sabato 30 marzo 2013

Seditius - Misplaced (Recensione)

Alla terza prova i brianzoli Seditius continuano il loro percorso di avvicinamento al blues. Blues marcio e che è saturo di hardcore e sludge. O meglio, dovrebbe, forse, essere più sludge, diciamo, perchè così come si presenta con questo nuovo EP, ne esce una band grintosa e potente ma che ancora non ha trovato un suo suono, più che una sua forma. La forma è quella di un bluesaccio sguaiato e urlato, di un rock'n'roll garage paludoso, di un elettricità rock che ti spintona a dovere ma ancora non ti fa cadere dalla sedia, ancora non ti fa saltellare per la stanza contro i mobili, possibilmente sfasciando qualcosa. Ma questa anima distruttiva e nichilista è di certo li, da qualche parte  (di sicuro si esplica nel modo più compiuto durante i loro live, soprattutto quelli all'estero!), ancora timidamente nascosta in un suono ancora troppo classico, dove i bassi pulsano ancora poco e le chitarre non sono ancora abbastanza sature e acuminate. Batteria e voce ci sono, ma anche loro devono sottostare a questo lo-fi che ne debilita un po' le spinte violente, le àncora a terra. In questo senso spaccava di più il precedente Carne da Macello come suono. Quindi possiamo definire questo Misplaced come un bel ripasso della tradizione (c'è anche un'organetto che razzola piacevolmente qua e là) nell'attesa che le due anime dei Seditius (quella più fangosa e hardcore e quella che fa l'occhiolino al blues) possano ricompattarsi in un qualcosa di più adeguatamente massiccio e ispirato, squassante e punk! E poi io in futuro ci butterei dentro anche qualcos'altro in italiano, alla fine gli episodi di questo tipo in Carne da Macello erano più che convincenti. L'EP è scaricabile gratuitamente dal bandcamp dell'etichetta.


Voto: ◆◆◆
Label: Rancore



venerdì 29 marzo 2013

Depeche Mode - Delta machine (Recensione)

Uno dei ritorni più attesi del 2013 è quello della celeberrima stella dei Depeche mode, creatura ultratrentennale simbolo del synth pop di consumo la cui evoluzione ha regalato al mondo della musica tante perle che ancora oggi vengono ascoltate in ogni dove. Questo disco è stato fortemente atteso dai fan in quanto il combo inglese, ad ogni release, lascia presagire lo scioglimento, e anche qui non si fa eccezione. La notizia di un nuovo tour prima e di un nuovo full length poi ha risvegliato le aspettative, molto forti, verso i nuovi brani cantati da Gahan e celebrati musicalmente da Martin Gore e da Andrew Fletcher, tre figure che si completano e che formulano il famoso e inconfondibile depeche sound.

Questo ultimo lavoro rappresenta una ulteriore evoluzione rispetto al passato per via dell'influenza infusa da parte di Gore dopo l'esperienza VCMG con lo storico ex tastierista Vince Clarke, che diede vita a Ssss del 2012, prodotto da Mute. Quella che oggi viene chiamata sempre più spesso con il termine EDM ovvero electronic dance music, in particolar modo generi come la techno e l'house, che fecero la fortuna del side project tra gli appassionati, sono riscontrabili in molti brani, velatamente - ma non troppo - in "Angel", fortemente in "My little universe", che è quasi un pezzo "micro house". Altrove l'elettronica si pone a metà tra i suoni degli album precedenti e alcune cose sperimentate da Reznor con il disco di How to destroy angels come nella opener "Welcome to my world", uno degli episodi più importanti del disco, altrove ancora il synth pop, genere portante, viene riletto in chiave moderna ed intelligente in "Alone", così come nella maggior parte degli episodi. Quel che stupisce maggiormente è l'eterna voce di Gahan, sempre al massimo della forma che anzi qui sembra tornare alle prodezze di alcuni lavori novantiani, allo stesso modo in cui Gore e Fletcher ma in particolare il primo cerca nelle sperimentazioni nuovi modi di ricreare un suono in eterna evoluzione riuscendo nel suo intento e consegnandoci dei brani nel pieno stato di grazia di una band che sembra non sentire affatto il peso delle generazioni.

