mercoledì 31 ottobre 2012

Invers - Dal Peggiore Dei Tuoi Figli (Recensione)

Viene alla luce l’official work dei biellesi Invers, “Dal peggiore dei tuoi figli”, un altro tentacolo sonoro che si muove sulla scena emergente ed indipendente tricolore, e da quanto si sente sia ha la netta sensazione che la band sia consapevole dell’eredità pesantissima che il rock delle novità e del suo potere di “sverginare” immediatamente gli ascolti sia lontano ma ci si prova, e che ricreare le atmosfere alchemiche della formula vincente è solamente un miraggio concreto dal quale chiunque oramai è portato ad arrendersi se non addirittura prendere valigia e bastone e cambiare strada.

Ad ogni modo i nostri si muovono spigliati e con focoso incedere, giocano con un ritmo shuffleato e con una caratteristica Ottantiana che li vuole schizzati ed elettronici quel tanto che basta per far muovere corpo e mente oltre le briglie soft punkyes e le singolarità melodiche robotizzate che tanto piacciono ai cultori di un certo revivalismo pop di stampo teutonico; un disco di undici tracce abbastanza rievocativo alla GarboQui fa sempre buio pesto”, la titletrack, “Buongiorno America”, un ascolto libero da intoppi e da quell’avant-gard saccente che oramai ha imparato il giochetto del come dissipare la noia defilata di un tempaggio obbligato, ma anche una stimolante rivisitazione del “Mio fratello è figlio unico” dell’oramai troppo strapazzato Rino Gaetano che fa tanto gioiellino e una altrettanto sfiziosa divagazione onirica wave-Mex fichissima che “becchetta” il numero nove della scaletta “La rivincita dell’humus”.

Un esordio di tutto rispetto, senza toccare magari le alte vette creative ma nemmeno “uno degli ultimi arrivati”, che si fa amico del lettore ottico, ammicca intelligenza e dichiarazione artistica più che solida e che – nolente o dolente – fa comunque quel passo decisivo ed impeccabile ad aprirsi alle nuove territorialità d’ascolto senza mai rinunciare alla propria integrità e al modo di intendere i sapori variegati del Signor Rock, sapori già “annusati” nel buon antipasto di “Ossigeno”.


Voto: ◆◆
Label: Vina Records 2012

The Hacienda/Wemen - Split (Recensione)

Due nuove realtà si affacciano sul panorama indie-rock della nostra penisola. The Hacienda, band fiorentina che ha già al proprio attivo un album ed un EP, e i milanesi Wemen, i quali debuttano con la Black Candy proprio con questo split giocato sulle sei tracce equamente divise (inframezzate dalla registrazione di un decespugliatore!).

Partiamo da Firenze: The Hacienda provengono da una gavetta ormai abbastanza consistente e possono vantare una discreta familiarità con i palchi di mezza Europa, non ultimi quelli italiani dove hanno aperto ai Beady Eye, la nuova creatura di Liam Gallagher. La loro è una musica fortemente influenzata da quel versante della cultura britannica che abbraccia pop, punk-rock-ska e psichedelia ma anche, ed è il caso del brano di apertura Time Machine, dal sound della California degli anni 60 sospesa tra il surf e le prime innocenti esperienze lisergiche. Tre brani vivaci e sognanti, energici ed incantati tra i quali spicca indubbiamente l'accattivante She's Mine (davvero una delle canzoni più riuscite dell'anno in corso), forte dell'ammiccamento allo ska, del contrasto/connubio tra melodia e nervosismo strumentale e di una psichedelia dalle reminiscenze garage statunitensi.

E arriviamo a Milano: anche per Wemen le coordinate geografiche riconducono al brit-pop ed al punk-rock cadenzato dai ritmi giamaicani. Tralasciando l'acerba Out of Country, un brano come Everything I Know sembra infatti contenere tracce tanto di The (English) Beat quanto dei più recenti The Dead 60's. Playa Do Rei, altro singolo da tenere in considerazione in questo 2012, gode invece di un'atmosfera più distesa, come suggerisce anche il titolo, e la stessa idea di composizione che sta alla base del pezzo sembra riferirsi tanto a patrigni d'oltremanica (The Clash) quanto ad altri d'oltreoceano (vengono in mente i June Of 44 di "Anahata").

In conclusione, rimane da sottolineare come alla Black Candy dimostrino, ancora una volta, la volontà di tenere buono il livello qualitativo delle loro produzioni in materia di sound e segno grafico.
Buon ascolto.

Voto: ◆◆
Label:  Black Candy Records/Audioglobe


martedì 30 ottobre 2012

Shizune - mono no aware: between eternity and the burial (Recensione)

A sette mesi di distanza dalla pubblicazione del precedente omonimo debutto bomba ecco un'altra manciata di pugni in faccia targati Shizune, da Vicenza e dintorni. Scemata la sorpresa, si fa spazio la consapevolezza della classe. Classe nel trattare la materia hardcore con scioltezza e coinvolgimento fuori dal comune, oltre che una perizia tecnica invidiabile. Nulla di nuovo all'orizzonte, per carità, solo cinque canzoni compatte, che si destreggiano tra inglese, giapponese e italiano, arpeggiando lamine taglienti di sentimento e consapevolezza screamo, vomitando rabbia ma con l'intelligenza e la precisione chirurgiche della passione. Anche questo ep è scaricabile gratuitamente dal loro bandcamp ma per ora non è prevista una stampa fisica in vinile. Complimenti!


Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Autoproduzione




lunedì 29 ottobre 2012

Hugo Race & Fatalists - We Never Had Control (Recensione)

Ipnotico è senza il minimo dubbio il vocabolo che meglio mette a fuoco il nuovo lavoro del musicista australiano Hugo Race & Fatalists, “We never had control”, un trip Celineano ai confini della notte, nei raggi del buio e al centro del deliro della passione, percorsi notturni di amori scostanti, blues scalcagnati e poesia magniloquente, canti alla luna soffusi, doloranti e di rinascita che si rotolano in un minimalismo di base come in un gioco delle parti, inconfessabili, ma delle parti.

L’artista di Melbourne, ma oramai adottato in Italia e già membro dei Bad Seeds di Nick Cave, prosegue i suoi lunghi cammini polverosi tra deserti dell’anima e canyon dello spirito, una continua ricerca di un qualcosa che riga e graffia dolcemente tutto l’agroamaro che secerne una vita in solitaria, una forte attenzione per tutto quello che è evanescente e frammentato da tramutare in un secondo tempo in una alchimia stupendamente torbida e filigranata; non è una plastica dimostrazione di esperienze ai bordi della poemica noir di Cave, ma l’estrazione personale di una profondità perduta, ritrovata e rimessa in tiro per un lamento melodico grezzo che accentua tutta la dolcezza di fondo di questo artista, e queste otto tracce ne sono la conferma e la colorazione al netto senza additivi.

Un susseguirsi di fantasmi, coscienza, amori, la gola bruciata di Lanegan, fragilità e polvere americana, tutto si rotola in sciamanesimi chitarristici “Ghostwriter”, andature mex che portano dritte alla corte dei CalexicoSnowblind”, gli abissi intimi dei pensieri “Shining light”, una musica a tratti gelatinosa a tratti cullante, un ascolto sotto coperta con stelle a fare da lampadario e bocconi amari da cena, cena che si fa ancor più amara quando il tocco chitarristico si fa lancia stordita tra il blues magnetico del Mississippi e le magnesie alchemiche di quello del Mali “Meaning gone”; l’arte di Race non è quella solamente di musicare l’oscuro, ma anche quella di mettere in piedi una nuova polarità magnetica che unisca le attrattive e le infiltrazioni estetiche di una certa “Loner Generation”, quella concezione sospirante che tramanda e rincorre la sensualità del sentirsi solo e la fantastica dimestichezza con il proprio io, del proprio se stesso intorno al cerchio della vita di frontiera “No angel fear to tread”.

