mercoledì 30 novembre 2011

Haujobb - New world march (Recensione)

Haujobb - New world marchI tempi cambiano, i grandi nomi restano. La creatura Haujobb, progetto dell'eclettico e poliedrico musicista nordeuropeo Daniel Myer, mente di molti altri progetti, il più importante Architect di elettronica sperimentale e IDM. Ciò che è più importante è l'attenzione che il lavoro ha destato nei fan di vecchia data, legati ai primi lavori come Homes and gardens, Freeze frame reality e Solutions for a small planet, considerando che Haujobb, termine preso in prestito a Blade Runner di Ridley Scott che sta ad indicare la figura del replicante, è stato sospeso per anni e che l'ultima uscita ufficiale, quel disco di remix di Vertical Theory era datato 2005. All'ascolto di questo disco la nostra attesa viene ripagata abbastanza abbondantemente, seppure non si possa definirlo all'unanimità un capolavoro alla stregua dei suoi primi dischi. Il sound di Myer si presenta come un'electro-industrial molto ricercato e complesso dal punto di vista compositivo. A differenza della gran parte degli artisti del genere degli anni '90 (ma in modo ancora maggiore di quelli del post-2000), il nostro non è un semplice cantore ma un grande sperimentatore elettronico che in questo lavoro non urla, non distorce la propria voce, ma canta normalmente, e questa è una caratteristica esterna al genere, nel quale la voce appare sempre molto distorta. In particolar modo questo lavoro si pone tra il synth pop più oscuro, l'elettronica sperimentale e l'electro-industrial di fondo, creando qualcosa di molto eterogeneo e interessante. Non si tratta di un lavoro facile nè banale e siamo sicuri che, così come il vino, col passare degli anni verrà accresciuto di valore, sebbene il suo pubblico rimanga sempre quello degli aficionados. Se la proposta è meno estrema e più ricercata, tuttavia la scena, specialmente quando si sperimenta in questo modo, si restringe ulteriormente, ma questo a Myer non importa. In questo disco non c'è nulla di lontanamente commerciale, anche se le strutture vocali sono semplici e facilmente memorizzabili. La musica, la ricerca nell'elettronica, fa tutto il resto. E' difficile parlare di alcuni brani in particolare perchè sarebbe molto difficile analizzarli. Ciò che emerge sin dall'opener Closer è un senso di caos oscuro reso in forma canzone, è la colonna sonora per la discesa nel nostro abisso personale, nella nostra più profonda interiorità, nell'introspezione. Non è un disco per tutti i momenti. Haujobb è una creatura, è un androide, è freddo e post-industriale, rappresenta la notte e l'ultima spiagga della distopia postmoderna realizzata in musica dai Throbbing Gristle e dalla prima ondata della "Industrial music for Industrial people", oggi si ripropone in maniera molto diversa e per certi versi anacronistica ma rappresenta ancora parzialmente la nostra condizione, la paura del futuro che diventa accettazione, l'iperrealtà che diventa lucida osservazione di un presente soggetto ad un continuo e rapidissimo mutamento. Il messaggio è sempre quello, la riflessione sulla condizione dell'uomo che cambia in una società che è sempre più de-spazializzata e technology-oriented, ma rispetto agli esordi è più rassegnata, Myer non urla più perchè è diventato un narratore più che un ribelle. Lo spirito del '77 che premeva sulle prime ondate ha lasciato il posto alla narrazione, una narrazione più sconvolgente, ma che rimane pur sempre tale. In definitiva un must have.

Voto:◆◆◆
Label: Metropolis Records


martedì 29 novembre 2011

The Wave Pictures - Beer In The Breakers (Recensione)

The Wave Pictures - Beer In The BreakersAspra, chiara (o scura, de gustibus … s’intende), dolce birra. In the breakers. Un titolo che condensa (già, mi pare il termine adatto) quello che s’annida in quest’ultima fatica dei The Wave Pictures, ossia corde grattate, blues, accenni di fisarmonica e strofe che si sciolgono come orologi di Dalì sulla musica. Il romantico nel suo aspetto più amaro, più vissuto – esacerbato, e lasciato lì, in assolato pomeriggio di nullafacenza e sofismi, sull’asse di una locanda, nel proprio boccale.

È un disco interpretato, ha il tono degli anni di battute e scene di un esperto teatrante. Epping Forest è incantata quanto un Pierrot in un monologo solitario. David Tattersal si improvvisa mattatore appassionato e gioca con le sue corde con un mood un po’ liso ma lucido. Ci sono ballate lente su assolo di basso e piatti appena sfiorati, accenni blues un po’ dismessi ma con ancora tanta voglia di amare, come in Beer In The Brakers. Atmosfera da cantina vuota e scenari da unplugged. Mettiamo da parte l’indiepophardcorepostpunk che i mattatori dei noantri vedi: i Cani) hanno chiuso ed isolato maliziosi in un verso, ritroviamo il bello dell’abbandonarsi ad un verso un po’ più sofferto.

I The Wave Pictures oscillano tra un Pete Doerthy malinconico e manerioso (Now Your Smile Comes Over On Your Face), stoccate da Knopfler e soci (echi lontani in China Whale Brand) e malinconie da Morrisey (e ultimamente pare il cantante più gettonato, ahinoi). Aggiungiamo anche un po’ di Paolo Nutini, Pale Thin Lips fa un po’ vintage. Sprizzano gioia e coralità in Blue Harbour, fanno il verso ai Kooks ne Rain Down. Un album diverso, forse. O no. Per i The Wave Pictures non si è cambiato registro, si è solo scelta una copertina più dura e più scura – se non nera, un bel verdone.

Un bel mix di ascendenze ed ascendenti, insomma: niente di nuovo sotto il sole, si direbbe, ma certamente qualcosa che non delude, anzi, piace e si ascolta con estrema facilità – portando alla mente ricordi dei bei vecchi tempi, della musica dei nostri genitori. E se questo può sembrare un giudizio esagerato, beh, è ben comprensibile; ma pensate, davvero, cosa potrebbe ricordarvi un buon boccale di birra?

Voto: ◆◆◆
Label: Moshi Moshi



lunedì 28 novembre 2011

His Electro Blue Voice - Dead Sons Ep (Recensione)

His Electro Blue Voice - Dead Sons EpL'italianissimo trio His Electro Blue Voice sembra appartenere a tutt'altra epoca e connotazione geografica. Prolifici oltremodo, preferiscono l'odore del vinile alla plastica del supporto ottico e all'inconsistenza dell' emmepitre, e annoverano tra le loro uscite ben 4 sette pollici (tra i quali uno split con i Nuit Noire), una musicassetta e un album in 12 ", avvalendosi della collaborazione di etichette quali Avant!, S-S Records, Sacred Bones, Holidays Records, Bat Shit Records. La loro formula nasce da una incompromissoria furia post punk oriented, mista ad un astrattismo sonoro a disgregare la forma canzone, svelando all'ascoltatore una carnalità fatta musica genuina e a volte disturbante. Gli elementi sono dei più svariati (noise, shoegaze, wave, kraut, psych ecc...) e in tal caso anche il solo citarli sembra limitare la musica degli HEBV nel darne una connotazione non del tutto valida. Per prendere atto di quest'ultimo Dead Sons Ep, come per i precedenti lavori, l'unica cosa da fare è mettere la puntina del giradischi su questo nuovo 12" e scegliere il lato dal quale iniziare l'ascolto. A o B ? Sul primo troviamo l'urgenza lo-fi, sprezzante ed esplosiva di "Dead Mice" che giunta a metà sciama in una lisergica e sonnambolica digressione su note di flauto di Pan. Se si sceglie invece il lato B, ad attenderci c'è il lungo e scosceso tunnel wave di "Zum", che abbraccia la causa post rock nella sua marziale ed ipnotica crescita a dispersione rumorista. In mezzo (seconda traccia del lato A) abbiamo l'episodio più regolare, "Eat Sons", pezzo shoegaze in salsa psichedelica urlato con un occhio ben rivolto a certe produzioni americane (in primis Pixies e Velvet Underground senza farsi mancare un certo isterismo noise alla Gioventù Sonica).

