elettronico. Nonostante l’estrema tecnica non si affoga mai nell’eccesiva monotonia. Gli assoli che entrano con un sound da “true norvegian black metal” fanno da contorno a riff contorti che possono essere utilizzati come esercizi per i neo chitarristi. Dopo una bella confusione (in senso buono) ci troviamo di fronte alla traccia numero 6 “tribulation”, che sembra un calmare gli animi o prenderci una pausa come succede tra il primo e il secondo tempo di un film. Tutto sommato non troviamo però innovazioni che ci farebbero venire dubbi se siano o meno gli as blood. Il gruppo creato per darsene di santa ragione ai concerti, ha continuato su questa strada anche nel secondo album, perché negare al nuovo cantante di devastarsi ai concerti cantando pezzi più calmi?

Label: Mediaskare
Voto: ◆◆◇◇


mercoledì 27 aprile 2011

The Casanovas - Hot Star (Recensione)

Diletta "Lady" Casanova (basso e voce) Giacomo Dini (batteria) punto. Il duo toscano sceglie la semplicità come timoniere della propria nave, però a differenza degli altri pirati loro non hanno ossa e teschio, bensì un bel cervello fresco e sanguinante leccato da una statuaria fanciulla.

Undici traccie decise e arroganti, così debuttano i “Casanovas” affiancati da artisti come il “prezzemolo”: Enrico Gabrielli, e Andrea Appino, a quest'ultimo il compito di chiudere un album apparentemente scontato. Un primo ascolto e si sente che non c'è molto di nuovo (rispetto al genere) ma c'è molto da leggere tra le righe; un talento vocale quello di “Lady” da invidiare, in particolar modo dal vivo il duo trasmette una violenza coinvolgente, e riaffiorano vaghi déjà vu. Ottima e ballabile la quinta traccia “Hot Star” da cui viene il titolo dell'album, una delle poche tracce a lasciare l'ingresso alla batteria. “Rosso & Blu” una delle tre tracce in italiano, due se togliamo “Amore a Scampia” cantata e suonata dal proprietario dell'etichetta “Andrea Appino” uno che oltre a non aver bisogno di presentazioni offre un'ottima garanzia a questo vergine duo.”The Walk” ci da la conferma che il duo ha i mezzi...sporchi, ha le idee...luride, questo è sintomo di un buon garage/rock.

Un album che a primo ascolto può lasciare un po' attoniti, non brilla certo in originalità e bisogna assorbirlo prima di percepire tutte quelle particolarità, quelle buone idee che ci fanno ben sperare per il prossimo album. Per ora mi limito a dire che quello dei “Casanovas” è un garage/rock sporco e violento come l'umidità passata ci ha insegnato e tramandato; un ottimo debutto ma prima di sbilanciarmi preferisco pazientare con ansia il prossimo lavoro.


Label: Ice for everyone
Voto: ◆◆◇◇◇



lunedì 25 aprile 2011

Tetuan - Tela (Recensione)

"Tela", disco d’esordio dei Tetuan, power trio maceratese, si presenta concettualmente come una via di mezzo tra un Ep e un long play. I Tetuan suonano un post-math-rock, nevrotico a tratti teso e muscolare. Deliri noise a occhi aperti. Atmosfere ben inserite in contesti onirici ed alienanti. Sonorità adatte a fare da sfondo ad un sogno angoscioso del quale la mattina, svegli, non si ha più memoria. Chitarre abrasive, bassi distorti e suadenti, percussioni nervose, sempre incalzanti, questi i punti di forza dei Tetuan, che ammiccano ad orizzonti passati di altissima qualità e importanza musicale. Un cantato poco presente, volutamente non valorizzato, a malapena decifrabile che si affaccia in pochissimi momenti. Possiamo udire la voce in apertura ne "La Chambre", tra continue variazioni e incubi teatralmente oscuri. A proposito di incubi, la traccia seguente rende omaggio a un noto indagatore dell'incubo. "Dylan Dog", della quale è disponibile un video realizzato dal bassista Cristiano. E' una notte insonne sullo sfondo di un drumming alla Shellac e vortici sonici destrutturanti alla Ranaldo. "Omega", in poco meno di due minuti, ci regala un intermezzo nel quale si avverte una forte agitazione, una sorta di esplosione attutita, che ci sfiora soltanto, per poi scomparire in lontananza nell'introduzione di "Dio ? Solo un'Allucinazione Sonora". Con un titolo così esplicativo ci sarebbe poco da aggiungere. A discapito del suo inizio slow, questa quarta traccia crea una grande tensione nel continuo e ripetitivo arpeggio incastonato nel basso possente e tirato. "La Tregua" è sicuramente la traccia con più pathos. Figlia della maestria della prima scuola post rock di Louisville (Slint) e temprata dalla durezza noise più lisergica e martellante. "Sono un Apolide" appare come la più accademica in termini post: greve, monotona, fantasmagorica fino all'esplosione trascinante magnetica e ipnotica quanto una seduta mesmerica. Con molta probabilità, il brano strutturalmente più ordinato e classico. A lasciarci al risveglio, quando i primi raggi del sole penetrano attraverso la finestra, "Mambo Jumbo". Un finale avanguardistico che unisce ritmi tribali, chitarre penombrose e canti atavici, in un cammino ansiogeno che si è più che felici di aprire gli occhi e cominciare una nuova giornata. Un ascolto decisamente non per tutti, consigliabile e più facilmente fruibile per i veri ascoltatori del genere.
Un plauso alla piccola etichetta indipendente abruzzese dei Dischi del Minollo che non si è fatta scappare l'occasione di avere tra le sue uscite una band validissima che meriterebbe molta più attenzione.

Label: Dischi del Minollo/Brigadisco/Onlyfuckingnoise

Voto: ◆◆◆

giovedì 21 aprile 2011

Unk - Il Mondo non Finirà nel 2012 perchè Marty McFly e stato nel 2015 (Recensione)

Noise, goliardia, cambi di tempo, viaggi nel tempo, stoner, math-rock, furia cieca. Questi gli ingredienti miscelati dagli Unk. Dopo aver suonato per dieci anni negli Imodium, Simone Capodicasa, Peppe Pugliano e Sandro Strianese, tornano insieme in questo progetto a presentarci quella che da loro stessi è definita "musica noise strumentale per malati di mente". "Il Mondo non Finirà nel 2012 perchè Marty McFly è Stato nel 2015" fa il verso ad un gruppo ominimo nato su Facebook, ed è stato registrato dai tre lombardi nella loro sala prove. In questo primo Ep, gli Unk danno sfogo ad assalti sonori, reinterpretando con un estetica punk nichilista (non a caso la "P" in copertina grattata sul muro) scariche hard-rock e stoner. Il tutto reso orecchiabile da giri armonici che gradualmente ti lasciano immerge nell'ascolto di sferzate rumoriste e minimali, di giri reiterati con continui cambi di velocità, come un elastico teso e poi rilasciato. Un'impresa riuscita quella degli Unk, di proporre musica partorita in modo del tutto viscerale e istantanea, senza tanti fronzoli o pretese. Questo Ep signori è una bella bomba, gasa più della gazzosa ed è arricchito dal positivo atteggiamento della band nel non prendersi troppo sul serio (come possono testimoniare i lunghissimi titoli delle tracce, come "I T-rex sono aggressivi perche' hanno le braccia corte e non possono masturbarsi"). Non a caso abbiamo deciso di inserire "Ragazze che bestemmiano e sognano di sposarsi in chiesa" nella prima edizione della nostra compilation, dopo un solo ascolto di questo extended play. Gli Unk si presentano come una band totalmente sincera, priva di sofismi o ricercatezze pretestuose. La quale voglia semplice e diretta di suonare, intrattenere e divertire è lampante fin dal primo ascolto e ha portato alla nascita di queste 4 tracce. In più potete scaricare l'Ep da qui. Quindi vi domando: "che diavolo state aspettando ?! Che arrivi il 2012 per scaricarlo !?"