Certamente i Depeche sono una creatura molto differente dai tempi di "Speak and spell" ma questo è un grande motivo di orgoglio e di soddisfazione per chi ancora riesce a toccare tutte le corde dell'anima, così come un tempo ancora oggi. Il primo singolo estratto, "Heaven", oltre ad essere un ottimo brano ha una funzione fondamentale all'interno del lavoro che è quella di spezzare i ritmi che, dall'opener, vero capolavoro intimista, prosegue imperterrito con la succitata Angel tra suoni duri, vocal rap e aperture melodiche di grande enfasi. "Secret to the end" è la prossima potenziale hit single, dal refrain coinvolgente, musicalmente d'effetto e non troppo complessa. "My little universe" è, come detto prima, il brano sperimentale di Gore, uno dei più importanti e di maggiore rilievo, seguito da "Slow", musicalmente una idea semplice ma sviluppata bene, caratterizzato da da un refrain intelligente che rimanda ai lidi di "Songs of faith and devotion", senza però possederne l'oscurità. Si prosegue con episodi di alto livello misti ad altri lievemente meno ispirati, anche a causa dei tredici brani che sono davvero tanti. Se "Broken" non spicca particolarmente, "The child inside" è una track vellutata ed emozionante ma già sentita, episodi come "Should be higher, Soothe my soul" e "Goodbye", nella loro complessità riescono ad aprire nuove porte agli inglesi e sono i brani più rilevanti. "Delta machine" è un lavoro dalla doppia personalità: sebbene tutti i brani siano molto emozionanti e questo è quello che ci si aspetta principalmente dai Depeche mode, quelli più complessi prendono in prestito i vecchi lavori mentre quelli più semplici proseguono sulla scia del disco precedente "Sounds of the universe".

 Cuore e cervello si sposano perfettamente nella durata di un lavoro un pò lungo ma che è candidato ad essere riconosciuto come un grande disco di una band inossidabile.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Columbia records

giovedì 28 marzo 2013

Granturismo - Caulonia Limbo Ya Ya (Recensione)

Lo-Fi, e anche Low Profile. Strana creatura questi Granturismo, che registrano in pochi giorni gli 11 pezzi di questo album e fin dalla traccia iniziale “Me Ne Vado Al Mare” fanno capire di prendersi poco sul serio. L'impressione iniziale è di trovarsi di fronte a qualcosa di volutamente ed eccessivamente sgangherato, in bilico fra garage rock piuttosto soft e atmosfere caraibiche a donare un po' di colore al cocktail sonoro, e servono un po' di ascolti per rendersi conto che non rappresentano una versione da spiaggia dei Wolfango. O almeno non solo.
Dopotutto di quell'aria scazzata e nonsense che caratterizzava la band milanese di fine anni 90 (riciclatasi in duo chitarra-voce-grancassa recentemente, chissà se sopravvivono ancora) si trovano tracce in più punti di questo Caulonia Limbo Ya Ya, e “Canzone Di Parole” è solo l'esempio più estremo con la sue distorsioni grezze ed il testo fatto di parole a caso a testimoniare che “sono ubriaco di parole per te”. In realtà però i Granturismo sono meno anarchici nei loro pezzi, il che toglie loro una dose di originalità che rimpiazzano con la varietà. Passare dalla malinconia a base di chitarre graffianti e tastiera di “Meraviglioso Errore” al pop ritmato dagli azzeccatissimi ritornelli ariosi di “Domenica” in un batter d'occhio è un bel sentire, e se ci si aggiungono le atmosfere rilassate e solari di “Distanze” e le influenze sixties di una “Non Essere Visti” a caso si capisce che la varietà stilistica non è un difetto imputabile alla band. Si può semmai porre qualche critica sui brani meno riusciti: la soporifera “Dubbi Dubbi” non riesce a bissare il buon risultato di “Distanze”, “Vieni A Dormire Con Me” è allegra in maniera contagiosa ma ti assale il dubbio che l'avresti potuta trovare nella colonna sonora di Io Sto Con Gli Ippopotami e “Può Darsi Sia L'Autunno” conferma che le pericolose influenze del trash anni 70-80 sono state sfruttate in parte nell'amalgama sonora del disco, con effetti non proprio positivi.

I Granturismo sono riusciti a creare un disco apparentemente disimpegnato ma che cela in profondità chicche nascoste sotto una ruvidezza realizzativa che di certo non giova al risultato finale. Caulonia Limbo Ya Ya non riesce così a mostrarsi più interessante della storia della Repubblica di Caulonia da cui prende il nome, omaggiata da un doppio inno, e che vi consiglio di approfondire per conoscere un piccolo ed interessante spaccato della storia italiana.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Brutture Moderne




mercoledì 27 marzo 2013

Radiodervish - Human (Recensione)

Altro giro altra corsa, tornano per cullarci in un ottimo viaggetto tra Mediterraneo ed il calore della world music, ma non solo, sarebbe riduttivo; quello dei Radiodervish è un percorso che dura da sedici anni sulle onde talentuose del racconto messo in musica, del cammino prestato alle immagini che Michele Lobaccaro e il palestinese Nabil Bay all’anagrafe Nabil Salameh ad ogni loro uscita discografica rilasciano con un pads emozionante e liberatorio, senza passaporto alcuno.