Avete preso posto vicino allo stereo o vi siete armati di cuffie? Allora Buon Viaggio!

Voto: ◆◆◆
Label: Gusstaff Records 2012



sabato 27 ottobre 2012

Balmorhea - Stranger (Recensione)

Le influenze sono molte e a tratti nulle, mai come in questo caso l'unicità si plasma con l'uniformità della scena musicale.
I Balmorhea nascono nella città degli Explosions in The Sky dall'unione, però, di un pianista ed un chitarrista, con un disco omonimo nel 2007. Da allora si sono avvicendate persone - luoghi e dischi, fino ad arrivare oggi al quinto disco, registrato nella stessa sala dei Tortoise con i primi due membri geograficamente distanti, ma con il gruppo che nel mentre si è espanso fino ad arrivare a sei membri, tra i quali il brand new percussionista.
Sarà proprio questa nuova entrata a dare una caratteristica "meno elitaria" alla band perchè, se fin'ora potevano essere riposti tra la musica cameristica, fregiati dai loro archi e violini, ora si avvicinano al post rock dei synth e delle progressioni elettriche, allontanandosi anche dell'atmosfera solitaria del precedente, nonchè quarto, album Constellations, grazie a dei brani spensierati quasi.
Quasi un'ora di piacevole ascolto spezzata in dieci brani che mostrano tutte le "capacità" dei membri, comprensibili in realtà dirette come "Days" che apre con otto minuti di miscellanea, per poi passare a pezzi più placidi come "Masollan" o da colonna sonora da cinema d'autore ("Fake Fealty").
La scelta di inserire le percussioni, sicuramente ha dato una nuova direzione alla band, che però non tradisce nulla del suo passato. Si potrà quindi solo migliorare.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Western Vinyl




venerdì 26 ottobre 2012

Lactis Fever - S./t. (Recensione)

Con Como ho sempre avuto un rapporto particolare, un rapporto vivo, sebbene in rari casi siamo arrivati a trovarci l'uno al cospetto dell'altra. Ci siamo idealmente sfiorati quando a metà degli anni settanta una giovane coppia d'istanza nella città lacustre decideva di spostarsi altrove per mettere su famiglia, ci siamo rincontrati quando il giro di amicizie è piacevolmente arrivato a toccare i limiti della periferia comasca e ancor più quando il mio stereo di giovane sbarbo, sebbene fosse distante decine e decine di chilometri dalle acque lariane, suonava a tutto volume Atarassia Gröp, The Leeches e Succo Marcio. La Como musicale, quella che negli anni mi ero idealmente costruito nella testa, era una piccola roccaforte settentrionale del punk-rock, calligraficamente e poeticamente kappa-centrica, animata da kreste, kiodi borkati e "A" cerkiate. Con il passare degli anni ho avuto modo di aggiustare il mio punto di vista scoprendo che la scena musicale lacustre, forse contagiata dall'aria buona proveniente dal vicino varesotto (casa della monolitica Ghost Records), aveva anche altro da offrire, soprattutto in campo indie-rock. A spiccare tra le giovani promesse erano quattro poco-più-che-ragazzini dall'aria brit che in pochi anni, a suon di concorsi vinti, erano riusciti a confezionare un gioiellino indie-rock come The Season We Met. A due anni di distanza riecco i Lactis Fever, splendenti, sinceri, liberi dalle ingombranti influenze stilistiche del passato, con in mano il disco che pare davvero essere quello della maturazione.
Un artwork semplice, dalla composizione lineare, che ben rispecchia l'anima del disco, nove tracce orecchiabili, orgogliosamente pop che si distaccano dall'urgenza adolescenziale dell'esordio senza trascurare però emotività ed energia, presentandole questa volta in un quadro più ordinato, adulto, consapevole. 
Certo, nulla di nuovo o rivoluzionario, ma in un periodo storico in cui il manierismo ruffiano, quello fatto con leggerezza e senza un briciolo di orecchio per il buon gusto, sembra essere al centro della scena, un disco come questo fa tirare un bel sospiro di sollievo. Le linee vocali qua e là ricordano gli ultimi The All-American Rejects senza perdere però di personalità (Shadows, Oh Lord), i coretti compatti sono degni del miglior Billy Joel d'annata (il ritornello di So High richiama un paragone obbligato con la Joeliana Uptown Girl) e la progressione finale di Tomorrow sembra voler apertamente svelare l'identità del co-produttore artistico, lo stesso Matteo Cantaluppi già dietro al mixer con i Canadians di A Sky With No Stars. Ma poche ciance, i richiami non fanno testo quanto a fare da protagonista e da filo conduttore al disco c'è un'evidente freschezza e sincerità di intenti, come dimostra The Sun Is Shining, singolo scelto per il lancio dell'album e prototipo della pop-hit di cui le classifiche attuali avrebbero più che mai bisogno.
Anni fa non avrei mai pensato che nella mia personale proiezione di "Como città punk" un giorno si potesse affacciare un piccolo stralcio di pop, parola che al tempo suonava come la peggiore delle bestemmie e che oggi, almeno in questo caso, ha il sapore di una piacevole scoperta. Como, qualitativamente, non ha deluso nemmeno questa volta.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Autoproduzione

giovedì 25 ottobre 2012

Neurosis - Honor Found in Decay (Recensione)

Ed ecco che giunge finalmente, in questo strano ottobre 2012, Honor Found In Decay, decima fatica discografica dell' immenso gruppo a nome Neurosis (undicesima se includiamo anche il disco realizzato nel 2003 con i Jarboe).
Volendo fare un piccolo riepilogo della loro storia più recente, potremmo dire che questo nuovo nato in casa Neurot Recordings è il degno successore di Given to the Rising che, uscito dopo le sperimentazioni più "post" e ambient di The Sun That Never Sets e The Eye Of Every Storm, aggiunge un bel po' di grinta in più alle loro composizioni riportandoli un po' ai suoni più granitici di Through Silver in Blood e Time of Grace ma senza perdere gli "svarioni" più introspettivi pregni di decadenza e giri ipnotici intessuti in lunghe tracce che facilmente strabordano oltre i 10 minuti.

Il trademark della band si riconosce subito. I suoni sono quelli di sempre, cupi e distorti, accompagnati da Scott Kelly che rigetta sul microfono la sua voce disperata come ormai siamo abituati ad ascoltare da anni.
Già appena dopo qualche secondo dall'inizio di "We all rage in gold", brano di apertura, si intuisce che il disco ha molto da dare a livello emotivo a chi riesce a calarsi totalmente in esso durante l'ascolto, indossandolo. Dopo una partenza che mi sarei aspettato più lenta, ma non per questo deludente, la "lercia" voce di Scott Kelly fa il suo prepotente ingresso senza tradire minimamente le aspettative di chi conosce la band californiana.
Il marciare del disco si fa sempre più intenso lasciando spazio anche a qualche lamento di violino che si lascia accompagnare dall'incedere lento ed inesorabile dei brani che rendono estrema giustizia anche all'"onore trovato nella decadenza", decadenza che la fa da padrona in questo grandioso disco grazie ad introspettive parti di chitarre che sussurrano malinconici arpeggi.
Tracce come "At The Well, My Heart for Deliverance", entrambe con durate importanti, scatenano un turbinio introspettivo e malinconico da lasciare senza fiato, quasi se stessero donando le famose "farfalle nello stomaco" tipiche dell'innamoramento.
"Casting Of The Ages", brano doom per eccellenza di questo album, è a mio avviso la vetta più alta di questo lavorto in quanto rapisce l'ascoltatore come farebbe una mareggiata con una piccola imbarcazione nei suoi 10 minuti e 3 secondi di durata; a donare questa sensazione la combinazione con la precedente "Bleeding the Pigs", quarta traccia del disco, che sembra essere un disperato preludio all'inevitabile che si conclude in un esplosione di suoni distorti e rumori che vanno ad intrecciarsi a parti di batteria che richiamano alla memoria i deliri di Through Silver in Blood.
Anche in "All Is Found... In Time", penultimo brano del disco, l'incedere inesorabile che domina in tutto l'album si palesa in tutta la sua pesantezza aprendo la strada alla conclusiva e cattiva "Raise The Dawn" che funge da colpo di grazia che sfuma in un tappeto orchestrale di pochi archi che disegnano le ultime trame di disperazione del disco.