Label: Sub Rock

Voto: ◆◆◆◆

martedì 19 aprile 2011

Jarman - The Saint (Recensione)

I romani Jarman riuniscono nelle loro fila elementi precedentemente attivi nella scena hardcore/progressive della capitale. La nascita di questo progetto è intesa a svolgere una ricerca nell'ambito post-rock, coagulando la musica con suggestioni artistiche (come può testimoniare la copertina dell'Ep) e cinematografiche (Le varie citazioni a partire da Derek Jarman regista/scenografo che ha collaborato tra i tanti anche con gli Smiths e i Throbbling Gristle ) Un percorso di quattro tracce strumentali che tesse trame elaborate di cui è facile fare memoria, nonostante la ricerca di allontanamento dalla forma canzone tradizionale tipica dei progetti post. Infatti il plauso maggiore che va, a questo esordio, è quello di riuscire a intrattenere senza mai un momento di decadimento artistico, creativo, lasciando imprimere nell'ascoltatore suggestioni sonore e melodie ben calibrate: cosa molto difficile in progetti strumentali di questo tipo. In aperura con "Kubrick in September", già è possibile notare la coesione strumentale delle parti, legate da linee guida elaborate, al fine di spingere la fantasia verso zone inesplorate o semplicemente descrivere una scena (non a caso i loro live sono conditi dai visuals del chitarrista e film director Alessandro)


"The Saint Who Taught Mussels Being Wiser", nella costante ripresentazione di giri armonici, arpeggi tenuti in sospensione, cambi di tempo, si conferma come uno dei momenti più memorabili. Cosa molto interessante è il beat a volte frenetico ma generalmente sempre andante, del disco. Un drumming possente che potrebbe lasciar scivolare i Jarman verso lidi shoegaze, nelle dilatazioni pastose sovrapposte in sfondo a "Bioluminescenze of the Deep Sea Creatures", traccia d'alta atmosfera che genera fascinazione sin dal titolo. Seppur lo spettro dei maestri Slint, aleggia sull'opera, è anche vero che le sue apparizioni sono minime. "The Saint" presenta tematiche, seppur ispirate ad un filone ben preciso, originali e molto interessanti. Consiglio di gettarvi un orecchio, magari durante la visione di un bel film muto...

Label: Autoproduzione

Voto:


Miss Chain & The Broken Heels - On a bittersweet ride (Recensione)

Se una yeye girl con un libro di Kate Millett sul comodino si unisse a un Paul Collins con una vena di esistenzialismo ne verrebbero fuori i Miss Chain & The Broken Heels. Vera rivelazione italiana, quel tipo di rivelazione che parte dei bookmakers dell'alternative nostrano si accorgeranno con il solito deprecabile ritardo, la band guidata dalla deliziosa Astrid Dante raccoglie ampi consensi in giro per il mondo. “On a bittersweet ride” è il loro primo lp che solo dal logo “Screaming Apple Records”, incredibile label tedesca, dovrebbe dirla lunga sul suo valore. L'ineffabile formula della band si dispiega su un power pop ripulito da influenze punk e rinebriato di dosi massiccie del repertorio sixties del rock'n'roll, “Rollercoasters” o “Bluebird”, arricchita da un sax in sottofondo, ne sono l'esempio più tipico. Volete capire perchè il viaggio sia agrodolce? Ascoltatevi “Up all Night”, vi racconterà quelle notti che passate insonni seduti su una sieda con lo sguardo fisso nel vuoto e un'angoscia come amica, cullati da una chitarra surfeggiante. Se con “Flamingo” il gruppo confeziona la perfetta hit da ballare sulla sabbia, lasciano piacevolmente sorpresi “Old Man”, il tipo di canzone che Ronnie Spector avrebbe dovuto incidere durante la sua prigionia, e la conclusiva “Save Me”, una ballata accompagnata da un'armonica dylaniana che vi rimetterà in pace con il mondo.
Non vi resta che lasciarvi incatenare in questo viaggio e scommettere su questa band prima che sia troppo tardi.

Label: Screaming Apple Records
Voto: ◆◆◆◆◇


lunedì 18 aprile 2011

OFF! - The First Four Ep's (Recensione)

Sarà che sono diventato una sorta di reazionario, sarà per nostalgia elitaria, ma ben poche cose possono rendermi più felice di un disco così che esce sul calare degli anni 10. Gli OFF! sono composti per metà da due pesi massimi del cali-punk dei tempi che furono, ossia Mr.BlackFlag/CircleJerks sua maestà Keith Morris in rughe e dreadlocks (come ama dire di se..."i'm an alcoholic, i'm a cocaine addict and i wanna be your friend..") e Steve McDonald che ancora bambino violentava le quattro corde con i seminali Red Kross, accompagnati in questo progetto dal giovane chitarrista Dimitri Coats (Burning Brides) e dal drummer Mario Rubalcaba (Hot Snakes e Rocket From The Crypt).
Uscito anche nell' esclusivo box con i quattro viniletti dentro e pittato dall' immenso Raymond Pettibon (artista anti-tutto di Venice, fratello di Greg Ginn e firmatario degli artworks della SST, ...per i meno ricettivi...si, anche Goo dei Sonic Youth è di Pettibon), questo "The First Four Ep's" (che riecheggia anche nel titolo i first four years di Morris con i Black Flag) di certo non darà la possibilità a novelli Scaruffi di aggiungere pagine alle loro boriose enciclopedie rock, ma per chi, come me , non riesce a fare a meno dell' onestà intellettuale e della visceralità in yer face del vero e dico vero punk/Hc farà trascorrere una ventina di minuti scarsi pregni di picchi adrenalinici e scosse lancinanti lungo la colonna vertebrale non facili da recuperare. Al cinquantacinquenne Morris fà ancora cagare il 90% del pianeta ed è ancora il migliore a trasmettere in liriche tale nobile sentimento, qui ce n'è per tutti...società americana, illusi dal sogno infranto di Obama, New World Order e chi più ne ha più ne metta. La musica è solido, molesto e serrato punk circle jerks-oriented senza se e senza ma, dove non fai altro che prendere cazzotti da un minuto e poco più prima di stramazzare al suolo. Le rasoiate di chitarra figlie di Johnny Ramone e di Link Wray con le all-star tagliano i polsi come fossero burro ("Black Thoughts"), il sangue esce a frotte la violenza del tupatupa di batteria riesce a farti scordare dove ti trovi facilmente ("Upside Down" e "Fuck People"), la carta vetrata ingoiata da Morris è sempre pericolosa e pronta marchiarti la pelle ("Darkness" e "Killing Away"), e prima di perdere i sensi completamente ripensi a qualcuno veramente importante che non c'è più ("Jeffrey Lee Pierce") per poi lasciar disegnare le mattonelle del cesso dal sangue che cola, come fosse guidato dalla mano nevrastenica di Pollock ("Peace in Hermosa"). Nel vuoto di oggi il disco degli OFF! scalda il cuore e ringalluzzisce l'animo, sperando che tra un ollie ed un backside flip i teenager riescano anche a riscoprire ed amare chi l' hardcore californiano l' ha inventato nei primissimi anni ottanta. Per il resto bentornato Keith, solo tu potevi farmi stendere un plauso ad un etichetta che ho sempre disprezzato come la Vice.