His Electro Blue Voice è ancora una volta qui a ribadire la sua unicità ed importanza. Il loro esser totalmente espliciti negli intenti, il mantenere un'attitudine eversiva rispetto ai gusti di determinate schiere di ascoltatori, li inserisce automaticamente tra quelle band che lentamente si guadagnano il rispetto dei cultori di musica anticonvenzionale fatta senza alcuna causa velleitaria.

Voto: ◆◆◆
Label: Brave Mysteries

Cyber society - The visible spectrum (Recensione)

Cyber society - The visible spectrumTra l'ascolto di un disco e dell'altro in un periodo ricco di uscite effervescenti più o meno positive, mi capita questo lavoro dei Cyber Society che mi incuriosisce già dal monicker, essendo un appassionato di queste tematiche, e pensare che sono un duo italiano formato da Francesco "Unix" Beltramini e da Tiziano Zattera, due veronesi che hanno compiuto studi approfonditi sulla musica elettronica, e questo sul disco si sente. La proposta musicale ricorda troppe cose, troppi nomi e troppe scene musicali che insieme confluiscono nell'ampio spettro della musica elettronica, e quindi, per evitare di tediare, eviterò discorsi su nomi e su dischi vari ed eventuali ai quali i due, secondo il mio parere, hanno attinto per creare qualcosa che si situa fuori dal tempo, oltre il tempo, in direzione di una Cyber-Società che è stata preannunciata da artisti diversi ma non troppo. Come detto non esiste un unico stile, esiste però un filo rosso che lega indissolubilmente tra loro le parti del discorso. Molti hanno parlato di ritorno ad una elettronica spaziale, altri li hanno catalogati nell'alveo di coloro che sono dediti a creare colonne sonore per film di fantascienza. Chi scrive non è d'accordo con nessuna delle due argomentazioni. Qui si vuole proporre una terza via. Eliminiamo i concetti di minimalismo, elettronica spaziale, O.S.T. Sci-Fi e diavolerie varie, perchè non sono i migliori paragoni per esprimere qualcosa che si pone al di fuori della tradizione di questi anni e che, per questo e per molti altri motivi, rende il disco in questione uno dei prodotti migliori di questi mesi, soprattutto considerando che ci troviamo di fronte ad una produzione italianissima. Il duo dimostra di possedere un ottimo retroterra nell'elettronica più sperimentale e non solo in quella dei maestri degli anni '70 come Klaus Schulze e i Tangerine Dream, quanto soprattutto nella musica industriale e nell'EBM. D'altronde la magistrale opener Another World inizia con dei synth che ricordano l'harsh e che ben presto si sviluppano tra un'elettronica caratterizzata dal forte breakbeat e allo stesso tempo tra qualcosa di molto simile ai primi dischi degli Haujobb, da Homes and gardens a Solutions for a small planet... quello che colpisce veramente è la scelta di utilizzare dei synth e delle atmosfere geniali, retrò e surreali, ai confini della realtà, di una Cyber-Realtà, scandita dai ritmi della utopia-distopia virtuale che qui ritroviamo in una versione old school. C12H17N204P muta le coordinate verso qualcosa di più cerebrale e tradizionale, "melodico" e lineare, sul quale si innesta un loop ipnotico che a sua volta lascia il posto al ritorno di una sezione fortemente retrò degna dei migliori act electro-industrial. Free Tibet si sposta sull'elettronica ambientale in un pezzo in bilico tra il fisico e il digitale, tra il sogno del Neuromancer e la realtà di una terra lontana e immaginifica. Il primo volo, costituito di due parti, si sposta verso lidi old space riletti in chiave trance, due pezzi ambientali anni '90 in stile The Orb che trasportano verso lo stream of consciousness, nel quale fa capolino il vecchio lavoro dei Future sound of London. Sinfonia (Preludio) introduce, con la simulazione di una camminata, la seconda parte (Elettronica Contemporanea) che ha tutto il sapore di una marcia verso un futuro ignoto, verso un Brave new world del quale è possibile intuire le dinamiche dicotomiche. Ancora una volta il tutto è piacevolmente old school, lontano anni luce dai post-minimalismi elettronici attuali, a dimostrazione che il "vecchio" sa ancora esprimere una visionarietà sconosciuta al "nuovo". Hermes affronta nuovamente un'elettronica più pura, fisica e digitale allo stesso tempo, una lunga suite che si perde su un arpeggio infinito e fluttuante. Trismegisto va sullo sperimentale puro sviluppando una digressione vicina ai Kraftwerk di 1, 2 e Ralf & Florian e allo stesso tempo immersa in un tappeto di strumenti a fiato. In chiusura, Musicogeny prende di petto i Chemical Brothers di We are the night, li rallenta, ne sperimentalizza ulteriormente la formula e trasforma il tutto in un brano lungo, etereo e sognante. Non è difficile parlare di questo lavoro come di un pezzo unico che vuole esprimere un'unica idea. Nonostante risulti complesso verrà apprezzato ad un livello diverso da qualsiasi tipo di pubblico e verrà riconosciuto come un grande disco di questo 2011 che ci ha lasciato non poche sorprese. Ascoltatelo di notte in cuffia.

Voto: ◆◆◆
Label: Tannen records


sabato 26 novembre 2011

Ólafur Arnalds - Living Room Songs (Recensione)

Ólafur Arnalds - Living Room SongsAvete mai vissuto sette giorni in ventidue minuti?

Solo grazie ad un genio come Ólafur Arnalds potevamo vivere un'esperienza simile. Il principe d'Islanda ha deciso di creare sette penetranti sinfonie nel caldo soggiorno del suo appartamentino a Reykjavík. Un brano al giorno per una settimana, tutto registrato in presa diretta e lanciato subito dopo online in free download MP3, ed i video in streaming. Davvero una bella idea, ma lasciate che ve lo dica lui stesso.
Parlerò il meno possibile, voglio precisare, più che una recensione questo è un omaggio ad un'artista che amo. Buona lettura.

Day 1


Il padrone di casa ci fa accomodare, ci accoglie in silenzio, delicato come la carezza di un bambino, “Fyrsta”, culla il suo piano con le dita ed il suo quartetto con gli occhi. Il bello, lo stupore della semplicità, della notte.