Insomma, i Neurosis si sono, ancora una volta, riconfermati signori incontrastati di certe ambientazioni, emotive e musicali, tanto care a tutti gli amanti dei vari ISIS, Rosetta, A Storm of Light, e tanti altri sfornando un disco da non perdere assolutamente.
In conclusone, l'unica cosa che posso aggiungere è che Honor Found In Decay è la migliore uscita, in ambito Doom/Post, ma non solo, di questo 2012 che, se davvero fosse l'ultimo come certe predizioni dicono, troverebbe in questo disco la degna colonna sonora per la fine di tutto.

Voto: 
Label:  Neurot Recordings


mercoledì 24 ottobre 2012

Raggi Ultraviolenti - E’ tutto un fake! (Recensione)

Gli energetici anni 90 italiani del punk dalla testa pelata o dal ciuffo impomatato, i ruggenti e ringhiosi move-on contro tutto e tutti, i ritmi sudaticci e inneggianti alla rivolta su stile Punkreas, Pornoriviste ecc ecc ritornano a loud sventrato in questo “E’ tutto un fake!” del quartetto piemontese Raggi Ultraviolenti, una disco abbondantemente innaffiato di elettricità, anthems e istigazione al pogo invalidante, undici cariche incorporate in una velocità d’esecuzione che fa spettacolare e furibondo “bordello” fino alla fine del suo percorso sullo stereo.

E’ facile dire “è solamente punk rumoroso che finisce nel momento stesso in cui inizia”, è ancor più facile snaturarne l’attitudine invece che esaltarla con frasettine del tipo “il punk tricolore non è altro che un poppettino leggero solamente girato a folle velocità”, ma per chi abbia raggiunta la maturità alla quale non corrisponda più uno slancio chiacchierone e becero, quello che questi ragazzi suonano – come altre similari e centinaia di band – non è sperpero di corrente elettrica pur di far qualcosa ch possa fracassare il testicolame al condomio vicino, ma pura e vera esigenza comunicativa, baldanzosità e freschezza emotiva che si tramuta in suono e frecciate, una rumorosa linea di credito verso una società bieca e falsa che ancora si regge in piedi sui soprusi contro chi sta sotto.

Dicevamo seminalità anni 90, marpionaggine e goliardia al cubo, scosse amplificate nella norma “anormale” e gustosi canovacci rebel che vanno a rafforzare una tracklist ulteriormente già infuocata di suo, tutte particolarietà che potrebbero interessare anche orecchie non prettamente punkiste, con passaggi a forza nove e potentemente radio-oriented “Fake!”, “Carriera da velina”, la fine del mondo annunciata dai Maya “2012” o la ska-reggaeggiante “ Skandre”, insomma chi si era preoccupato del logo della band si deve ricredere, i nostri Raggi Ultraviolenti non sono poi quegli aggressivi vituperati come si vuol far credere ma simpaticissime canaglie organizzate che della loro voglia di far musica ne fanno un detonatore, un innesco sempre vigile su quello che in questa sporca realtà in cui si sopravvive la fa da padrone, e la fanno senza perdere un colpo, un milligrammo di entusiasmo incandescente “Non vorrei”, una particella di verità scottante “Dentro il parlamento” o una pulsione calorosa dalla quale non si può fare a meno “Clitoride”.


Una folgore in questo laps grigio depressivo, questo i Raggi Ultraviolenti portano in dote e se l’idea di ascoltare questo bel uragano elettrico vi infastidisce in dismisura, mi accodo al quartetto e, cambiando il significato del titolo, vi auguro un sonoro “FAKE YOU”.


Voto: ◆◆◆
Label: Autoproduzione 2012


martedì 23 ottobre 2012

Girless & The Orphan - Nothing Be Worried About Except Everything But You (Recensione)

Non ci sono più le mezze stagioni.
Bisogna rassegnarsi ormai alla saggezza dei luoghi comuni, ed abbandonarsi ad un autunno apparente sotto il pallido sole di ottobre.
Tanto a far ingiallire le foglie ci pensa questo duo viserbese (ora allargato in quartetto) che con il chilometrico titolo di “Nothing Be Worried About Except Everything But You” segna il proprio esordio in larga scala, seguito di due fulminanti EP (i più distratti si affrettino a ripescare in rete “Same Names for Different Girls” e “The Epic Epitaph Of Our Ephemeral Epileptic Epoch”) ed un succoso split in condivisione con i Verily So intitolato “Everyday is a D-day”.
Le coordinate di questo “esordio ufficiale” non si discostano molto da quelle presagite nello svariato corollario di singoli precedenti, ovvero folk d’impronta “oltreoceanica” che fa dell’isteria il proprio punto focale su cui sviluppare gli altalenanti umori che anche su “Nothing be worried…” dettano il bello e cattivo tempo a proprio piacimento.
Fondamentale nella crescita del duo, l’apporto del semplice ed incisivo drumming di Michael Barletta (già dietro le pelli dei paladini hardcore Lantern, e qui in veste decisamente più rilassata) e gli intrecci di basso di Davide Ramilli, anche lui preso in prestito per la stagione 2012/2013 dai compagni d’etichetta Shelly Johnson Broke My Heart.
La novità sostanziale risiede – appunto - nella propulsione a volte sostenuta (“Mein Vatikampf” corredata da un testo caustico) a volte gentile (“The Minute I Talk”) della sezione ritmica giunta in aiuto di Girless & The Orphan, che allarga lo spettro di azione del folk imbastito dal duo di Viserba, e corredato dai cameo di Bart dei Cosmetic (responsabile delle distorsioni in coda alla lunga cavalcata finale “Calleth You, Mocket I”), dalla tromba di Paride Piccinini dei Riviera e dal basso di Fabio Celli dei Delay_House, a puntellare qua e la gli arrangiamenti delle nove tracce che compongono il disco, segno netto di una notevole maturazione sotto il versante compositivo, da cui risulta la costruzione di una “forma-canzone” decisamente più consapevole dei propri mezzi rispetto al (recente) passato, seppur mantenendo l’aura di onestà genuina che ha da sempre caratterizzato il gruppo in questione.
Trovate lo streaming al disco proprio qui giù, in calce, dove le foglie si posano ciondolando nell’aria per poi appoggiarsi con calma sotto lo strato d’indifferenza invernale, che potete liberamente raccogliere in download gratuito.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Stop! Records/Toloselatrack

lunedì 22 ottobre 2012

Andy Malloy - Madre (Recensione)