Label: Vice records


Voto: ◆◆◆◆◇


OvO - Cor Cordium (Recensione)

Gli OvO sono un gruppo 'noise-rock' di culto, formato nel 2000 da Stefania Pedretti e Bruno Dorella, compagni su disco così come nella vita, già protagonisti di innumerevoli collaborazioni di caratura nazionale e non, giunti con questo 'Cor Cordium' al nono album. Mi approccio alla loro nuova opera sicuramente affascinato dall'art-work di Malleus, sempre di grande impatto e di sicura resa, ma soprattutto carico di aspettative derivatemi dalla lettura delle classiche riviste italiane, 'bibbie' della musica alternative e non.

Il primo ascolto mi disgusta, il secondo mi lascia spiazzato, il terzo mi delude profondamente.

Quello che qui viene definito noise-rock, e in alcune interviste viene catalogato dai nostri OvO come il risultato finale di ascolti che vanno dall'hardcore-punk per terminare al metal, è più semplicemente una barca che fa acqua da tutte le parti. Pomposamente definito come una summa di vari generi, non racchiudibile in una sola categoria, il lavoro degli OvO appare troppo radicale ed estremo per riuscire a colpire un punk-addict, troppo scarno tecnicamente per essere preso in considerazione dai fantatici del metal, ma sopratutto veramente inconsistente dal punto di vista rumoristico per essere annesso tra le composizioni noise che contano veramente. Le composizioni sembrano infatti semplici esercizi di stile studiati a tavolino e non invece figlie di una sana passione. Il noise è una cosa, una pessima composizione basata sulla ricerca di voler 'essere alternativi per forza' è un altra. Mi sto rendendo conto infatti che sempre più spesso la ricerca dell'alternativo e del radicale, così come quell'odio spesso eccessivo verso la musica più melodica e magari sì anche più mainstream, porta alla luce e al 'successo' (inteso come visibilità, possibilità di esibirsi, interviste ecc ecc) gruppi che secondo me non lo meriterebbero. Gli OvO sono un progetto si radicale ed estremo, ma senza nessuna base dietro. Quello che viene fuori dall'ascolto del loro ultimo lavoro è una cacofonia fine a se stessa, figlia della noia, dell'inconcludenza, della mancanza di idee e lontana ad esempio dal modus-operandi dei Sonic Youth, che invece si approcciano al rumore, al noise, al lo-fi ne più ne meno che nello stesso modo, e con lo stesso rispetto, di un ragazzo che in Conservatorio si avvicina per la prima volta ad un pianoforte a coda.

Parliamoci chiaro: 'Metal Machine Music' è una cagata fatta da Lou Reed per vendicarsi della propria etichetta (e ora non venitemi a citare l'importanza che comunque il disco ha avuto, le varie citazioni, ecc ecc perchè le sanno anche i cani), che lo aveva costretto a pubblicare 'Sally can't dance' e dei fan, che andavano ai suoi concerti per ascoltare solo i pezzi più commerciali della sua produzione. Chi cerca di vederci qualcosa di più.. e perchè vuole vederci qualcosa di più. Non facciamo lo stesso errore con questo lavoro degli OvO.


Label: SuperaturalCat Records

Voto:




domenica 17 aprile 2011

Fucksia - Photophobie (Recensione)

Sono qui per raccontarvi una storia. Di quelle malinconiche ma anche speranzose. Fucksia è l'alter ego dietro il quale si nasconde Luca Marino, già chitarrista degli El-Ghor. Ha registrato da solo in casa questo "Photophobie", regalandoci qualcosa di meraviglioso. Basta già ascoltare in apertura il dream pop di "That's Christmas" per innamorarsi di questa musica. Il video di questa è poi qualcosa di splendido, una semplicità e una poesia che colgono impreparati.
Sfido a non innamorarvi anche voi della dolcissima fiaba della paperella e del suo viaggio nel mondo, allegoria della vita quotidiana di ognuno di noi. Un contenitore musicale fantastico. Un'abilità nel mischiare suoni carezzevoli con elementi glitch che lascia pensare indubbiamente che Luca Marino non abbia nulla da invidiare ai grandi maestri esteri dell'indietronica. Melodie che richiamano il nord dei Mum, dei Lali Puna, dei Notwist, che si districano liquide e sincere anche nei momenti in cui vanno a forzare la forma canzone tradizionale negli eccessi minimalisti ("J&M Factory") Un disco fanciullesco, toccante, emozionante dalla prima all'ultima di queste sette tracce strumentali. Puro e differenziato da suoni originali, mai ricorrenti, mai meccanici, sempre caldi e avvolgenti. E sebbene il tema centrale sia l'estrema sensibilità alla luce, vien da pensare che questa possa esser solo una scusa per rannicchiarsi nel buio della propria stanza sotto le lenzuola e continuare a sognare fiduciosi e gioiosi in un futuro migliore.
Questo disco è una perla nostrana che non merita assolutamente di passare inosservata. Inoltre è scaricabile in free download da qui.

Label: Muertepop Records

Voto: ◆◆◆◆

Hauschka - Salon des Amateurs (Recensione)

Immaginate di essere un topolino bianco da laboratorio, all'interno di un labirinto pieno di luci colorate intermittenti e suoni pungenti. Il gioco naturalmente consiste nel trovare la via d'uscita avendo circa quaranta minuti a disposizione. I primi venti minuti sono molto divertenti e sono anche freschi di energia, ma poco più tardi inizia a prendermi una leggera ansia che va crescendo con il passare dei minuti fino a diventare vero e proprio panico! TaxiTaxi!!! portami via dai questo labirinto prima che i miei nervi crollino!

L'architetto in grado di creare questo labirinto della psiche si chiama Volker Bertelmann alias “Hauschka”, naturalmente per costruire una struttura così innovativa ci sono voluti degli ottimi assistenti: Joey Burns e John Convertino dei Calexico, e Samuli Kosminen batterista dei Múm. Il nome di questa trappola mentale si chiama “Salon Des Amateurs”.
Volker Bertelmann ha realizzato questo album smontando rismontando e montando il piano con parti assolutamente non convenzionali, per dirne una, le confezioni delle “Tic Tac”. Certamente non è il primo ad usare metodi del genere e sicuramente non sarà l'ultimo, ma sicuramente è il primo artista a creare un album in grado di generare attimi di euforia e ansia, misti a panico e alla voglia di correre fuori scavare una buca e sotterrare questo album manco fosse “Jumanji”! Dieci tracce per un album composto da alti e bassi, alti come “Subconscious” una melodia coinvolgente simile a “Le fabuleux destin d'Amélie Poulain” colonna sonora di Yann Tiersen, bassi come “Tanzbein”, piatto, senza il minimo colpo di scena. A stimolare i nostri neuroni in pausa pranzo c'è “TwoAM”, mentre per gli intrighi e i pedinamenti sonori notturni abbiamo “Ping”. La straordinaria tecnica dei magnifici quattro si può udire dalla prima all'ultima traccia, è sicuramente un lavoro da analizzare ma assolutamente da non sopravvalutare. Un'ottima originalità, degli ottimi esperimenti acustici realizzati da quattro colonne portanti della musica mondiale, ma come abbiamo già visto con “Bodysong” di Jonny Greenwood, l'originalità non sempre è sinonimo di buona musica e sicuramente “Salon Des Amateurs” ne è la prova. La tecnica usata da Jonny Greenwood in “Convergence” la si può trovare in quasi tutte le tracce di “Salon Des Amateurs” l'inizio base e via scorrendo l'aggiunta di particolari suoni fino a creare un miscuglio di originalità e sperimentazione, ma niente di più. Molti non la pensano come me, e forse tra qualche mese rivaluterò questo album, non voglio farmi influenzare dal passato e presente dei quattro protagonisti ed è per questo che reputo questo album un ottimo esperimento da conservare come ispirazione per un futuro album, meno astratto e più incisivo.