Day 2


ci mettiamo comodi, nel frattempo sbuca la luce del giorno insieme ad un altro paio di componenti, e si sente. Un'occhiata in macchina ed ecco l'armonia in chiave Ólafur. Ci sentiamo a casa.

Day 3


si alza il vento. Il direttore d'orchestra del futuro comodo sul suo sofà, noi siamo comodi ovunque con questo quartetto che risuona nella mente, un senso di benessere, aria fresca, rilassiamoci, ci scappa anche un sorriso.

Day 4


tornano a respirare le piccole candele. Una dichiarazione d'amore, una ninna nanna, le dita sempre più eleganti nel danzare per una donna, lei s'incanta verso lui, lo sguardo di lui s'incanta verso il piano senza mai distoglierlo. Un dolce romanticismo casalingo, un letto in disordine, una leggera coperta sulle gambe stanche di lei, il solito orsetto polare. La vista si appanna, lasciamoci cadere anche noi, buonanotte.

Day 5


che splendida malinconia. Gli arpeggi ci massaggiano la schiena. Il contrasto di luce bianca, quasi da manicomio, soffia sulle note di un paio di violini, imprevedibili come onde celebrali.

Day 6


ballano un lento, i due amanti padroni della scena, condizionando l'inquadratura. Puff... ecco materializzarsi dodici violini e due violoncelli. La stanza muta la sua forma, sembra ondeggiare per un'instante, ma tutto si ferma prima d'iniziare a sognare.

Day 7


l'atto finale. L'atmosfera paranoica e rilassante allo stesso tempo. Sguardi d'autore accorsi per l'evento (Orri Páll Dýrason). Si scorge dalla finestra un paesaggio magistrale, fa strano pensare che dentro una stanza ci sia così tanto da vedere pur essendo quasi priva d'ornamento. Il dolce orsetto polare è stanco, ha sonno e viene cullato. È la fine, per poco non piove una lacrima su quei sorrisi.

Credo che aggiungere qualcosa sia inutile e futile.

Voto: ◆◆◆
Label: Erased Tapes

venerdì 25 novembre 2011

M!R!M - It's Not Enough Anymore (Recensione)

M!R!M - It's Not Enough AnymoreIt's Not Enough Anymore è il secondo lavoro del duo Iacopo Bertelli (chitarra e voce), Alessandro Nieri (basso e synth). Dopo l'assaggio dell' Ep precedente, M!R!M torna a darci dentro con quella scarica di post punk adrenalinico, rumoroso e frastagliato servitoci già in precedenza. Attitudine lo-fi, ibridazioni rumorose, devastanti assortimenti elettronici e psichedelia spinta all'estremo sono gli ingredienti di una band che sembrerebbe creare una centrifuga stilistica tra stilemi dei più svariati quali dark wave e synthpunk a la Suicide. INEA è un disco al cardiopalma che appoggia la causa del post punk per elargire in appena sette tracce ossessioni sonore delle più disparate. Dagli affondi convulsi in zona wave di "Sailor's Promise", alle smitragliate ritmiche su basso pulsante di "No Way", passando per i synth morbidi di "Shapes of Sunset" , traccia dalla forte attrattiva danzereccia, l'impressione che si ha è quella di ascoltare band come Soviet Soviet fondersi con rumore e follia sperimentale. Le stilizzazioni disco punk non mancano in episodi come "Deep Throat" mentre la sporcizia avanza in "O-Dio", una discarica sonora d'inclinazione industriale. Sul finale "Bless My Sins" alterna parentesi minimaliste a scomposizioni noise delle più stranianti.

L'operato di M!R!M sembra affondare le basi in quasi tutte le avanguardie musicali degli ultimi trent'anni e dà atto di un' irruenza e talento interpretativo di filoni passati, non indifferente.
It's Enough Anymore non è un ascolto facile, decisamente sconsigliato a coloro che cercano qualcosa di semplice, di poco impegnato o che vogliono evitarsi un gran bel mal di testa (provate ad ascoltare "O-Dio" con lo stereo a palla più di una volta). Per il resto M!R!M si colloca anch'esso tra quei progetti con molte chance d'esportazione, che propongono della musica sicuramente poco inflazionata. Manna dal cielo per gli estimatori del rumore in tutte le sue forme.

Voto:◆◆◆
Label: Afmusic

giovedì 24 novembre 2011

Atlas Sound – Parallax (Recensione)

Atlas Sound – ParallaxBradford CoxAtlas Sound” si è fatto le ossa, si è allungato di spirito e sfumature, non è più lo smilzo “ingegnere del suono spaziale” che frequentava le paratie stagne di una chiusura mentale, nonché sonica, regina incontrastata di lazzi cosmici e futuribilità dai dubbi stratificati, si è redento ad un suono più fisico, accessibile, più plasmabile ad orecchi multipli, e con esso ha spento anche di un poco la luminaria artificiale che ha sempre contraddistinto le sue lavorazioni discografiche per essere più avvicinabile dal chiaroscuro e quindi all’affabilità intima e confidenziale di un – finalmente – resoconto di vita.

Parallax”, in un sofisticato parallelismo con il precedente Logos, vice di una forza propulsiva che di certo non ci si aspettava, quel suono praticamente come “suonato da solo” che allarga subito la cerchia d’ascoltatori dell’artista di Athens (Georgia) e che va a definire una buona variazione sugli intenti primari che questo progetto psich-pop si propone; dodici tracce nella versione normale, quattordici nella versione Giapponese che si dotano di quell’effetto straniante che può suscitare solamente un disco intero dei Deerhunter con Cox in prima fila e le nebbioline a gocce di una wave sempre nella soggettiva e mai in discussione.

Tutto si fa introspettivo e molto distante da memorabilie sonore come Quick Canal o Walkabout, ma si può godere anche con questa nuova temperanza che Cox mette in piedi tra decadenze colorate “My angel is broken”, in mezzo alla liquidità effettistica che goccia in “Te amo”, il tic Merseybeat di “Mona Lisa” che vede Andrew VanWyndgarden dei MGTM sedersi alla batteria, la ninnananna psichedelica e astrale “Flagstaff” per arrivare alla ballata multisensation che tratteggia impalpabilmente “Doldrums” e che – per pochi secondi al volo – fa rivivere l’amore primo di Cox, il volare via senza patente tra cirri e asteroidi che si posizionano al confine dello sconfinato.

Da passare più di una volta sullo stereo, ma comunque ancora grande, instancabile Bradford.

Voto: ◆◆◆
Label: 4AD

mercoledì 23 novembre 2011

Into It Over It - Proper (Recensione)

Into It Over It - ProperTenere il passo di Evan T. Weiss, intestatario unico del progetto Into It Over It, pare non sia cosa semplice; Da quando, poco meno di 2 anni fa, lo vidi live durante il tour promozionale di "52 Weeks" (disco/impresa che racchiude il lavoro di scrittura e registrazione di un intero anno, settimana per settimana) il ragazzo si è diviso tra il side-project Stay Ahead of The Weather, band nata dal sodalizio artistico con alcuni componenti di Native e Castevet, e una serie interminabile di split in compagnia di Empire! Empire!, gli stessi Castevet, Bob Nanna e svariati personaggi appartenenti alla scena emo/punk/melodica americana.