Andy Malloy: un nome fittizio, un moderno senal di ispirazione burtoniana dietro il quale si cela lo spirito creativo di Andrea Faggiano (voce, liriche, chitarre, synth, percussioni). Dopo un esordio in solitaria con Opium Emporium Ep, il capobanda decide di ampliare il suo losco teatrino scritturando Antonio Di Nardo al basso e Alessandro Pellegrini alla batteria. Madre è il prodotto di una mente immersa nella morbidezza solitaria di chi canta e suona da solo, domata nei suoi voli pindarici dalle strutture del power trio. Quel che era un castello di cartapesta ora è trasparente come il cristallo, e dietro lo specchio un bagliore breve come una Scia che si infrange facendo il sole in mille pezzi. L’atmosfera è piuttosto malinconica, ma tradita a volte dall’ombra fugace di una felicità ingenua. È l’eco del flauto di Vincent Malloy, uno scintillio chiaro e slavato di ombre struggenti e lascive, che si stagliano su un cielo azzurro solcato da comete. Le liriche in italiano sono un’accozzaglia di poche parole di facile intuizione, per lo più pescate dal ristretto e tragicomico campo semantico del depresso medio, mentre quelle in inglese hanno un certo fascino, seppur l’effetto Placebo sia inevitabile. Nonostante alcuni riempitivi, Madre è un disco di belle canzoni che si nutrono di dolcezza e cattiveria, che affrontano il temporale e ti mandano al largo in uno stato di tensione sciolta e sparsa come cenere al vento. Marcette geniali e oscillanti come "Crocodile", le ballerina shoes di "Sorry Dear", la lenta inquietudine di "Let it snow", dove la voce è un soffio fanciullesco che ricompone le macerie come mattoncini lego. L’ultima traccia invece, "Beautiful Disaster", conserva ancora i pesanti postumi di un cantautorato triste, intervallato da quel silenzio vuoto e pieno di respiri invisibili, quieto come un tramonto sull’ultimo giorno dell’umanità.

 Gli Andy Malloy sono un gruppo che ha ancora molto da dire, ma che ha da calibrare meglio il formale equilibrio tra luce, buio e zone di penombra non del tutto definite. Un buon esordio, forse un po’ troppo levigato e preciso, che potrebbe diventare qualcosa di buono in questo casino italiano di gruppi, cantautori veri e finti, one-man band e rockstar da cassonetto.

Voto: 
Label: Autoproduzione

sabato 20 ottobre 2012

June Miller - Couldn't Be With You Even If I Wanted (Recensione)


"I Couldn't Be With You Even If I Wanted" è un viaggio con la testa appoggiata al finestrino, gli occhi focalizzati sul nulla colorato d'autunno, totalmente assorti nel dialogo privato con noi stessi. Ogni tanto una curva, un'accelerata brusca, una frenata, la testa sbatte sul finestrino, i suoni prendono improvvisamente corpo, i ritmi diventano più sostenuti. Ma basta un attimo, il capo è di nuovo chino, il mondo rarefatto.
Il ritorno dei June Miller a tre anni di distanza da Simulacra Sunset (2009) regala soluzioni convincenti in cui il soluto emo si scioglie alla perfezione nel solvente post-rock dando vita a nove pillole che, una dopo l'altra, vanno giù rapidamente, lasciandoci il desiderio immediato di fare il bis. La mano e l'influenza di Chris Crisci (voce e chitarra degli Appleseed Cast, qui in veste di produttore) si sente fin dalle prime delicate note di piano che vanno ad introdurre le chitarre immerse nei ritardi e la compatta sezione ritmica, virtuosa negli arpeggi di basso come nei mai banali ritmi di batteria (al limite del barocco in Penrose Stairs (Part II) e quasi bossa in Howard). All'orecchio arrivano atmosfere post-rock dilatate da una parte (Explosion In The Sky, gli stessi The Appleseed Cast) e richiami emo dall'altra, evocati dall'acuta morbidezza delle linee vocali (gli indimenticati Mineral datati 1998 e qualche esperienza di casa Kinsella, American Football su tutte).
Una leggerissima spruzzata di elettronica e qualche comparsata di violoncello assestano in maniera definitiva e convincente l'armonia dei nove pezzi che lasciano immaginare performance live al limite della pelle d'oca.
Detto questo posso darvi un solo consiglio: recuperate il disco (graficamente ed elegantemente curato da Legno), schiacciate play e gustatevi il piacevole arrivo del paesaggio autunnale. L'estate ormai ha parlato chiaro: "non potrei essere con voi nemmeno se lo volessi".

Voto: ◆◆
Label: Ouzel Recordings / Upupa Produzioni




venerdì 19 ottobre 2012

Underdog - Keep Calm (Recensione)

Se ti puoi permettere di fare una cover jazz schizofrenica di “Cuore Matto” di Little Tony e risultare comunque credibile innegabilmente il talento è dalla tua parte. A tentare e riuscire nell'impresa sono gli Underdog, band eclettica che con questo secondo album porta la propria vena jazz ad un livello superiore, mischiandoci un po' di tutto e stupendo anche quando rimangono nei canoni “normali” del genere. Già con “Macaronar”, la seconda traccia, si capisce che il viaggio sarà tutto tranne che noioso, soprattutto per quella vena ironica che esplode da un testo apparentemente nonsense che mischia italiano ed inglese su una base a tratti ballabile e travolgente, ma se si escludono la notevole capacità tecnica e la spiazzante incisività del duetto di voci maschile/schizofrenica e femminile/soave, perfetta al di là di ogni aspettativa, è da metà album che gli Underdog danno il meglio di sé. Lasciano intuire qualcosa col piano malinconico di “Niko”, apripista ad un finale che sa di tristezza circense coi suoi fiati grevi in sottofondo, poi arriva la cover energica e destabilizzante e da lì non ci si ferma più: “Soul Coffee” mostra il lato più delicato della band, con atmosfere soffuse e notturne in cui piano, violino, fiati e voce femminile creano un tappeto sonoro così leggiadro che quando entrano batteria e chitarra a violarlo la loro efficacia è amplificata esponenzialmente, la lunga “Goodbye”sonda territori oscuri e rarefatti in cui gli assalti all'arma bianca del violino risultano disturbanti e laceranti, “Revolution Is Subject To Delay” alterna parossistiche rincorse guidate dalla nasale voce maschile a pause riflessive in cui il fantasma dei Mars Volta è evocato dalla leggiadra voce femminile, “Mommy On The Sofa” ci fa fare un viaggio nelle sale da ballo degli anni 30 a fianco dei gangster dell'epoca e porta dritti alla conclusiva “Berlin”, canzone che potrebbe essere la musica ideale (non fosse per il titolo) per dare l'addio od arrivederci all'Oktober Fest, senza malinconia ma con dolcezza e spavalderia allo stesso tempo.

Mix non facile, un po' come tirar fuori dal cappello queste 12 tracce che non saran per tutti ma si spera allietino, oltre alle mie, anche molte paia di orecchie: se lo meritano i canali uditivi degli ascoltatori e gli Underdog come giusta ricompensa per il bizzarro viaggio sonoro in cui mi hanno accompagnato.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Altipiani

giovedì 18 ottobre 2012

The Doggs - Red Session (Recensione)

Vale ancora il logos “brutti, sporchi e cattivi?”; mai affermazione fu vegeta come in questa occasione, quando sul lettore stereo passa il debutto dei lombardi The Doggs, “Red Session”, ed è una session veramente rosso sangue, laida drogata in grandeur e suonata con i controcazzi come poche in circolazione, otto tracce che fanno ottovolante tra le schegge taglienti ed infettanti del garage punk Stoogesiano, le latrine infime e ricettacoli di rock’n’roll putridamente da amare fino all’ultimo sviso e tutte quelle devastanti depravazioni soniche di chitarre con la bava e poghi tra pozzanghere di piscio che si fanno acqua benedetta di energia e lurido splendore.