Label: FatCat Records

Voto:

Vi proponiamo un video di un brano del precedente album:

Bancale - Frontiera (Recensione)

“Ecco la tua frontiera: al di qua il nulla, al di là ancora”

Bordi di strade abbandonate. Binari dismessi sui quali si cammina a piedi nudi nel silenzio di un cielo plumbeo. Angoscia della solitudine, della fine. Decadenza. Abbiamo superato l'ultima oasi, dinnanzi a noi la Frontiera. Catrame sciolto. Aria infuocata ci permea i polmoni. Un limbo dove i pochi rimasti raschiano legno e metallo, ossessionati da quegli unici suoni, quasi come se potessero districare l'uomo da quel taciturno incedere nella desolazione. Discariche, mosche su carne consumata, respiri interrotti e nient'altro...

I Bancale non sono un ascolto facile. Mettono radici nella tua mente, pesanti e pragmatici nello srotolare fiumi di parole a farti balenare in mente paesaggi desolati di mondi lontani e vicini allo stesso tempo. Sempre a metà tra due estremi. Nessun paradiso, nessun inferno, tutt'al più un purgatorio, una dimensione di mezzo nella quale si sprofonda come fossili nel terreno. Vengono da Bergamo ed esordiscono con questo loro primo album dopo un Ep, uscito due anni fa. “Frontiera” è un concept inteso a descrivere incubi di mezzo, di paure tangibili come quelle di un abbandono metropolitano esistenziale. Su quest'album la firma, in studio di registrazione, in “Randagio” e “Suonatore del Cielo”, di Xabier Iriondo che sa bene quel che fa. Musica che pesca dal blues, dal noise, dal post rock. Percussioni (Fabrizio Colombi) decorate con lamiere, suonate come campane appese ad un campanile in disuso. Una chitarra spettrale, graffiante, stanca, (Alessandro Adelio Rossi) emerge dal silenzio ad introdurre un parlato smarrito (Luca Vittorio Barachetti) tutt'altro che orecchiabile. Il linguaggio, estrapolato dalle sue linee ordinarie in visione di un urgenza creativa espressionistica, è piegato da Barachetti nell' affastellare immagini una sopra l'altra in pile disordinate. Musica stilizzata come l'ominide che si staglia in copertina sullo sfondo bianco. Momenti rumorosi motivati da rabbia ed esasperazione per la caducità e l'infinita debolezza della carne.

“E' il mio corpo una chiesa che guardo da fuori e guardandola immagino travi e muri portanti cadere sul peso svuotante di tarme e ragni...” (Corpo, giorno che scorna)

Attraverso discorsi didascalici, quasi allegorici, l'ermetismo sonoro e lirico, riesce sempre a districarsi dall'essere fine a sé stesso. Dal blues criptico di “Calolzio” (“E' la prima pietra, si la prima pietra. E su questa pietra edificherai la tua resa.”) si passa alla title track, a questa “Frontiera” che descrive appieno un paesaggio morente, nello straziante incedere di un arpeggio ossessivo, poi una scarica convulsa che quando finisce sei già ipnotizzato e trascinato in un percorso sonnambolico ben preciso. In “Cavalli” il dialogo si sdoppia nella lettura sovrapposta dello stesso Pier Paolo Pasolini, della poesia “La Terra e il Lavoro” amalgamandosi alle escoriazioni rumoriste della chitarra. Tra Bachi da Pietra e la concezione artistico-musicale dei Massimo Volume, si inseriscono i Bancale, legnosi a sostenere l'angoscia di un carico disintegrante privo di speranza. Alla fine del viaggio nessuna terra promessa. La Frontiera non è altro che realizzazione della perdizione, una suonata sotto un cielo comune a tutte le creature “quanto è bella la donna che ti lasciò, suonatore Cielo ? Quanto fu pazza se ti lasciò suonare ? (Suonatore Cielo)

...e in fondo all'orizzonte infine la destinazione ultima. Un vuoto grande come il cielo. La Frontiera.

"Se vorrai, sarò accanto alla strada"

Label: Ribéss / Fumaio / Palustre

Voto:◆◆◆◆


venerdì 15 aprile 2011

Ka Mate Ka Ora - Entertainment in Slow Motion (Recensione)

"E' la morte ! E' la morte ! E' la vita ! E' la vita !"

Scarto l'involucro di plastica, estraggo la copertina, la apro e vedo degli spazi bianchi stagliarsi sopra il blu con sopra scritto "write your sensations here". Il secondo disco dei toscani Ka Mate Ka Ora gioca molto sulle sensazioni. Dentro vi è la miglior scuola shoegaze, slow-core, post rock. Strascichi melanconici e ripetitivi alla Codeine, alienazione, riverberi e vortici chitarristici. Flussi sonori intensi, melodie spesse sostenute da linee guida fortemente definite, inserite in contesti musicali ben precisi. Se inizialmente le atmosfere rimandano all'Islanda sognante e sperimentale dei Sigur Ros (Pig'n Sheep in a Toothless Dream, Morning Regret), lentamente ci si fa largo attraverso stilemi fortemente consolidati negli anni'90, senza però dover necessariamente esserne solo debitori. Perchè al di là delle influenze musicali, quest'"intrattenimento in slow motion" è un album che respira da solo, dettato da una vera passione per i generi e le tematiche, arricchito da un talento inconfutabile. Un lavoro intimista che tesse un intricato tessuto sonoro attorno all'ascoltatore, assecondando stati d'animo ("Just an Explanation"). Un' opera espressiva, toccante che sul finale si tinge d'oscurità, ricordando i God Machine più oblianti e marziali (As a Night Whitout Moon) Collaborazioni come quelle del concittadino Alberto Mariotti (in arte Samuel Katarro) e Marco Campitelli dei Marigold, arricchiscono un album perfettamente riuscito che senza ombra di dubbio non deluderà gli estimatori del filone musicale, potendo allo stesso tempo venire apprezzato anche da coloro in cerca di sensazioni vere. Sensazioni da poter appuntare in spazi bianchi che i Ka Mate Ka Ora ci consentono di riempire...

Label: DeAmbula Records

Voto: ◆◆◆◆

mercoledì 13 aprile 2011

About Wayne - Rushism (Recensione)

Eccomi a recensire questa band a me sconosciuta. Leggo qualche informazione su di loro: romani, in 5, con un EP alle spalle, finalisti tra gli emergenti dell'Heineken Jammin Festival… Un po' di gavetta l'hanno fatta.

L'album è composto da 10 brani per 41minuti.