Stiamo parlando dunque di un musicista attivo ed esperto ed in "Proper", album licenziato lo scorso 27 settembre dalla statunitense No Sleep records, sono proprio l'esperienza e il lavoro duro a trasparire.

Il grande merito di Weiss è di saper unire con naturalezza le melodie catchy del "pop punk da classifica", l'urgenza emo di stampo '90 e le atmosfere di richiamo indie-folk solitario. Il disco, magistralmente prodotto da Ed Rose (già al lavoro con Houston Calls, Motion City Soundtrack, The Get Up Kids), si apre con il mid-tempo di "Embracing Facts" che ha il compito di introdurci in un'album ricco di alternanze tra ritmi sostenuti e ballate, a sottolineare la versatilità dell'autore il quale, durante l'intero ascolto, riesce a non perdere mai di integrità e credibilità.

"Discretion & Depressing People", "Write It Right", "An Evening With Ramsey Beyer", e la title track "Proper" lasciano chiaramente trasparire una radicata devozione di Weiss per quella corrente di fine anni '90 comprendente Braid, Promise Ring e The Get Up Kids, mentre le ballate malinconiche "No Good Before Noon", "Connecticut Steps" e la conclusiva "The Frames That Used To Greet Me" richiamano alle esperienze di cantautorato lo-fi da cameretta affrontanto con maestria negli scorsi episodi discografici.

In conclusione possiamo dire che "Proper", definito dall'autore stesso come un vero e proprio album d'esordio, sancisce la maturità del progetto Into It Over It, nome da appuntarsi e sottolineare. Vista la vivace e prolifica produttività di Weiss, credo sarà un arrivederci a molto molto presto.

Voto: ◆◆◆
Label:
No Sleep Records


Alfonso De Pietro – (IN)CantoCivile (Recensione)

Alfonso De Pietro – (IN)CantoCivileC’è un cuore che sanguina, c’è un cuore aperto come la verità, c’è il cuore della sfida ed il cuore di chi la raccoglie in questo disco/opera di Alfonso De Pietro, cantautore toscano che con (In)CantoCivile spiattella, con la sagacia e la poetica della denuncia cantautorale, il marcio, l’indelebile e il vergognoso che fa da corredo in questa società alla deriva, a questa quotidianità che vive oramai all’oscuro illineare della legalità.

Un disco bello, amaro e drammatico, firmato dall’alta espressione di chi non vuole più sottacere allo stato di cose, undici tracce che fanno male e che si ascoltano con l’attenzione intera della consapevolezza, dell’impegno di ideale e della pulsione umana, di quell’umanità che vuole e rivuole la legalità, la riscossa e la libertà; e sono racconti, dialoghi stesi sulla precisa identità cantautorale italiana, un bell’equilibrio di parole e musiche che s’intersecano anche con ospiti d’eccezione che contribuiscono a rendere ancor più profondamente tangibili il peso e la bellezza dell’intero registrato.

L’artista De Pietro tratta tutta l’argomentazione con dura chiarezza ma anche con un tocco d’ironia – che si riflette moltissimo nella musica – e invita a guardare “il suono” come legittima e possibile soluzione per il futuro, un futuro da raschiare da questo barile di vita decimata; il linguaggio immediato ed essenziale dei testi e degli arrangiamenti caratterizzano un “teatro della verità” che non conosce sipari o quinte, un raffinato vortice di sensazioni agrodolci che trasportano un’intensità irraggiungibile, e poi come non farsi agguantare dalle melodie, dalle introspezioni salate e dai viaggi sulla gobba dei ricordi che ti assalgono come temporali improvvisi , la vibrante “Per amore del mio popolo”, la parola che si fa voce contro il silenzio omertoso di tanti in cui interviene la voce narrante di Don Mario Zappolini Presidente Nazionale del Coordinamento Comunità di Accoglienza (CNCA), il ritmo in levare che riporta all’attenzione la storia del pugile casertano Clemente Russo in cui s’inseriscono gli strumenti mediterranei del Parto Delle Nuvole PesantiTatanka”, l’immigrazione e la ricerca di un lavoro scritta in una lettera dall’Argentina dal ritmo di una Milonga “Lettera dall’Argentina”, il mare come forma di pane da ricercare oltre la linea che non si conosce “Figli di nessuno” o la nuda prospettiva che violino e fischio ricamano in “Terra”, superbo e amarissimo numero sette della tracklist che versa nel testo una declamatoria di tutti i danni, le cattiverie e l’indifferenza che l’uomo – “l’essere pensante” – procura ogni dì alla nostra Grande Madre e dove anche il Vate Claudio Lolli mette voce e accuse.

Alfonso De Pietro riesce a scavare dentro la nostra naturale chiusura verso l’intorno, un apriscatole genuino che non mette sforzo nella sua azione sonica di aprirci la testa, forse – e lo è – è la nostra testa che si merita più che un apriscatole, ma siamo deleteri ugualmente poiché non siamo riciclabili e la nostra “latta” non vale un fico secco, siamo solo animali di serie b propensi a distruggere tutto e tutti.

Grazie a De Pietro a ricordarci cos’è la vergogna!

Voto: ◆◆◆
Label: Storie Di Note / Egea / Rizoma



martedì 22 novembre 2011

Petula Clarck - Instinction (Recensione)

Petula Clarck - Instinction Petula Clark cantava "Downtown". Forse in molti ce la ricordiamo anche perchè il brano uscì in Italia con il titolo "Ciao, Ciao". In ogni caso la Petula Clarck della quale sto qui a disquisire, oltre al nome non ha nulla a che spartire con la nota cantante ed attrice britannica. Qui parliamo di un duo chitarra, batteria (come tanto piace ultimamente) proveniente dal Belgio, che dopo un album d'esordio, "Aye Aye Aye", giunge alla seconda prova qui per noi grazie a Black Nutria. Un noise heavy e corposo che, partendo da un' attitudine a la Lightning Bolt, satura la scena di distorsioni e ritmiche forsennate in pieno sfogo istintivo. Una sorta di jam session esplosiva, con pezzi brevi e frammentati, come schegge impazzite che si susseguono, una dopo l'altra, legate indissolubilmente da un urgenza che superficialmente potrebbe venire accostata a puro esercizio di stile su espressione adolescenziale. Gli ingredienti appaiono molteplici in 14 tracce pressapoco tutte strumentali per una durata complessiva che non supera il quarto d'ora di musica. Dalle aperture hard stoner di "Escape From Ghouls' N' Ghost" (qualcuno se lo ricorda ancora il videogame per Sega Master System?) , alle cavalcate acide di "Sulfate" e psicotrope infezioni di "Dededin", fino ai deflussi alt-metal a la System of a Down di "Ballerine", si passa al noise incompromissorio di "Rate", allo stoner assassino di "Die Petula Die!", senza farsi mancare parentesi ben ragionate su confini post-rock ("Chacal"), giungendo, in men che non si dica, all'acida "Yeah", seguita in chiusura dalla discutibile belligeranza di "Attila".