The Doggs non fanno nulla per far trasparire che sono italianissimi, tanto è la forza e la perfetta sincronizzazione d’insieme che li fa passare per una vera garage band che bazzicava l’incrocio della Bowery street e gli scalini sconnessi del CBGB’s sull’Lower East Side di una Grande Mela con i bacarozzi tatuati, un power force che esplode senza ritegno in cui un Iguana pare frequentare l’intera tracklist come uno spirito ossesso, scarno e magnifico, un dio tutto vene e deliri che ispira la band come aria da respirare, e risputare fuori; Marco Mezzadri voce/basso, Christian Celsi chitarra e Grazia Mele batteria, mettono in atto fuzz grezzi, pelli violentate e timbriche dall’alito alcolico a mille, una perfetta forma suggestiva che – se ti ci metti di fitto - ti fa sentire anche odori e vedere mosse in una “tangibile” e veritiera temporalizzazione della scena rock-punk fine 60/70, spasimi ambigui alla T-RexWild boys”, il glammy dei New York Dolls Drugstore”, il Lou Reed ancheggiante in cerca d’amore “I got erection”, “Destruction of love”, una raffica di ampere e “cattivissimi consigli” da adottare immediatamente come protezione divina.


La personalità di questo quartetto “vintage” è strabordante e straniante, una particolare riserva di espressioni e cadenze che non si limitano e fermano a “rifare il vezzo” alla grande destrutturazione amplificata generata in quella idrovora cannibale storica del Garage, ma lo interpretano, appunto, a sangue e tormento in questa Red Session che lascia il segno inconfutabile di una lettura veritiera e passionale della più bella ed infetta malattia che uno si auspica di prendere ogni momento della propria esistenza, e come a dar forza a queste parole arriva - trascinandosi col passo pesante di un doom Velvetiano - la forma acuta di questo male “Wax doll”, e allora si che puoi prendere in considerazione il buio pesto come fonte assoluta di luce chiassosa.


Per indiavolati fan dei distorsori Seventies è in arrivo una manna senza fine.


Voto: ◆◆◆◆
label: Autoproduzione

mercoledì 17 ottobre 2012

Eva Mon Amour - Lo Specchio e L' Aspirina (Recensione)

Li abbiamo lasciati solo un anno fa con l'Ep “La Malattia Dei Numeri”, cosi tornano gli Eva Mon Amour a guarirci con “Lo Specchio e l’Aspirina”.
E di sicuro tornano in grande stile, (una garanzia quando il nome è Eva), con la partecipazione di Fabio Fraschini al basso e Rodrigo D’Erasmo al violino, e con un primo posto nella classifica di Keep On delle migliori live band italiane.
Disco che viene alla luce non solo con la loro apprezzata impronta rock, ma che vede una naturale fusione di stili, dal pop al folk al blues, a cui la band di Velletri arriva dopo un maturo percorso, soprattutto interiore, che costa ad ognuno di noi mille domande. Domande a cui si fa fatica dare una risposta, se non si ha ben chiara la propria identità, se ancora si è intrappolati in una realtà dove scendere a patti con se stessi e con le regole è quasi d’obbligo per riconoscersi nel riflesso dello specchio che si ha di fronte.
Non c’è da meravigliarsi se ognuna delle dieci tracce una volta ascoltate, resteranno in testa almeno fino al prossimo ascolto.
La prima “Si stava meglio prima” impreziosita dal violino, con il suo tono pop ci regala sfumature tanto energiche nella intro, quanto malinconiche sul finale. Una canzone completa a tutti gli effetti, scelta forse ad hoc per la presentazione dell’album.

Ma l’introspezione continua nel ritmo folk di “Ci piace”, quasi testamento dell’italiano medio, in cui la contemporanea “celebrazione-critica” di usi e costumi può essere riassunta nell’ironica frase chiave: “Ci piace il turismo se il sesso è sicuro”. Certo, è proprio sull’onda dell’analisi delle maschere che gli Eva Mon Amour  continuano nel loro percorso musicale, con una fugace lettura pirandelliana di “Uno qualcuno”  in cui il ritmo spensierato viene usato quasi come alibi per affrontare tematiche che ancora interrogano.
Ed è a quasi metà percorso che si inizia ad intravedere il blues a cui approdano, con “Pensare fa male alla pelle”,  rimato e crudele ritornello di una realtà che appartiene a quanti ancora non riescono a slegarsi da questo tormento, e “Sei dove guardi” in cui non si può fare a meno di fischiettare insieme all’armonica che lascia lentamente il passo alla chitarra elettrica.
Poi “Parliamo d’altro” con una serie di pensieri slegati, ma che a fissarli bene sembrano tutti accomunati non solo dalla considerazione che bisogna stare attenti a qualsiasi cosa si dica, ma anche dalla voglia di volersi liberare da questa paura.
Il finale risulta, a parte la title-track “Lo specchio e l’aspirina” in cui il folk la fa da padrone con un ritmo che è difficile da seguire, un suggestivo inizio (“Nascondigli per cani”, “Ti chiederò domani”) in cui dolce poesia echeggia tra chitarra e violino, della dolce ballad  “Tutta la verità sulla verità”, che chiude a suon di armonica e pure riflessioni su ciò che resta alla fine di questo intenso viaggio, di sicuro non iniziato da Malpensa.


Se anche voi non avete ancora trovato risposta alla domanda iniziale “Si stava meglio prima”, beh dopo l’ascolto di questi dieci riassunti e dopo un sguardo allo specchio, possiamo affermare di no. Si sentiva infatti il bisogno di un ritorno come il loro per poter dire: “Si sta meglio ora con questo cd nel lettore.”

Voto : ◆◆◆◆◇
Label : AlaBianca Record







martedì 16 ottobre 2012

Pierpaolo Lauriola - Polvere (Recensione)

La polvere e il tempo, come sedimentazione volatile che non copre, ma conserva sotto tutto quello che magari non vogliamo vedere o che – per un anelito della vita interiore – vogliamo preservare dal logorio della visuale quotidiana, è l’elemento primario di questo bell’esordio “Polvere” del cantautore pugliese Pierpaolo Lauriola, che non solo teneramente travolge, ma abrade come una esfoliazione leggiadra quello che ci teniamo dentro come zavorra, un disincanto poetico che l’artista con una chitarra intima ed una sfilza di pensieri interiori ricama e restituisce al mondo sottoforma di canzoni in evidente stato fascinoso.

Un manifesto sonoro che comprende canzoni di ieri rivisitate nell’oggi, pezzi alcuni registrati in studio altri nella versione acustica self-made nella propria casa, pezzi, canzoni, volumetrie e cantos personalissimi che fluiscono in una sequenza musicale di immagini ed emozioni a contrasto, intriganti e a loro modo amaramente ribelli; temi sussurrati, urlati che si fanno compagni in un bel susseguirsi di melodie agre, vibrazioni come pagine bianche dove scriverci su quello che passa in un dato momento, un disco dedicato a momenti diversi o a considerazioni in cui a morirci dentro per rinascerci più in la sembra un gioco da ragazzi; l’ansia di un effetto autunnale come la vita che passa “La carne del tempo”, il lento caracollare speranzoso di “Ci consumeremo in un abbraccio”, i tocchi armonici appena sfiorati sopra open chords ariosi “L’alternativa”, “Sogni e segni”, ed il fiato elettrico che anima la bella “I silenzi”, fanno parte della visione e scansione del tempo che l’autore Lauriola disegna con precisione ed una irresistibile esposizione tra le maglie di questo ottima partenza solitaria, partenza che la dice tutta su quella che in futuro già pare essere una delle nuove forze delicate del nuovo, prossimo, cantautorato di casa nostra.