Parte il primo pezzo, dai suoni già sentiti, certo, però su album che in America hanno raggiunto i primi posti in classifica quindi già apprezzo il buon lavoro fatto dai romani. Il brano a tratti mi ricorda i Fall Out Boy, un po' nella voce, un po' nella ritmica, una canzone pop-rock molto orecchiabile e che fa il suo lavoro. Il secondo pezzo passa a toni un po' più scuri, sempre con sonorità pop-rock che si rifanno ai gruppi californiani fine anni '90 e primi 2000. Scorrono poi "Caries" e "Pretty", due pezzi di forte impatto, chitarre piene, una batteria impeccabile sostenuta da un grosso basso e infine una bella voce a mescolare il tutto. A seguire un altro brano dai toni (più) cupi, "V", dove la voce fa da padrona nell'apertura per poi esplodere in un potente ritornello. A seguire vi è poi una cover dei Beatles, "Eleanor Rigby" e qui ci sarebbe un lungo discorso da fare per la scelta un po' azzardata ma che io personalmente approvo vedendola come tributo a una della band più grandi di sempre, un po' come se questi About Wayne ci invitassero a non perdere mai di vista i pilastri della musica pop. Ci portano poi verso la conclusione dell'album "Glance of Others", altra canzone dai toni più tranquilli ma non per questo meno convincenti, e "Bugs" brano a tratti cupo e nervoso. Si passa poi alla penultima canzone, "High", la mia preferita, dove la voce è sorretta da un arpeggio di chitarra e un giro ossessivo di basso che poi sfocia in un ritornello potente e convinto. Si conclude poi con "Interpretation of a Nightmare" dal quale titolo si potranno dedurre le atmosfere richiamate dalla band romana. l'ultimo minuto di disco presenta una ghost track dai toni simpatici ma non per forza necessaria, probabilmente uno sfogo della band che starà all'ascoltatore attento scoprire.

Che dire dunque? Questo "Rushism" è di certo un buon prodotto, suonato molto bene, che richiamerà certo l'attenzione di molti adolescenti ma non solo. Un ascolto non troppo impegnativo, a tratti divertente, che fa muovere e paragonabile a molti lavori provenienti dalla West Coast!

Bravi AboutWayne!


Label: NerdSound Records

Voto:



lunedì 11 aprile 2011

Foo Fighters - Wasting Light (Recensione)

Ammetto di essermi preso il mio tempo per iniziare a scrivere questa recensione, cercando di metabolizzare al meglio quest' album, di ascoltarlo a lungo, sicuramente 'viziato' e 'portato' a comportarmi in questo modo dal grande rispetto che un personaggio come Dave Grohl, a prescindere dal fatto di essere fan o meno del suo lavoro, merita. Una figura sicuramente degna di nota sia per la sua storia (il battere pelli per i Nirvana) che per il suo ruolo di figura chiave della scena rock-mainstream attuale, in cui riesce sempre con sapienza a distinguersi e a catturare il centro dell'attenzione (con i suoi Foo così come con le stupende collaborazioni che vanno dai QOTSA ai Prodigy) senza mai perdere la dignità. Bene questo 'Wasting Light' era sicuramente uno degli album più attesi dell'anno, sostenuto da una grande campagna mediatica incentrata sopratutto sulle presenza di Butch Vig al 'mixer', di Novoselic al basso (anche se in un semplice pezzo 'I have should have know'), ma soprattutto sulla scelta di registrare tutto in analogico, senza l'utilizzo di computer ecc nel garage del buon Dave. Graditissimo anche se meno osannato è il ritorno del grande Pat Smear, ma qui mi lascio deviare dal mio amore per i Germs più che da un oggettivo salto di qualità. Beh i Foo Fighters come mi aspettavo si sono confermati sui loro livelli, dando alle stampe un lavoro veramente ben fatto, molto più crudo ed essenziale e soprattutto più 'pesante' degli ultimi, lasciando veramente poco spazio a momenti 'più leggeri', alle ballads così come a pezzi più easy-listening, che invece avevano contraddistinto i loro ultimi lavori. Ecco uno dei problemi potrebbe essere proprio questo. 'Wasting Light' rischia di essere un ascolto 'pesante' e troppo 'omogeneo', perfetto, e di sicura grande resa e impatto dal vivo, ma alla lunga un po' stancante e ripetitivo se ascoltato in cameretta. Sicuramente tutte le tracce sono di buonissima fattura, e la mano di chi ha forgiato il Nevermind-sound si sente, ma rispetto ad un tempo mancano i pezzi di 'un altro livello'. Mancano le chicche di pop-rock, se così le vogliamo definire, mancano i pezzi da stadio, i sing-along, mancano i capolavori assoluti, come una Everlong ad esempio. Questa voglia di dare alle stampe una lavoro duro e crudo ha fatto perdere, secondo il sottoscritto, la possibilità a Grohl di concentrarsi su ciò che gli riesce meglio: pezzi rock-mainstream, commerciali, ma allo stesso tempo di impatto e soprattuto, bellissimi. In sintesi se quello che cercate sono spruzzate di Salvador Dalì miste ad atmosfera e sentimento, con rimandi all'arte concettuale, non sprecate il vostro tempo neanche a dare un ascoltata allo streaming gratuito, ma questo sicuramente lo sapevate già, se invece quello che volete è un onesto album di rock diretto e spensierato, Wasting Light vi accompagnerà per 47 minuti senza alcun problema.. ma non chiedetegli nulla di più.

P.s Togliere mezzo voto se non si è fan dei Foo Fighters o delle produzioni 'Grohliane'


Label: RCA Records

Voto:



Cornershop - Cornershop and the Double 'O' Groove Of (Recensione)

I Cornershop sono da vent'anni l'espressione più positiva di quel crugiolo culturale che ha trionfato in Inghilterra. A Tjinder Singh, leader della band originaria di Leicester, scorre nelle vene l'India e non ha mai mancato occasione di ricordarlo nei suoi album, elargendo nel loro piacevole brit pop notevoli quantità di influenze musicali indiane, arrivando a mettere un sitar nelle mani di Noel Gallagher. Per il loro sesto album, freschi di vittoria agli Uk Asian Music Awards, decidono di fare un, a lungo desiderato, passo oltre. Prendono con loro la cantante bhangra Bubbley Kaur e danno alle stampe “Cornershop & The double Groove of”, il tipo di album che aspetti come un soffio di vento in una torrida giornata estiva. La band continua a costruire il suo ponte verso l'oriente offrendoci l'occasione di non voltarci indietro verso le gelide terre di albione. Ritmi banghra si mischiano a sonorità funky e accenni elettronici, regalando un album fresco e rigenerante. “United Provinces of India”, primo singolo estratto, dà solo una parvenza delle potenzialità nascoste nel disco. Il brano strizza l'occhio all'hip hop e coadiuvato dall'ipnotica voce di Bubbley sposta l'asse verso reminescenze panjabi di facile presa. Ma è in episodi come “The 911 Curry”, con la sua tabla e i suoi fraseggi swingeggianti, o “Natch”, dove è un groove elettronico a farla da padrone, che il disco scopre i suoi punti di forza. I Cornershop sono riusciti a creare un giusto punto d'incontro tra le due culture, allontanandosi da quanto fatto nella loro lunga carriera. Lo stesso uso del sitar è sciolto a piccole dosi nei dieci brani, tornando in auge insieme ad un irresistibile linea di basso nella lenta e psicadelica “Double Digit”. Il passo voluto da Tjinder si rivela maturo e, dopo “Handcream for a generation” e “Judy sucks a Lemon For Breakfast”, conclude dignitosamente una tripletta di album di spessore per questi anni '10.

Label: Ample Play
Voto: ◆◆◆◆

domenica 10 aprile 2011

Cesare Basile - Sette Pietre per Tenere il Diavolo a Bada (Recensione)

"..e ho chiesto al corvo sul tuo seno, gli ho chiesto ancora una volta dimmi chi sono e non dirmi quel che ero..."