Un disco nato di getto che ti si schianta addosso inesorabile. Come bere 14 shortini di fila tutti d'un fiato: ubriachi ed euforici o stramazzanti al suolo. Un flusso musicale continuo e possente che seppur, ormai super inflazionato (basti anche solo guardare in casa nostra a band come "Le Scimmie") di sicuro non lascia mai decadere l'attenzione sfociando in noia vera e pura, nè anela a costituirsi parte stilistica innovativa.
Adrenalinico fino in fondo, Instinction è testimonianza di una rabbia primordiale e brutale che nasce dalle viscere per farsi rumore ed attanagliarci ad essa.
L' Instinction del titolo è un gioco di parole a fondere il termine instinct (Istinto) ad extinction (estinzione), allusione al bruciarsi subito di Younghiana memoria o solo puro ed irruento nichilismo nel dar seguito ai propri impulsi fino a scoppiare ? Io non lo so scopritelo voi.

Voto: ◆◆◆
Label: Black Nutria Indipendent Label / None Records



Aldrin – Bene (Recensione)

Aldrin – BeneSull’asse Viterbo – Roma si consuma una bellissima pagina di post-rock che, sulla stima di un trenta minuti sonici, da il meglio che l’underground possa mettere in vetrina; trenta minuti circa in cui gli Aldrin – quartetto che flirta con un coinvolgente spasimo elettricombroso – definiscono il loro mondo di suoni in uno spazio dilatato e imprendibile, una stupenda deformazione dinamica che ne fa un disco tra i più originali ascoltati di recente per questo settore, l’angolo d’ombra appunto del post-rock.

Bene” è un quattro tracce ( e terzo disco) che la band perfeziona su incastri di strutture che si compenetrano l’uno nelle altre, un viaggio non ai confini, ma addirittura al nucleo centrale del gran peccato veniale e dell’identità artistica rimasta a gironzolare, impalpabile, dopo le disintegrazione punkyes e relative radiazioni; ritmi frastagliati, suites deflettenti, eclissi e ricami di chitarra elettrica, bassi che sbottano tra sensazioni pulviscolari di funky ed echi vocali artsy “Vaskij Rosso” o il potenziale status mnemonico e galleggiante che “Molto bene” continua a citare in una fondamentale moon-air che non tocca terra nemmeno a legarcela. Nessun orpello weird ad intenerire la costruzione di note ed ombre che gli Aldrin – fra trame e sottotrame che mai appesantiscono la proposta complessiva – allucinano con quella caratteristica cifra malinconica che fa equilibrio tra spleen e paranoia darkwave “La drogue” e ancor di meno, nell’openeir fastoso e lunatico che vede la traccia “Der Aldrin” suddivisa come le grandi opere progressive che colonizzavano magnificamente gli anni 70/80, ovvero in “I Espacio sideral e II Espatrio sideral”, una stupenda lezione di vento cosmique, di fasto 90 Day Men, Comfort e piccole ametiste Yes che sfumano in uno slowind down notturno per aprire il sipario su questo minuto disco dall’intelligenza “altra”.

Bello, profondo e disallineato come pochi, manna e companatico per quei “astronauti” che mettono l’orecchio tra realtà e sogni in versione landscape unlimited.

Voto: ◆◆◆
Label: Sub Terra

lunedì 21 novembre 2011

Sick Tamburo - A.I.U.T.O (Recensione)

Sick Tamburo- A.I.U.T.OChi almeno una volta non ha avuto il desiderio di gridare A.I.U.T.O? Chi non si è mai sentito in bilico tra la necessità di sentire dolore e la voglia di distaccarsene? Chi non ha mai ascoltato i Sick Tamburo?

A due anni di distanza dall'omonimo esordio Gian Maria Accusani ed Elisabetta Imelio tornano con il secondo atto del progetto Sick tamburo, “A.I.U.T.O”. Il singolo che ha anticipato l’album, “E so che sai che un giorno”, che peraltro girava già da tempo (e chi ha visto un live di Sick lo sa bene), è stato però un po’ ingannevole. La novità di sentire una canzone interamente cantata da Gian Maria ci ha illusi che tutto l’album potesse essere improntato su questa linea, forse una scelta troppo repentina. Siamo abituati ai cambiamenti, i Sick Tamburo nascono dalle ceneri dei Prozac+ (progetto che non è stato ancora accantonato) e i nuovissimi Hard Core Tamburo definiti come una costola di Sick Tamburo ci hanno mostrato un altro lato della band.

Nell’album si evince un addolcimento del sound ma la loro cifra stilistica è evidente già dal primo brano “In Fondo Al Mare” ma anche in pezzi come “La Mia Stanza”, e soprattutto in “Finché tu sei qua”. Un elemento aggiuntivo in questo nuovo lavoro sono le diverse tematiche affrontate, il titolo mi sembra qui emblematico “Si muore di AIDS nel 2023”, temi sociali molto forti “se preghi e se non preghi e se fai l’amore solo(..)si muore in ogni stato se ti fai o non ti fai” o anche nel brano “Magra” dove il tema dell’anoressia o quanto meno dei problemi con il cibo e con la propria immagine hanno una sfumatura molto realista. Non meno è “Televisione Pericolosa”, dove si sottolinea l’influenza che questo mezzo ha sulla società, influenza che è anche segnale di controllo da parte del potere politico. Brani invece come il porta bandiera “E so che sai che un giorno” e “La mia mano” sono caratterizzati dalla novità di esser cantati interamente da Gian Maria Accusani, mente del gruppo ed autore dei testi.

Il malessere manifestato attraverso tematiche come la violenza delle reazioni, la rabbia adolescenziale che sfocia nell’anoressia, l'identificazione in precisi falsi modelli, l’autolesionismo. A.I.U.T.O è l’acronimo di “Altamente Irritanti Umane Tecniche Ossessive” ma noi possiamo affermare che è anche una delle più riuscite richieste d’aiuto di questi ultimi tempi.

Voto: ◆◆◆
Label: La Tempesta

Lava Lava Love – A Bunch Of Love Songs And Zombies (Recensione)

Lava Lava Love – A Bunch Of Love Songs And ZombiesE’ la storia di una scommessa vinta, uno di quei semini spersi qua e là che quando uno non se lo aspetta più germoglia in un fiore stupendo, delicato e tenace; in quel di Verona, parti sane d’ex Canadians, Fake P e Spagetti Bolonnaise si sono unite all’ombra del moniker Lava Lava Love e si mettono a “fabbricare” una piccola epistola sonora di undici piste di sogni brit-Beatlesiani, piccole gocce d’indie-pop e diamantini folk easy che fanno allegoria in tutta la tracklist come stelle in una ventilata notte d’agosto.

Uno di quei dischi che appena si mettono in moto ti si attaccano addosso e non si staccano per un bel pezzo, quella presa rapida, quella giocosa ventosa all’ascolto che rende giustizia e pegno a melodie dolci e “innamorate” a cuore gonfio come pochi; i LLL hanno tutto per piacere all’istante, con tutta probabilità una formazione nel definitivo lancio verso l’alto del panorama indie sempre più affamato di grazie e semplicità e questo “A Bunch Of Love Songs And Zombies” è un espressivo messaggio dello stato di benessere di questi EX ritrovati nel nuovo.