La polvere è fastidiosa se lasciata a smarrirsi in mezzo al destino, se “ascoltata” come in questo disco diventa la cosa più toccante e bella che ci possa essere in “circolazione”.



Voto: ◆◆
Label: Autoproduzione 2012

lunedì 15 ottobre 2012

Mondo Generator - Hell Comes To Your Heart (Recensione)

Toh guarda chi è uscito dal limbo: i Mondo Generator. Ne ha passate la formazione capitanata da Nick Oliveri, il sosia di GG Allin che ce l'ha messa tutta finora per cercare di essere al livello dell'illustre predecessore ma che si è dovuto finora accontentare di svariate denunce e cambi di lineup dovuti un po' al suo carattere e un po' alla sua ubriachezza molesta, motivo per il quale durante un tour gli altri membri della band lo avevano piantato in asso. Lui non si è mai perso d'animo, si è fatto un giro per il mondo coi vecchi amici dei Kyuss e si è ritagliato una carriera “acustica” buttando fuori l'album Death Acoustic e l'ep Dog Food, a nome Mondo Generator ma in cui appariva solitario ad urlare con un'acustica in mano fra cover e pezzi nuovi per 7 brani su 8. Ora Hell Comes To Your Heart arriva a coprire una lacuna di anni, ma sarà all'altezza dei primi episodi? Sgombriamo subito il campo da eventuali dubbi: no.
Registrato velocemente negli studi del di nuovo amico Josh Homme il nuovo disco dei Mondo Generator sembra riprendere il discorso più dell'ultimo Dead Planet che del precedente A Drug Problem That Never Existed, scorrendo sparato dall'inizio alla fine senza particolari invenzioni nel mezzo. La partenza con “Dead Silence” e il suo ritmo spezzettato e coinvolgente è anche promettente, ma ci si perde presto fra arrangiamenti banalotti conditi dalle urla onnipresenti di Nick, da una batteria che non fa certo del suo meglio per fornire energia al risultato complessivo e da una registrazione la cui qualità non è all'altezza delle aspettative. L'esempio più evidente lo forniscono “This Isn't Love” e “Smashed Apart”, brani già editi in Dog Food e che perdono il confronto con le controparti acustiche nettamente, nel caso della prima anche a causa di una registrazione anche più bassa del livello generale. Nick e compagni sembrano la copia sbiadita del gruppo che dal vivo riesce ancora ad impressionare (chi era al Magnolia nella loro ultima discesa italica può confermare), e brani come la scialba “Central Nervous System High School”non possono reggersi solo sul cantato a squarciagola di Oliveri, che dopo un po' viene addirittura a noia: “Hang'em High”cerca di alzare il tiro con un po' di ritmo in più, “Won't Let Go” ci mette dei suoni più scuri della media, “Night Calls” prova tardivamente a riciclare in maniera fin troppo simile la ricetta della traccia d'apertura, ma alla fine di questo album probabilmente rimarrà nella memoria dei fans più la conclusiva “The Last Train”. Perchè? Beh, potrebbe essere l'ultima occasione per sentir suonare e cantare nello stesso pezzo Josh Homme e John Garcia, che dopo aver fatto sperare tutti i fans dei Kyuss in una reunion al completo han deciso di litigare di brutto e di portare il proprio livore in tribunale o quasi.

Godetevi la chitarra dell'uno ed i cori dell'altro, i bei tempi son finiti e questo Hell Comes To Your Heart cerca di dimostrarlo ancor di più con questa conclusione: divertitevi con questi 12 pezzi, ma la nota più lieta che sentirete non esce dai brani perchè è una nota di speranza, quella di vedere almeno il buon Nick dal vivo dalle nostre parti quanto prima.

Voto: ◆◆◇◇◇
Label: Mondo Media



venerdì 12 ottobre 2012

Brahaman - Anche il più ottimista (Recensione)

Titoli, moniker, messaggistiche subliminali, tutto quello che ogni disco impronta sulla propria facciata sono sempre fattori che sotto rivelano l’attitudine di quello che ha da dire, urlare, accarezzare o bisbigliare. “Anche il più ottimista” esordio dei Brahaman – band che unisce forze musicali siciliane, pugliesi e lombarde – non è da meno, si avverte l’urgenza nuda e cruda, spoglia e ribollente di esorcizzare sangue caldo, nervi tesi, furori a malapena contenuti, e la lezione degli Afterhours (con un Manuel Agnelli che è presente in “Superbia”) si sente forte e chiara, ma non può essere additata come vetrofania sonora, bensì come spiritualità al seguito di una voglia di celebrare il rito sanguinante del rock in buona compagnia.

Muri di suono e pareti di melodia si danno il cambio senza invadersi, rock cantautoriale e cantautorato in rock convivono con chitarre lessanti, fiati, ritmiche e poesia in una stesura vertiginosa quanto dolce, colpiscono particolarmente gli umori incredibili cha la band giostra come in un impossessato sottofondo dell’anima, conservando dentro lo spirito ribelle e la sfrontatezza vincente di chi ha dire, raccontare e maledire quello che non va, quello che rompe veramente il cazzo; undici precisioni soniche che sollevano una tracklist all’inevitabilità della ragione, undici considerazioni che guidano chi ha voglia di dare una forma compiuta e “finita” alle coscienze e alle distratte verità che frammentano egoismi e riflessioni a metà.

Oltre lo spirito punkeggiante che rivisita una caposaldo di De AndrèLa ballata dell’amore cieco”, la sensazionalità leggiadra della ballata a punta di penna di “Urlo” (estrapolata dalle fantasticherie di Ginsberg), c’è un mondo sonoro da tratteggiare, appunti elettrici, crescendi, planate e occhi acuti, bella la linea rarefatta e di frontiera di “I film di Francesco” nella quale l’attore Francesco Nuti viene stigmatizzato, l’ansia disincantata che esplode nelle vene gonfie di “Un mercoledi” o l’acquerello acustico della titletrack che fa cerniera a questo ottimo lavoro discografico, simbolo, odio, sogno, simbolo e sgolamento di splendore e declino verso una società, un disco – questo dei Brahaman – in cui anche il più ottimista degli ottimisti danza come un guerriero folle sulle rovine del mondo.

Magnifique!


Voto: ◆◆
Label: Seahorse Records




giovedì 11 ottobre 2012

Soulcè & Teddy Nuvolari – Sinfobie (Recensione)

Punto di partenza: hip-hop. Destinazione: da definire. Ad un primo ascolto l'esordio discografico di Soulcè e Teddy Nuvolari lascia un tantino interdetti, forse perchè solitamente da un disco hip-hop sai grosso modo cosa aspettarti: beat in quattro quarti che deflagrino i padiglioni auricolari e metriche stilose che carpiscano l'interesse. Non che questi elementi siano assenti, ma "Sinfobie" non è esattamente un disco hip-hop. Almeno, non solo. Al di là delle marcate influenze soul e jazz di cui questo disco è indubbiamente debitore, rielaborate con padronanza e stile da Teddy Nuvolari e da una nutrita presenza di validi musicisti, spicca una chiara vocazione di Soulcè per la canzone d'autore. 