Ultimamente ho visto sbucare puntualmente il nome di Cesare Basile nella produzione artistica di alcune delle migliori band che mi sono trovato ad ascoltare.
Fino all'ultimo sono stato indeciso se far uscire questa recensione. Dopo svariati ascolti di questo settimo lavoro dell'artista "istituzione" catanese, ciò che puntualmente mi balenava in mente era sempre il solito pensiero: "chi sono io per poter parlare di Cesare Basile ?!"
La reverenza per quest'artista, e quest'album in particolare, mi stava portando all'auto-impormi un sorta di "silenzio stampa". Ma alla fine è stato più forte di me. Non ce l'ho fatta a resistere.
Cesare Basile catanese doc, trasferitosi da qualche anno a Milano. Una carriera esemplare. Figlio del cantautorato più raffinato ma con sempre un occhio di riguardo al blues e al rock. Te lo immagini sempre incorniciato in un angolo buio di una stanza a festa conclusa, con lo sguardo di chi ha vissuto già tutto e vive in una sorta di limbo nel quale il mondo è finito e lui è passato oltre. "Sette Pietre per tenere il Diavolo a Bada" è una messa oscura. Musica che esorcizza il male in previsione di una guarigione spirituale a risollevare le sorti del creato, dell'uomo. Un lavoro intriso di poesia, saggezza, cultura: una maturità creativa ineccepibile. L'iniziale trittico composto da "L'Ordine del Sorvegliante", "Il Sogno della Vipera" e "L'impiccata", già permea la stanza di umori e odori. Fosse anche mezzogiorno in punto, la luce inizierebbe ad affievolirsi, e ci si troverebbe trasportati in strade abbandonate sulle quali il sole non batte da secoli. "Strofe della guaritrice" riconferma lo stile desertico del blues di Basile. Una liturgia della carne in pasto ai vermi dove la fine dell'esistenza è già contemplata nell'inizio della stessa. Il cammino dell'uomo inizia in previsione della morte. "Il signore è così che lo vuole il mondo". Nelle successive tracce Basile si conferma definitivamente come l'anti De Andrè, il suo alter ego oscuro, non più solo nella scrittura alla Faber, ma anche nelle sensazioni uditive che prepotentemente si fanno strada. "E Alavò", per metà in siciliano, è una sorta di Bocca di Rosa ferale e desolata..."Che la roba concima la roba mentre i morti si mangiano i morti..."
L'orchestrale "Elon lan ler" crea attorno a sè un pathos indescrivibile, smisurato, brividi che percuotono corpo e anima. Una sberla di saggezza, poesia e armonia che narra una sorta di filastrocca nera, metafora tipica dei nostri giorni di certo amore che si pensa tale quando in realtà è solo assuefazione.

"La fossa bestemmi le mie ossa d'idiota perchè una donna mi ha bruciato il senno. Lei non mi amava non l'ho avuta mai. Elon lan ler elon lan la.

In "Sette Spade" l'iconografia rimandata potrebbe essere quella di una madonna dei sette dolori, la cristianità tanto cara a Basile, assume qui una forma laica e terrena, nel martirio, nel sacrificio dell'uomo.

"Le nove il petto le han strappato e gli occhi. E non c’è stato santo né comunione grazia che compassione, chiede al fango il fango ha sette lacrime di pianto..."

Verso la fine degna di nota è la ripresentazione di "La Sicilia havi un patruni" di Ignazio Buttitta e Rosa Balistieri, due dei maggiori cantastorie della tradizione sicula del Novecento, a far capire l'attaccamento e il profondo legame di Basile con le sue terre. Un legame che culmina sul finale con la malinconica ballata di "Questa Notte l'amore a Catania"
Alessandro Fiori, Enrico Gabrielli, Roberto Dell'Era, Rodrigo D'Erasmo, Roberto Angelini e molti ancora, sono gli amici ospiti di questo disco, compagnie d'eccezione per un album d'eccellenza.
"Sette Pietre per Tenere il diavolo a Bada" è qualcosa di assoluto, meraviglioso. Una rinascita dall'oblio, un viaggio attraverso una foresta oscura. Alla fine di queste dieci tracce possiamo star sicuri che il maligno sia stato messo a bada per un bel po'. Ma non cantate vittoria troppo presto,perchè "il diavolo ha il potere di comparire agli uomini in forme seducenti e ingannatorie"...

Label: Urtovox

Voto:◆◆◆◆◆

giovedì 7 aprile 2011

Juda - Malelieve (Recensione)

Secondo disco per il trio milanese Juda. Malelieve è la giusta colonna sonora per descrivere le cinque fasi del dolore. Negazione, rabbia, contrattazione, depressione e infine accettazione. Una melodia della sofferenza contornata da liriche trascinanti, mai banali. Un album dai toni apocalittici, sentito e schietto come pochi, pesante come un macigno. Parole strazianti vengono sussurrate alle nostre coscienze. Un post rock alla Mogwai, che incontra il cantautorato italiano più struggente con brani antiradiofonici per durata, come è giusto che sia quando si sceglie di ispirarsi ad un genere che tende a superare imposizioni e tratti tipici della forma canzone rock classica. Giri di basso molto vicini ai Tool ma anche nella reiterazione ipnotica e trascendentale degli Om. L'introduzione di "Lontano dagli Occhi" rimanda a sensazioni ferali e oscure di brani come "Blow" dei Ghinzu. Con "Il Tuo Male" siamo nel pieno della fase della Negazione.

"Perderti...non hai motivo di perderti! Non hai ragione a cercare di perderti e trovi le scuse di illuderti di illudere tutto...di illuderti e perderti...Ma almeno chiediti se non è un'abitudine o se perdersi è solo un'altra scusa per non essere, per non esistere. O per fermarsi a piangere su quel tuo male lieve che è bellissimo e mi scava l'anima."

"Trema" che sfiora i contorni dello shoegaze nel sottofondo di suoni dilatati e pastosi, è un brano che dà sfoggio a melodie immense che lasciano trapelare un piccolo bagliore di speranza...

"Vorrei vivere lieto...e ridere di ogni mia malinconia. Di ogni realtà...Vorrei tra mille sorrisi averne uno mio e sentirmi ascoltatore di un povero cuore...Io sono io...io e nessun altro ad un passo da me ad urlare che io...io sono io...io e nessun altro !"



Con questa, dalla Rabbia si passa alla Contrattazione. "3c" vede la partecipazione alla voce di Laura Spada degli Psychovox e si appresta ad introdurre la traccia d'eccellenza di questo album. "Invasa da Umori a Distanza" (che ospita Xabier Iriondo al Taisho Koto) con i suoi dieci minuti, è l'emblema sonoro della band nella quale troviamo inseriti tutti gli stilemi tanto cari ai Juda e ricalcati in quest'opera. Con essa arriva la fase della Depressione, un testo viscerale e intenso.

"Assaggerò senza ordine ogni tua mania e la tua immobile soglia ingorda e livida di me, delle mie poesie, delle oscenità dette in questa camera che si piegherà su di noi ad umori lenti e instabili e maledirai le mie mani, le mie parole che troverai senza mai vederle..."

Infine l'Accettazione giunge con "Il Giorno più Lungo" dove "il tempo non dà tempo, non dà tregua, porta guerra".
A questo punto abbiamo preso coscienza del dolore, della perdita, elaborato il lutto e siamo pronti per andare avanti seppur ancora rabbiosi e tristi.

"Lascerò affondare le sue carni informi. Le lascerò a straziarmi e cederò ai lamenti e sarò vittima e immorale. Sarò sporco e sarò complice della mia distruzione...ed alzerò muri tra le mie paure e la mia razionalità...."