L’America indipendente qui dentro gioca più di una carta vincente, di quella tendenza a contaminarsi con session e con i flirt che l’energia melodica e la dirompenza esigente di tirare fuori l’anima richiede, e loro lo fanno nella maniera espansiva di un suono agrodolce che si fa ballata acustica con tanto di banjo “Another happy song”, nell’agreste alternanza elettrica di pedaliere e arpeggiTomorrow will be the worst day of my life”, nella cristallina vocalità di Florencia Di Stefano che illumina un dettaglio Nashvilleano in “Nothing special”, a bordo di una fiammante Thunderbird che sfreccia sulle direttrici for Tampa “Kenosis” fino a fare tono di base nel duetto finale che in “Morning dew” si fa epico e cinematografico, come nei bei finaloni che l’emozione ti fa salire in gola per stordirti di bene.

Non arrivano tutti i giorni cose del genere, non che i Lava Lava Love abbiamo registrato la verità assoluta, ma quello che proviene da questo pezzo di plastica è purezza stranita che piace molto, e se non dovesse avere successo, pazienza, si fermerà a livello prettamente underground, ma a queste condizioni – credetemi – ci si accontenta più che volentieri a rimanerci.

Notevole.

Voto: ◆◆◆◆◆
Label: The Prisoner 2011


sabato 19 novembre 2011

Nils Frahm - Felt (Recensione)

Nils Frahm - FeltNon ha fondo il cilindro dello stregone d'Amburgo Nils Frahm. Nel 2009 tirò fuori il suo primo coniglio bianco “Wintermusk”, poi un secondo, più grande, così grande che servì la mano di Peter Broderick, il terzo fu così timido che ci vollero le dita di una donna, la violoncellista russa Anne Muller. Oggi il giovane Nils estrae una materia indefinita, così delicata, così silenziosa nei suoi movimenti da non poter essere sfiorata “Felt”.

Dopo molteplici esperimenti (Vedi l'album di Emphemetry "Lullaby hum for tired") il giovane pianista ha voglia di respirare l'aria di casa, per casa si intende “Wintermusik”. In molti si chiedevano quand'è che Nils tornasse sul palco senza rete, “Felt” è la risposta, non solo a quest'ultima domanda, ma anche a chi si chiedeva se fosse ancora in grado di creare illusioni come nel suo primo spettacolo di magia. Basta “Keep” e nascono da subito rose ed orchidee sotto le scettiche narici di chi affermava che Nils fosse oramai orfano di nuovi trucchi. L'illusionista agita il suo mantello oscurando il teatro “Less”, l'importanza del silenzio, come in Dustin Ohalloran and Adam Wiltzie, il trucco? Microfoni posti all'interno del piano, creano un'atmosfera ancor più intima e delicata. L'illusione che stia respirando dietro la nostra nuca “Familiar” ci voltiamo di scatto e non c'è o forse non riusciamo a vederlo, senza renderci conto di cosa stia accadendo, cosa c'è sotto di noi, cosa stiamo sorvolando “Unter” è forse la miglior illusione dell'album, il mormorio soffocato dal fischio di un uomo solo con il suo strumento, “Old Thought”in una notte d'oriente se ne sta adagiato sulla sabbia a far l'amore con esso. Sospirata “Kind” stanca, quasi inerme, offre ancora più pathos all'oscura “Pause” accordi violenti come tuoni in un cielo azzurro, rabbia e lento dolore caricano un finale straordinario “More” apparentemente un uroboro di “Keep” ma qui siamo pieni fino all'orlo di suoni pizzicati e ronzii a metà strada fra l'ambient e il barocco. Nove minuti passati a nuotare a cavallo di un'orca sotto un cielo di ghiaccio nero, fino al minuto 4:33 dove tutto cambia, che vadano al diavolo i vicini! Nils domina il piano con violenza quasi “Bartókiana”, e chiude l'ultimo numero di magia con un imprevisto e clamoroso soffio psichedelico.

Una registrazione che rende l'album particolarmente ingordo, graffiandoci le orecchie come un ago da sismografo; i silenzi sporchi e divini come il vuoto dell'inizio di un 33giri. Ancora una volta Nils Frahm sorprende e realizza un album eccellente, ottime le idee, ottimi i giochi di tempo ed ottima la scaletta dell'album. Forse la fame sperimentale di Nils non è ancora sazia, si diverte, ci diverte, ci sorprende, ci affascina, ci strega.

Voto: ◆◆◆
Label: Erased Tapes



The Sea and Cake – The Moonlight Butterfly (Recensione)

The Sea and Cake – The Moonlight ButterflyCi sono band che sembrano fatte apposta per inserire il proprio sound alterno del catalogo di una precisa label, e label che paiono proprio aperte al solo scopo di accoglierle. La musica dei chicagoani The Sea and Cake, Sam Prekop, John McEntire e Archer Prewitt, per esempio entra facilmente nelle misure ideali e nella tipologia immaginaria che la Thrill Jockey ha saputo forgiare negli ultimi anni.

La band americana - qui al nono disco dal 1994 “The Moonlight Butterfly” – lascia le scie fumose del post-rock per attraversare le costellazioni tenui e ricercate di un pop-rock dai colori sfumati ed incondizionatamente stemperati da ogni vigore, da qualsiasi ricorrenza effettistica per dimostrare – in fondo – che il bello viene anche dall’utilizzo della sincerità; sei tracce che messe a confronto con le precedenti summe di running time, sono molto più elastiche e lunghe e mostrano in un lampo acceso che il fattore versatilità è la grande prerogativa, la novità, di questo nuovo work che i TSAK sperimentano con un addensato d’orgoglio che non guasta mai.

Si, sperimentazione è il verbo rigenerante di questo nuovo episodio, sono musiche che servono sia a ballare sia a creare un’atmosfera cinematica, come una colonna sonora pre-serale, una piccola cascata di sinfonie per una giornata che finisce per rinascere nel sogno dove gli incedere nervosi non trovano locazione, ma si accasano piacevolmente l’elettro-beat soffice “Covers”, “Up on the north shore” con una chitarrina twangy in tremolo fighissima, il tenero afro-beat “Lyric”, la gassosità spacey che fa galleggiare nell’amniotico “The moonlight butterfly” e le sognanti dodici battute che sintonizzano “Inn keeping” verso i migliori ricettori del piacere softyng rilassato.

A sigillare la grande “libertà compositiva” che circuita nel registrato il funky minimalista di “Monday” con un tocco di Rodhes liquido che stringe il cuore a tutti gli irriducibili amanti del pop col marchio TSAK, un trio che fa “personaggio” e tratteggio di una linea sonora capace di mutare la vostra atmosfera in qualcosa di radicalmente nuovo.

Averlo nelle vostre collezioni sarà classe al quadrato.