Oltre a numerose tracce più classicamente hip-hop, trovano infatti posto nell'album brani fiabeschi, altri onirici, preghiere strampalate, elenchi di buoni auspici, pezzi romantici e poesie. In questo c'è da rimarcare la perfetta intesa tra i due autori che per ogni canzone sono riusciti a trovare una giusta combinazione tra testo e musica. Non che manchino momenti davvero poco convincenti su entrambi i piani, sia chiaro, ma "Sinfobie" ha il pregio/difetto di crescere con gli ascolti. Superato infatti quel primo momento di incertezza al quale accennavo all'inizio, ci si rende conto che ci viene richiesto di ascoltare il disco con semplice cuorisità, senza la pretesa di trovare necessariamente un messaggio da far proprio od un flow da vincitore di competizioni rap. Di Soulcè sembra trasparire una sincerità d'animo che se per alcuni può suonare banale, ad altri trasmette invece un'intimità non trascurabile. Passando in rassegna alcuni brani, sul versante più propriamente hip-hop spicca sicuramente la title-track, forte di un irresistibile groove funk-soul (siamo dalle parti di J Dilla), alla quale spetta di diritto il compito di rappresentare l'album. E ancora, Colori prende liberamente spunto dal libro di Carlo Lucarelli "Almost Blue", romanzo che a sua volta deve il titolo ad uno dei pezzi più amati di Chet Baker, il probabile 'Dio del Jazz' evocato poche tracce più in là dallo stesso Soulcè. Araba Scalza è un'altro pezzo di tutto rispetto, giocato su di un piano quasi onirico tra malinconia, sensualità e il desiderio di alzarsi in volo. Cambiando coordinate, colpisce il funk lunare di Figli delle Statue (vengono in mente Jamiroquai e Plant Life), con i featuring di Smania Uagliuns e Janahdan ed un testo al limite del nonsense; il tutto vira poi nella dance di un ritornello che suona a metà tra omaggio e parodia del tormentone di Alan Sorrenti (Figli delle Stelle, per l'appunto). Pupazzo di Ruggine è tra i momenti più bizzarri dell'intero disco, considerando il testo fiabesco e la musica che lo sostiene: una fanfara ed un ritornello di voci femminili che sembrano uscite da una radio degli anni 30 o 40. Quartetto d'archi e pianoforte accrescono invece la visione pacifista di Giocattoli, brano che soffre forse di una certa ingenuità ma che, se ascoltato senza pregiudiziali, sa restituirci almeno in parte la bellezza di un'utopia. 

Chiudendo come invece l'album inizia, Abat-Jour è una sorta di ninna nanna che racconta di desideri e sogni ad occhi aperti fatti prima di andare a dormire, dei buoni auspici per la notte, o meglio, per il risveglio. Un'ultima annotazione è per il buon artwork con le illustrazioni di Antonio Rom Sortino, in cui Soulcè e Teddy Nuvolari viaggiano attraverso suggestioni, sogni ed incubi suggeriti dalle canzoni.

Voto: ◆◆
Label: Soulville

mercoledì 10 ottobre 2012

William Manera – I miei omaggi (Recensione)

Un piccolo genio sta arrivando tra noi comuni mortali? C’è da crederci a sentire questo poetame smaliziato a quattro metri oltre i fili della luce e a dieci dalla nostra immaginazione terra a terra, una quantità accompagnata a qualità che si traduce in un ottimo disco, “I miei omaggi” del cantautore siciliano – ma bolognese d’adozione – William Manera, dischetto dall’assetto piuttosto peculiare, con l’inclinazione a trascendere i generi grazie a uno stile commisto, sarcastico e “racconteurs” a modo proprio, un cantautorato che macina swing, rock’n’roll, blues isoscele, jazzly snodato e tutto quello che occorre per tenere l’ascolto sintonizzato e senza distrazioni di sorta dalla prima all’ultima canzone.


L’artista Manera si guarda intorno, lucida follia che scava tra pregi e difetti del mondo a corto raggio che lo circonda, poetica urbana acida quanto cara alle sensazioni casalinghe, di ballatoio o di quartiere e con in mezzo santi, navigatori, malefatte e donne immaginabili a fare da “farcia” a queste storie Marcovaldesche coloratissime che in fondo ci fanno capire che c’è ancora molto da dire se in circolazione tornano questi “straordinari scribacchini di favole reali” in dischi come questo; la sensazione di essere di fronte ad un debutto importante è forte, qualcosa che ha il sapore acidognolo di un segno duraturo; non sono solo impressioni dentro, ma anche a sangue caldo per via di quegli asterischi lirici che colpiscono al centro delle emozioni, il pianoforte che ricama forte la speranza di un sogno interrotto ma non distrutto In mezzo al mare(dedicata a Falcone e Borsellino), le diseguaglianze calorose nella società dei magnaccioni Libero, Agosto in ufficio il tocco di una tromba da avanspettacolo che ritma Tra le mensola e il muro o il blues/honky che descrive il naso come ricettacolo di tutto ma anche come antenna direzionale di una corporalità sagace e double face Il mio naso, una manciata di canzoni che non sono altro che il manifesto di una personalissima cronaca temporanea messa in circolazione per girare a lungo, per far riflettere, divertire ed arricchire una già tanto povera illusione di vita.


William Manera è un grande equilibrista della parola messa in musica che si nasconde artisticamente dietro uno strampalato mondo originale, non lasciamocelo sfuggire, è materiale prezioso per capire cose e ancora cose.


Voto: ◆◆
Label: Magister Recording Area 

martedì 9 ottobre 2012

Przewalski - Fosse Per Me (Recensione)

Io abito nei boschi che credete ancora vostri, resto sempre ad osservare a chi non voglio somigliare.

I Przewalski (ne parlammo già a suo tempo qui) sono un gruppo che dipinge la realtà senza badare al grado di sporco che offusca la vista, senza farsi schiavi di quella dicotomia cromatica che declassa il grigio a colore senza personalità. Ne esplorano le mille sfumature, ruvidi come la carta vetro e duri quanto una matita: un’anima di carbone che si spezza rivelando una fragilità quasi tenera. Fosse per me è un lavoro che svela le malinconie nascoste: grunge acustico e non, psichedelia, il prezioso contributo di archi e fiati, e la rabbia acida di un Beethoven bambino che distrugge il suo primo pianoforte. La cattiveria è edulcorata dalle fughe spazio temporali, dalle ombre tristi del corteo funebre che è il nostro essere e apparire. La voce di Luca Radaelli è quella di chi fuma troppo: abbaia e morde pure se necessario. Non c’è tecnica, ma solo il puro vibrare di corde vocali senza alcun controllo se non quello dell’emozione che fluisce libera, senza scalfire la dolcezza di alcuni momenti. La musica tocca apici di disperazione, disagio, rabbia.. ombre cristalline e vellutate che nuotano in un mare in tempesta, con lo sporco che si annida nei polmoni e la voglia di vivere che le tiene a galla fino all’ultimo secondo. Per scivolare, storditi, in un sonno senza sogni né desideri, sulle note di "Transumanza" o tagliarsi le vene con un frammento di specchio opaco come "Angie".

Questi dieci pezzi hanno una maturità acerba e quasi finta: l’apparente ricercatezza nasconde invece un animo in subbuglio che si rifugia nei paralogismi per scacciare tormenti ormonali. Fosse per me è una sorta di rito di passaggio, un excessus menti verso la scoperta di se stessi, un fuoco fatuo che brilla a seconda del terrore di chi lo osserva. Attendo con ansia il prossimo capitolo.