La gravità e tetraggine complessiva dell'opera, potrebbe far risultare, se non ben predisposti, l'ascolto difficile. La ripresentazione di poche idee sonore e la voce non valorizzata al massimo del cantante Marco, appaiono come gli unici limiti di questo lavoro. Ma va bene così. "Malelieve" è un album ben riuscito e con molto da trasmettere, permeato da uno spleen tipico del poeta disadattato. Abbandonati a noi stessi nel silenzio della fine, restiamo con la sensazione di essere usciti da un anfratto oscuro e tornati a veder le stelle...

Label: Il Verso del Cinghiale

Voto:◆◆◆◆◇

Questo disco è uscito a Febbraio 2010 ed è disponibile in Free Download sulla pagina Facebook della band assieme al lavoro precedente "Respiri e Sospiri". Come al solito vi esorto a scaricare...


Erland And The Carnival - Nightingale (Recensione)

É passato solo un anno dallo straordinario album di debutto dei Londinesi Erland And The Carnival (Erland And The Carnival). Un incontro casuale che scaturì un sorprendente psychedelic folk. Simon Tong, Erland Cooper e David Nock, questo il trio che mi sconvolse nel 2010, ed ora sono tornati con “Nightingale” secondo album e seconda prova di grande varietà sonora. Molti non reputano questo secondo lavoro all'altezza del primo, ma io credo che se avessero continuato con lo stile precedente allora qualcuno avrebbe detto che nel secondo non c'è niente di nuovo. Io prendo questo grande lavoro come un'evoluzione ed una specie di “concept album” sulle atmosfere che la band riesce a creare, tralasciando per un'instante i testi e la lirica.

L'album apre con “So Tired in the Morning” il miglior brano tra le quattordici (troppe) tracce presenti nell'album; un brano da subito coinvolgente ed ipnotico, da subito si nota la supremazia dell'organo, protagonista indiscusso dell'album. Un'ulteriore dimostrazione della mutazione che il nostro “carnevale” sembra aver intrapreso verso il lato oscuro è “Emmeline” qui se chiudiamo gli occhi possiamo distinguere un castello alla Bram Stoker, tetro, oscuro ma per qualche misteriosa ragione estremamente affascinante. Ascoltate attentamente l'inizio di “IЎЇm Not Really Here” precisamente 25 secondi dall'inizio... ora ascoltate i Julie's Haircut “Satan Eats Seitan”, cambia la velocità nient'altro, ma togliendo questo piccolo “errore” il brano è interessante per certi versi, ma fin troppo ripetitivo. L'unica traccia fuori dal contesto è “East & West” un capolavoro alla Simon and Garfunkel in cui possiamo apprezzare la delicatezza canora di Erland Cooper nei minimi dettagli. Tutti moriamo, è la decima traccia che spezza gli equilibri e ci ricorda che gli Erland And The Carnival non lasciano mai spazzi vuoti, anzi pur di non farlo ne miscelano un paio assieme e ne esce fuori la misteriosa e straordinaria “We All Die”.

Per darci una ragione del fascino incontrastato che questo album ostenta, ci basti sapere che è stato registrato nella stiva di una nave approdata sulle sponde del Tamigi. Il mio modestissimo consiglio è di rivalutare o scoprire questo album e questa straordinaria fusione di artisti, Erland And The Carnival, due album all'attivo in grado di stregarmi come pochi fin dal primo ascolto.

Il mistero di come queste sonorità “antiche” possano sembrare tanto innovative quanto incantevoli non finirà mai di stupirmi e di ipnotizzarmi.


Label: Full Time Hobby
Voto:


Rockrace - S/t (Recensione)

Scrivo di questo disco esclusivamente per monito, una cosa del genere non avrebbe mai dovuto trovare spazio nelle colonne di questa web 'zine, lo faccio per il senso di rispetto la fragilità emotiva che mi scuotono al solo pensiero di chi usa troppo facilmente una parola che ha significato, da Buddy Holly ai Black Lips, una corsa a fari spenti tra vertebre dell'ultimo cinquantennio. Volete il rock? Siete fuori strada, qui tutto c'è tutto tranne che uno straccio di attitudine. La "razza rock" consegnata da questo album ha un impronta heavy/fusion stile dvd omaggio di didattica, si nutre di un background povero e riesce mandare i potenziometri della noia sempre in picco. Dalle parti della band teramana credo si debba ricominciare da capo. Seguite il mio consiglio, serratevi in una topaia dopo esservi caricati di almeno dieci dischi, i più essenziali, chessò Eddie Cochrane, Nuggets, Face To Face dei Kinks, Who's Next, Exile on Main St, Kick Out the Jams, High Voltage e poi boh fate voi, portatevi due damigiane di rum e studiatevi bene la faccia di Johnny/Brando ne "Il Selvaggio". I Rockrace sono la classica band che può piacere solo ai cassieri dell' Auchan ma esclusivamente se uno dei componenti è il loro benzinaio di fiducia, uno di quella miriade di AOR bands che ti fanno rattristare per la totale latenza di contenuti ma al tempo stesso anche ammazzare di risate con gli amici. Otto tracce di rock radiofonico suonato con una tecnica edulcorata e nemmeno troppo sicura. Led Zeppelin, i Beatles più piombi, Black Crowes, neo-hardblues e i Guns più pacchiani sono i modelli da scimmiottare, il risultato che ne consegue è impietosamente nefasto. Questo disco sembra registrato in un tombino, ma purtroppo i quattro non hanno alcuna intenzione di emulare produzioni weird'n'roll e lo fi-punk, non si credono affatto gli Oblivians, ci credono davvero. Basso evanescente, suoni di batteria che fanno sembrare anche i live di Tony Santagata alla festa della porchetta un opera di Steve Albini e poi una chitarra piccola piccola, spesso al limite della scordatura e relegata in un angolo da un missaggio all'italiana della peggior fattura. A volte le linee di tastiera riescono a tramutare una power ballad in un brano del Baglioni anni'90 per poi lasciare spazio ad un apoteosi di fill di batteria paranormali ("Something"). "Poet's Coffee" potrebbe quasi sembrare avant-rock del mid-west: parte Hammond groove alla Artwoods, cresce Steve Vai oriented e termina con una cavalcata di batteria no-sense. La cover della Lennoniana "Don't Let Me Down" riesce persino a farmi rimpiangere Alex Baroni con la sua coda piena di sovrapposizioni corali, una geniale opera di arrangiamento in studio da far ascoltare a tutti i seguaci dello spectoriano wall of sound e di Joe Meek, per fargli capire che non ci hanno mai capito niente. Il Rock è una cosa seria e non possono bastare una t-shirt dei Motorhead e un artwork che sembra la pubblicità di un after-shave, l'inganno rischia di durare troppo poco.

Label: Ideasuoni

Voto: ◆◇◇◇◇



mercoledì 6 aprile 2011

PJ Harvey - Let England Shake (Recensione)

Ok. Concentrati. Silenzio.

Provate a immaginare T.S. Eliot (quello della Terra Desolata) e Harold Pinter (i suoi scritti sono fra i capolavori del teatro dell'assurdo), Salvador Dalì e Francisco Goya, i Doors, i Pogues e i Velvet Underground. Da questo miscuglio di idee e pensieri estrapolate l'immagine di una donna ormai 41enne, proveniente dal Dorset, che negli ultimi 20 anni ha provato e sperimentato di tutto con la musica. Ecco, ci siete quasi... aggiungete un po' di atmosfera, qualche candela, un po' di pensieri negativi su questo mondo, qualche pensiero alle guerre di oggi, l'Inghilterra. Ecco. Questo è LET ENGLAND SHAKE, ottavo album in studio per l'inglese PJ Harvey.