Voto: ◆◆◆
Lebel: Thrill Jockey 2011



giovedì 17 novembre 2011

Sandro Perri - Impossible Spaces (Recensione)

Sandro Perri - Impossible SpacesOrmai si sa da un pezzo: il "Canada musicale" è terra di grandi sorprese e grandi conferme. Sandro Perri nel corso degli anni, complice la sua spiccata vena trasformista, ha avuto modo di rinascere, evolvere e stupire sotto diverse forme, confermandosi ripetutamente un musicista completo ed eclettico.

Con "Impossible Spaces" (uscito il 5 novembre per Constellation Records) il cantautore canadese continua incessante la sua evoluzione dando un meritato seguito a "Tiny Mirrors" (Contellation Records, 2007), primo full-length firmato con il proprio nome di battesimo.

L'album si presenta fin da subito come un giusto sunto stilistico delle passate esperienze discografiche; qua e là ritroviamo la batteria bossa/jazzata del già citato "Tiny Mirrors" unita a saltuarie digressioni ambient caratteristiche dei lavori a nome Polmo Polpo. I fiati, non nuovi nelle produzioni di Perri, si uniscono sapientemente alle linee di un basso mai domo al contempo fluido e percussivo, che tiene inevitabilmente incollato l'orecchio dell'ascoltatore anche nelle tracce più prolisse (su tutte "Wolfman", piccolo trionfo compositivo ricco di alternanze ed intrecci tra basso, fiati e synth, della durata di oltre 10 minuti, anche se percettivamente sembrano molti meno). Il tutto è piacevolmente accompagnato da una voce morbida e soave, mai scontata e, nonostante strizzi spesso l'occhio a tonalità vicine al falsetto, distante dalle mode del momento. Il risultato è un ottimo disco folk, che si distacca però da gran parte delle produzioni del genere grazie ad una cura negli arrangiamenti e nella scelta delle sonorità che a tratti lascia romanticamente immaginare ci possa essere lo zampino di un Nino Rota in visita a casa Perri, giusto il tempo per un the caldo e un saluto.

Voto: ◆◆◆
Label: Constellation Records


Fair To Midland – Arrows & Anchors (Recensione)

Fair To Midland – Arrows & AnchorsMister Serj Tankian ebbe vista lunga e orecchio fino, e una volta sentiti questi texani Fair To Midland indemoniarsi in un live se li accaparrò per la sua etichetta e per produrli in un percorso minato di prog-metal Fables from a Mayfly da leccarsi i baffi. Poi si cresce e si hanno sogni propri e una volta approdati alla major E1 Music arriva “Arrows & Anchors” che, anche se non è prettamente il botto in grandeur che ci si aspettava, comunque scuote e si fa materia bollente per ascolti roventi in cuffia e col loud alle stelle.

La bella voce di Darroh Sudderth mette in evidenza una dolcezza arpionata che fa slalom tra bordate, riff arcigni e momentanee apnee sorrette da stuoli di tastiere che avvampano un quadrato sonico, un ring in cui combattono sintetismi progressive e aggressioni metal rocciose, d’oscura potenza; lontano dal power heavy metal americano della dinastia Blue Oyster Cult e ancor più degli anni ottanta delle scie sanguinarie tipo Manowar, Manilla Road o Metal Church, i FTM si accostano molto al Nu-Metal - nella parte “meccanica” – circoscritto a band come System Of A Down o Deftones, e nella parte versatile sono rintracciabili “brutti ceffi” come i Rush con la bava alla bocca “Whiskey & Ritalin”, i Butthole Surfers che fanno a botte con Perry Farrel nella psicotica e ariosa “Golden Parachutes”, il tocco grunge alla Alice In ChainsAmarillo spleeps on my pillow”.

Ma crediamo veramente che anche lo zampino pazzo e fuori orbita di un iper-cromatico Mr. Bungle non sia presente tra le gengive infuocate di questa dentatura aguzza formato disco? Tana, il sofisticato quanto schizofrenico febbrone del camaleontico artista tuona, schizza e si sgola un po’ qua e la “Musical chairs”, “Hu-oh”, nascosto tra i tasti di piano in “Typoid Mary sends her best”, nei gargarismi growl & love “Rikki tikki tavi” per poi scomparire e fare posto alla celestialità insospettabile di una ballata field che ripulisce, come un soffio d’aria fresca, l’odore saturo di bruciature e pedaliere fuse che si era impossessato di tutto “The greener grass”.

Fair To Midland, una band che gronda fierezza e potenza, un dolceamaro elettrificato su cui vale la pena puntare, una band che rifonda il genere dall’interno piuttosto che quei dementi emo-core plastificati, che gonfiano più che polmoni, testicoli al prossimo.

Da scoprire con gusto.

Voto: ◆◆◆
Label: E1 Music


mercoledì 16 novembre 2011

The boats - The ballad of the eagle (Recensione)

The boats - The ballad of the eagleOgni volta che ci si trova ad ascoltare un disco del genere spesso si finisce per optare per il racconto di una esperienza. Qualche anno fa c'era una label electro tedesca (ancora a lavoro su cose più standard) la Get Physical Records, da me molto amata, che spesso se ne usciva con delle sinfonie elettroniche, più che un semplice assemblaggio di pezzi, con quei dischi - esperienza da ascoltare nei meandri più reconditi della propria esperienza o in quei white cube, quelle discoteche labirinto dalle quali non si può - nè si vuole - uscire, che regalavano sempre delle grandi emozioni. Il disco dei The Boats, un trio inglese musicalmente più vicino ai territori della musica teutonica, ci propone una nuova sinfonia che potremmo definire, parafrasando un titolo delle loro tracce, come il cambio degli incontri su un treno che si ferma e passa oltre, verso nuovi orizzonti. Se quest'ultimo è difficile da definire si può senz'altro affermare quali siano le lezioni studiate dai tre musicisti. Come non citare i padrini Kraftwerk, dischi come Irrlicht di Klaus Schulze, i Bronnt Kapital Industries che stamparono sotto la label citata sopra, alcune cose presenti in Dead cities dei The Future sound of London, e molto altro ancora. È chiaro che i nostri siano molto affascinati dai classici così come dai cantori del minimalismo di inizio XXI secolo, sottolineando un uso del minimalismo che va ben oltre il lavoro dei colleghi più blasonati. La loro è una elettronica molto intelligente, ragionata ma compiuta, ben ritmata e bilanciata. Parlando in questi termini l'ascoltatore potrebbe pensare che questo sia un lavoro freddo e noioso, tutt'altro, bisogna solo essere nel posto giusto al momento giusto, come me in questo momento, nel letto con le cuffie, perchè questa è musica interiore, non da stereo. I The Boats fondono sapientemente strumenti ad arco e beat minimali in 4/4 che entrano subito in testa, realizzando quel concept onirico attraversato da un act come gli In a Sleeping Mood, la differenza sta nel mood, nel primo caso oscuro e claustrofobico, in questo dolce e sognante. Una materia sonora così eterogenea fa sì che l'ascoltatore percepirà un flusso unico che potrà essere messo in loop per ore e ore, non esiste infatti una cesura netta tra la conclusione dell'ultima traccia e l'inizio della prima, e ciò contribuisce a creare una immersione ancora più forte. È la stessa sensazione che spero il disco offra anche a voi, avidi consumatori di materiale elettronico. I The Boats richiederanno una paziente attenzione ma non vi deluderanno.