Voto: ◆◆
Label: Autoproduzione


lunedì 8 ottobre 2012

Boris - Per Pura Comodità Ep (Recensione)

“Per pura comodità” è il progetto in solitaria per il ligure Boris, al secolo Boris Romella, cantautore gigione ed intimo che non si arrovella su equilibrismi ermetici o posizioni idealistiche, racconta la sua quotidianità metafisica, il suoi collegamenti ad una virtuale luna con un fare semplice e nell’essenzialità di uno sfogo “dolce”, favole urbane e poetiche da gatti sui tetti che si innamorano perdutamente di certi fil rouge già srotolati dai tratteggi di un Niccolò Fabi, Daniele Silvestri, più in la un Max Gazzè sornione, quattro pezzi immediatamente fanno notare un difetto imbarazzante; piacciono a presa rapida.

Ep questo di un’estetica delicata, spennata con quella malinconia simpatica, uno scorrevole resoconto di piccoli interrogativi, fotografie di amori ritagliati, sfighe innocenti ma anche disillusione presa con intelligenza, una tracklist cortissima che arricchisce anima e spirito, naif come una pioggerella su di un fumetto che fa pensare; un ascolto che si può collegare a letture di Benni, Calvino, una visione che si infiocchetta come gli omini di Folòn o un colore che si potrebbe abbinare benissimo al celeste carta zucchero, tutto sembra un plaid che ti coccola e fa sognare attraverso vetri appannati.

Il borbottìo di un basso che insegue la dispettosa stoppata di chitarra "Temporali estivi", la ballata rotonda che fa domande senza risposte "Pura comodità", l’immaginifico dell’affabulazione "Ezechiele" o il sentimento nebbioso confidato alla sincerità di una tromba amica "Marzapane", sono la gamma precisa di un qualcosa che brilla insolente tra il nuovo cantautorato underground, e questo artista è il portavoce genuino di un suonato e cantato che sta alla larga dalle omologazioni modaiole preferendo tenersi stretto, in qualche tasca, quel chilogrammo di fantasia vincente che altri, in tanti, molti, hanno abbandonato.


Voto: ◆◆
Label: Autoproduzione

sabato 6 ottobre 2012

Swans - The Seer (Recensione)

Ho ascoltato questo ultimo opus maximum della setta di Michael Gira con ancora nel cuore e nella viscere la performance degli Swans dell'anno scorso al Primavera Sound di Barcellona. Un'immensa massa sonora a notte fonda tutta costruita sui interminabili intro e infinite outro, tutte devastanti e debilitanti, ma immensamente catartiche. Non ricordo assolutamente nulla di cosa abbiano suonato l'anno scorso, ricordo solo l'intensità di ciò che sparavano in faccia in forma di decibel a me e a migliaia di pellegrini adoranti. Ritrovo quella intensità in questo nuovo capitolo della saga Swans, spalmata in due ore di musica (doppio cd e triplo vinile!) capace di comprendere di tutto (noise, folk apocalittico, classica, etnica, contemporanea, ricerca, industrial, musica devozionale e quant'altro). Ritrovo quella performance di un anno fa soprattutto in "The Seer", 32 minuti, e in "The Apostate", 23 minuti, ma non solo, ovviamente. "The Seer" è il risultato di 30 anni di lavoro di ricerca sonora ed emotiva, come afferma lo stesso Gira. Il culmine di tutto ciò che ha prodotto musicalmente Michael fino ad oggi. Capace di attraversarne ogni sfumatura e ossessione, ma senza porsi assolutamente come il capitolo finale, anzi come un qualcosa di incompiuto, di necessariamente incompiuto e sfuocato che ha attraversato molteplici passaggi per arrivare ad essere inciso. E che ne attraverserà molti altri una volta che sarà riproposto su un palco, forse mutando, forse disfacendosi o forse arrivando all'oblio e ritornando da dove è arrivato. Aspettatevi tutto ciò che potreste aspettarvi da un'opera del genere: essere spossati, annoiati, emozionati, disturbati, illuminati, inquietati e quant'altro, basta che sia qualcosa di forte e profondamente intenso. Dal melstrom di "93 Ave. B Blues" alla dolcezza di "The Song of a Warrior" con Karen O degli Yeah Yeah Yeahs (altri ospiti: Low, Ben Frost, i fidi Angels Of Light, Akron/Family, la rediviva compagna di avventure Jarboe, a completare l'aura mitica dell'operazione, il cello di Jane Scarpantoni e molti altri). E non si tratta di prolissità spalmare "The Seer" su due ore di durata, ma di necessità. Di prendere o lasciare. Di accettare di partecipare al rito del profeta fino alla sue estreme conseguenze. Di arrivare fino all'eresia finale, all'illuminazione, attraverso il suono, la musica. E poi di ricominciare da capo, senza timore. Ma solo grande ammirazione e venerazione. "Despite what you might have heard or presumed, my quest is to spread light and joy through the world. My friends in Swans are all stellar men. Without them I’m a kitten, an infant. Our goal is the same: ecstasy!" (Michael Gira). E che estasi sia!

Voto: ◆◆◆◆◆


venerdì 5 ottobre 2012

Muse - The 2nd Law (Recensione?)

Lasciamo il giudizio ad uno che ne sa a pacchi.

Voto:◆◇◇◇◇
Label: Warner Music Group

giovedì 4 ottobre 2012

Supernova - S/t (Recensione)

I livornesi Supernova non scherzano affatto, e a supporto di questa affermazione arriva il loro debutto omonimo che prova a mettere nero su bianco l’intenzione sonora di bucare l’attenzione o quanto meno “scalfire” anche i più scorbutici aficionados del rock d’ultima infornata; ora sul destino della band nessuno può metterci una cambiale, ma a tendere orecchio e pazienza su questo registrato spalmato su nove inediti più la cover di “Ordinary world” dei Duran Duran, qualcosa pare smuoversi, ma non è ancora sufficiente per poter scomodare nessuna delle miracolistiche di prassi.

Un disco a due marce, per una parte abbraccia gli anni Novanta dell’underground italiano, al centro delle vertigini di stampo Karma, Anhima “Splendido”, “Così incantevole”, la magnifica cavalcata filo-grunge Malfunk style “La giostra” poi tutto sversa la propria energia in un rock classico, a presa rapida, con quella radiofonicità alla StadioColpevole”, “Ormai è tardi”, che è poi una sterzata audace che fa perdere l’equilibrio al lotto e, momentaneamente, anche all’ascolto generale; dieci esplorazioni sonore agitate, con le vene gonfie e con quel senso compiuto di “show”sulla realtà che vede la band in un insieme architettonico di buon livello, di intendimento perfetto con il mestiere “dello strumento” e dell’impeto amplificato.

Il quintetto dei Supernova non fa un disco con il carattere del riempitivo, piuttosto un disco che ancora vaga alla ricerca di uno stile personale, una tracklist in cerca di orientamento, un rock ed un pop che litigano tra di loro e che spingono l’orecchio a dividersi se non addirittura a fregarsene – sulla corta distanza – di dare ancora una chance in più al repeat dello stereo; comunque una certa classe viene indubbiamente dimostrata, un’occasione giusta per apprezzare una voce stupenda e una buona capacità atmosferica totale “Colpevole”, “Paura e meraviglia”, ma il nodo rimane sempre quello: rock selvaggiamente sfrangiato o sintomi sonori festivalieri? La prima opzione è quella che avremmo preferito, quella “ che le suona a tutti, a tanti”. Alla prossima.

Voto: ◆◆
Label: Autoproduzione

Licenza Creative Commons

 
© 2011-2013 Stordisco_blog Theme Design by New WP Themes | Bloggerized by Lasantha - Premiumbloggertemplates.com | Questo blog non è una testata giornalistica Ÿ