Ormai la conosciamo per le sue sperimentazioni. Dal primo lavoro, DRY (1992) che l'ha fatta emergere, al secondo lavoro , RID OF ME (1993), prodotto da Steve Albini, agli innumerevoli album prodotti da John Parish. Ogni suo album è qualcosa di nuovo, è un reinventarsi (ricordiamo WHITE CHALK (2007) dove Polly abbandona la chitarra e si dedica a strumenti mai suonati prima : pianoforte e zither) dalle chitarre sporche alle atmosfere cupe date dall'uso dell'elettronica (IS THIS DESIRE?, 1998).
Ed eccola finalmente arrivata al suo lavoro più maturo. Due anni e mezzo di stesura dei pezzi, cinque settimane chiusi in una chiesa del Dorset per una registrazione in presa diretta con gli ormai fidati compagni di viaggio (John Parish alle chitarre e alla produzione, Flood alla produzione e al mixer, Mick Harvey alle chitarre e basso e Jean-Marc Butty alla batteria). Dodici brani, trentanoveminutiequarantasecondi di amore, odio, riflessioni sull'Inghilterra di oggi e di ieri, sulla guerra... Chitarre leggere, batterie minimali, tastiere di sottofondo che creano molta spazialità, la solita voce inconfondibile. Polly Jean riporta sempre all'introspezione anche quando parla del mondo che ci circonda. Quella che conosciamo per i suoi concerti rock sui palchi di tutto il mondo, si fa poetessa e ci chiede di fermarci un attimo a pensare. Ma non mancano anche in questo album i pezzi più rock, dove PJ sfodera il suo nuovo acquisto, una Eastwood (la chitarra che usa anche Jack White degli White Stripes) e ci fa sentire il suono delle sue corde. Questo è un album acclamato dalla critica ancora prima della pubblicazione (NME 10/10, The Guardian 5/5, Financial Times 5/5, Q 5/5, BBC 9/10, Spin 9/10, etc...), un album che tutti dovrebbero ascoltare di questi tempi. Riporta alla sobrietà dei suoni senza ricadere nel banale e nello scontato. La bella Polly, come ha operato anche per “White Chalk”, e grazie anche all'aiuto dell'amico John Parish, mira alla semplicità sapendo però dare la giusta rilevanza ad ogni minimo particolare facendo così diventare LET ENGLAND SHAKE un album che verrà ricordato.
Da ricordare anche il progetto video collegato a questo album. Pare che Polly Jean, dopo aver visto una mostra fotografica sull'Afghanistan di Seamus Murphy , lo abbia contattato affascinata e interessata a parlare con lui della sua esperienza della guerra. Come si sa, da cosa nasce cosa, ed è quindi nata una collaborazione tra i due. Il fotografo e film-maker si è messo all'opera girando per l'intera Inghilterra filmando tutto quello che vedeva e creando poi 12 videoclip, uno per ogni canzone dell'album in questione .
Che altro dire? Le parole difficilmente descrivono la musica, quindi correte a comprarlo (è uscito il 14 febbraio). Amatelo, usatelo, vivetelo, condividetelo, suonatelo, cantatelo, ballatelo e buon ascolto!

Label: Island, Vagrant (U.S.)
Voto:





*Un doveroso ringraziamento al blog la vendetta sghignazzante di Jack per il quale la recensione è stata scritta!

Young The Giant - Young The Giant (Recensione)

Una sera ascoltavo su una radio britannica un concerto/intervista a PJ Harvey per l'uscita del suo nuovo e strabiliante LET ENGLAND SHAKE… tra una domanda e l'altra il presentatore dice "ascoltiamoci questo nuovo gruppo americano, YOUNG THE GIANT, che sono molto bravi!" e parte "Apartment" con una leggera chitarra a cui si aggiunge una voce decisa e convincente dai toni nostalgici e malinconici (come piacciono a me!).

Che fare dunque? Di corsa a cercare l'album, già uscito in US e disponibile da noi a maggio. Dopo un po' di ricerche riesco ad acquistarlo su ebay e nel frattempo che aspetto la busta contenente il cd, lo scarico.

Di corsa ad ascoltarlo.

12 brani per 50 minuti prodotto dal gruppo stesso assieme a Joe Chicarelli (quello che ha scoperto Tori Amos, ha prodotto alcune tracce dell'ultimo degli Strokes, ha lavorato con Elton John, U2, Beck, The Raconteurs…), Michael Brauer al mixer (Bob Dylan, Coldplay, Paul McCartney, Regina Spektor) e il tutto in presa diretta!

Parte la prima traccia, "Apartment", già familiare alle mie orecchie, suoni leggeri di due chitarre sapientemente incastrate, il tutto sorretto da un buon apparato ritmico ( e poi il batterista usa Ludwig!). Secondo pezzo è il primo singlo rilasciato, "My Body", suoni molto curati, una strofa trattenuta che esplode poi nel ritornello (My body tells me no! But I won't quit! I want more! ). A seguire è poi la dolce "I Got", ballata dai suoni eterei e sognanti. Traccia numero 4 è "Cough Syrup", canzone già presente su un EP (Shake My Hand, 2008) precedentemente pubblicato col nome The Jakes, e anche qui si può benissimo dire di trovarsi di fronte ad un altra canzone-hit che si presta ad essere rilasciata come singolo, dai richiami vagamente Coldplay nella parte strumentale. E poi ancora "God Made Man", "12 Fingers", "Strings", "Your Side", "Garandas" . Tutti pezzi a mio avviso sapientemente arrangiati e studiati, ognuno di questi potrebbe diventare un singolo, canzoni di amore, passione, odio e dubbi davanti alla vita. E poi ancora "St. Walker", una canzone dai toni cupi e da un apparato ritmico insolito e che richiama l'attenzione, un misto di disco anni '70 con vaghi richiami Brit anni '80 alla Smiths. Si va poi verso il finale con "Islands" in cui testo, ambientazioni e sentimenti si mischiano: passione, acqua e amore diventano un tutt'uno senza più distinzioni (provare per credere!). Ed eccoci giunti all'ultima traccia, "Guns Out", una delle migliori, batteria ciclica, strumenti che piano piano entrano nelle nostre orecchie, parte la voce: "You'll drive in my car, Just tell me we are going somewhere Where the stars meet the sky And all these pepople with small dreams are looking up at the big screen.. It's so wonderful!".

Giunti qua ci vuole una piccola parentesi sui testi che, secondo il cantante Gadhia, hanno un tema conduttore, quello del "sentimento di isolamento e della surreale felicità verso un'amante". Sempre Gadhia dice che la maggior parte dell'album, come si può notare già dal primo ascolto, trae ispirazione "dal mare e dalla spiaggia, un disco estivo con un suono alla Orange County".

Che dire? Questo primo lavoro di questa giovane band americana è un insieme di grandi pezzi lavorati alla perfezione il tutto condito da una voce calda e sognante, di sicuro uno dei migliori prodotti di quest'anno, quindi dategli almeno un ascolto!

Per chi fosse interessato, dal 2 maggio sarà disponibile in Europa in formato CD, Vinile e Digital Download da Itunes con 3 tracce in più.

Se volete dare subito un ascolto l'album è in streaming sulla loro pagina facebook.

Altra interessante proposta di questo gruppo è l'Open Session che si può trovare su youtube, una performance live all'aperto, sulla spiaggia, in montagna!


Label: Roadrunner

Voto:◆◆◆◆◆





Licenza Creative Commons

 
© 2011-2013 Stordisco_blog Theme Design by New WP Themes | Bloggerized by Lasantha - Premiumbloggertemplates.com | Questo blog non è una testata giornalistica Ÿ