Voto: ◆◆◆◆
Label: Our small ideas

Musica da Cucina - Musica da Cucina (Recensione)

Musica da Cucina music albumQuando nel 2006 uscì il primo disco di Musica da Cucina (Mondo Pop, City Living) ricordo che il mio personale modo di rapportarmi alla musica e a gli strumenti, anche non canonicamente musicali, cambiò radicalmente. Quello che a prima vista poteva sembrare un side project sperimentale e bizzarro del chitarrista di una delle realtà musicali più concrete partorite da inizio secolo in territorio Valtellinese, si è subito trasformato in una solida e convincente certezza. I soggetti in questione sono Fabio Bonelli, alias Musica da Cucina, e i Milaus, band/culto Valtellinese dalle cui ceneri (anche se lo scioglimento non è mai stato annunciato ufficialmente) hanno preso vita progetti interessanti quali Manetti! e, appunto, la stessa Musica da Cucina. Il 2011 è dunque l'anno della conferma per Fabio Bonelli che dopo anni di tour e concerti in giro per l'Italia, per l'Europa e non solo (da sottolineare il prestigioso MONA FOMA, festival Tazmano organizzato da Brian Ritchie) arriva al secondo atto discografico, questa volta per Long Song Records. Fin dal primo ascolto traspare una crescita, un'evoluzione positiva non tanto nella composizione dei singoli pezzi, eccellente qui come nell'album di debutto, ma nella visione totale dell'album. Il lavoro certosino organizzato e portato avanti da Fabio, affiancato del fidato Lorenzo Monti al mixer, regala al disco una piacevole omogeneità che, unita all'inserimento saltuario finora inedito di armonica, pianoforte e batteria, permette a Musica da Cucina di fare un'ulteriore salto avanti qualitativo. All'orecchio si percepisce un piacevole intreccio di folk-pop d'autore (come la ballata melodica "For Ellen", la hit "Today" in cui ci si può quasi immaginare uno Stephen Malkmus impegnato a canticchiare cucinando, o la giocosa "Chicchi di riso") unito a divagazioni ambient/concrete (la ripescata "Elvira ed Amelia" già presente nel lavoro del 2006 o la bellissima "Pasta Madre") che rendono l'album, e il progetto stesso, difficilmente affiancabile ad un genere ben definito. Il segreto, ed il merito, di Musica da Cucina risiede senza dubbio nel presentarci una versione pop/musicale della quotidianità casalinga, affiancando con naturalezza alla parola "strumento" l'aggettivo "musicale", anche quando l'associazione non risulta così scontata; ed è così che lo "strumento" rotella, comunemente utilizzato per tagliare la pasta, ha la possibilità spensierata di esprimere tutto il suo potenziale "musicale", vivendo una nuova ed inaspettata giovinezza. Una sensazione di libertà assoluta e contagiosa. A chiusura del cerchio troviamo un gradevole packaging frutto dell'unione tra i fittissimi disegni di zia Elvira (...la cura per il particolare dev'essere un dono di famiglia) e lo studio grafico di Giacomo Spazio nome noto nell'ambiente dell'arte e della musica alternativa.

Se volete accettare un consiglio, domattina alzatevi con una 40ina di minuti d'anticipo sulla sveglia e fate una lunga colazione, rigorosamente tra i fornelli, insieme a Musica da Cucina; La giornata comincerà molto meglio, ve lo assicuro.

Voto: ◆◆◆
Label: Long Song Records


martedì 15 novembre 2011

Fast Animals and Slow Kids - Cavalli (Recensione)

Fast Animals and Slow Kids - Cavalli La morale di questi anni '00 è che la realtà è stronza, e ti bacia in bocca – e se hai vent’anni, hai ben poche possibilità di scapparne. Cosa ha lasciato questo decennio di crisi economica, politica, etica e spirituale a quattro ragazzi perugini di poco più di venti anni è la crisi esplosiva di questo ‘Cavalli’. I FASK – Fast Animals and Slow Kids, ecce nomen – raccontano dieci anni di storia personale ed individuale, in una miscellanea in faciendum che si estende per la bellezza di undici tracks urlate, recitate, declamate; un album eclettico, una varietà di generi che hanno come comun denominatore la neo-tradizione di cantanti italiani che fanno capo ad Afterhours e Verdena ( pensare pezzi come Copernico e Collina ) , aggiungendo tonalità più punk e scure importate direttamente da Zen Circus – di cui saranno supporter nel tour di presentazione del loro nuovo Nati Per Subire - e Soviet Soviet ( dai quali detrarre il malinconico più divisioniano e aggiungere un po’ di sano isterismo italiano ). E perché no, mettiamoci anche un po’ di ironia caparezziana, macinata come pepe su di un piatto di manicaretti, che sta lì, sorniona e osserva beffarda dietro un’armatura di accordi potenti e lavoro di batteria. Cavalli è tracklist che altro non è che un codice di lettura di isterismo e disfattismo consumato da chitarre deluse e da esseri umani in disuso, sfiduciati quanto basta per incazzarsi, ed alzare la voce. Nervi, Gusto, Cioccolatino, Guerra sono affettuosi nominativi per ordigni fatti a mano, naturalmente distruttivi ed autodistruttivi. E questa è la realtà che brucia.

Grazie Signore, grazie mille, per la nostra mediocrità. Da mediocri vediamo meglio, ma ci affrontiamo di meno – perché abbandonare la comodità del posto di spettatore per buttarci nel rischio di scoprirci davvero capaci? Servirebbe una rivoluzione, anzi no, servirebbe qualcuno che la faccia per noi. Ci vorrebbe un Copernico per dirci che è il sole che gira attorno alla terra. E invece si brancola nel buio, se non nell’inerzia di milioni di parole a cui non seguono azioni. Fuori dalla parabola rassicurante di Forrest Gump, gli esseri umani cercano una scatola di cioccolatini quando hanno fame, per cercare una via d’uscita dall’incrocio in cui sono immessi. E se ‘la banalità di un testo d’amore è paragonabile solo alla banalità di un testo politico’ , figurarsi il resto. L’universo dantesco è quello di anime che scontano il loro contrappasso senza essere davvero morte, e subiscono la giusta punizione per lo spreco di carne che effettuano; e non lo sanno più cos’è il gusto, e cos’è giusto. Magari perdono la loro integrità, riflettendo che qualcuno è proprio meglio di sé, ma del resto morto un papa se ne fa un altro. E se ci si ammazza per parlare a tutti di sé, è troppo tardi, la messa è finita, e, del resto, non interessa granchè. E non interessa neanche l’amore: ‘senza Lei, probabilmente non ce la farei’ può solo offrire spunto per il sarcasmo più feroce. I FASK non discriminano fra palati fini o meno. Il vigore con cui ogni pezzo viene affrontato e letteralmente fatto implodere è per tutti, soprattutto se tutti sono incazzati neri. Ti piacciono, o non ti piacciono, il loro è un out-out senza mezzi termini – ma non si neghi l’amara verità delle loro prediche. E di certo non serve un parroco per farcela.

Voto:
Label: Ice For Everyone / Audioglobe


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