"Human” è il disco delle storie cantate, di quei miracolismi quieti e di trasporto in cui odori, colori, astri e umanità si mettono in fila per farsi ascoltare, uomini e fatti, una stupenda lettura di quello che c’è intorno a colpirci dentro e farci pensare, tremare o almeno prendere in considerazione che non siamo i soli a respirare; dieci tracce per un disco che si apre come sempre al mondo, cantato in italiano, francese e arabo e col cuore ingrossato quando i personaggi che “vi transitano” fanno parte della nostra contemporaneità, della nostra vita come “Stay uman” omaggio a Vittorio Arrigoni il cooperante ucciso a Gaza, la storia di Pippa Bacca, la performer uccisa in Turchia “Velo di sposa” o uno sguardo in tralice e speranzoso verso quella “primavere araba” immersa nel sangue e nelle faide “In fondo ai tuoi occhi”, tutte figure da non scordare mai.

E come sempre il bellissimo incontro tra strumenti occidentali e orientali, fremiti e poesia senza dogana che si confrontano nelle loro dimensioni, elettronica e tablas a ritmare soli e notti di una Mediterraneità senza confini, confini che i Radiodervish ci hanno sempre insegnato che non esistono, è tutta un’invenzione di chi vorrebbe ingabbiare pure i sogni o legare l’aria “Istambul”.

Un disco con una identità precisa negli anni, l’onestà e le sfumature d’agrumi in fiore.


Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Sony

martedì 26 marzo 2013

Ventura - Ultima Necat (Recensione)


Seneca
- “Omnes feriunt, ultima necat” -

Seneca il Vecchio allude al tempo, il succedersi irreversibile delle ore. Ciascuna porta la sua pena, la sua gioia, la sua esperienza. L’ultima uccide. Una frase che, nelle sue varianti, spesso veniva incisa sulle meridiane, o sui quadranti degli orologi.

Il Tempo della vita, un concetto così vasto, straordinariamente descritto con una sintesi disarmante. Oggi, dopo “solo” poco più di due millenni, tre ragazzi, dalla Svizzera, rievocano il pensiero del Retore tagliandolo di netto, con sfrontatezza, per gettarne via una parte e conservarne solo la Fine: Ultima necat – “L’ultima uccide”. Loro sono i Ventura e ne fanno il titolo del terzo album full length, in studio.

"About to Despair" introduce il disco con un accordo aperto di chitarra, un suono lontano e bagnato di riverbero, che mette in chiaro, fin dalle prime note, la distanza dai lavori precedenti. La band intraprende una strada indubbiamente più complessa, portando alla luce un amore incondizionato e già manifestato in precedenza per i The God Machine. Si scivola verso "Little Wolf", tra stratificazioni emotive e sonore profondamente articolate, perfette e fuori dal tempo. Il coinvolgimento è immediatamente totale e lo stupore è grande, come se il disco arrivasse da tutt’altro decennio e certamente non perché odora di vecchio,  la ragione è che suona meravigliosamente. L’impatto è violento e la sensazione iniziale si consolida minuto dopo minuto, portando con sé il dolore, la poesia e l’esperienza, esattamente come Seneca Il Vecchio ha descritto il susseguirsi delle ore.

La sequenza dei brani sembra avere un ordine imprescindibile, un filo rosso lega ogni istante al successivo, dando l’impressione di ascoltare un continuum, dalla prima all’ultima traccia del disco. È come un viaggio d’introspezione pura, attraverso la sofferenza più intima che dilania in modo costante, chirurgico e raccontata da un canto che non esplode mai, contrapposto a suoni tesi, sovrapposizioni perfette e multiformi, dure quanto fragili, che trascinano spasmodicamente chi ascolta, verso uno spannung estenuante e mai definitivo. "Nothing Else Mattered" allenta il nodo stretto da "Little Wolf" e avvicina quasi con cinismo "Body Language" e "Intruder". Slowdive, Codeine e ancora The God Machine, si annidano più o meno velatamente tra questi suoni, cuciti su strutture ritmiche quasi avant-rock e il risultato è stupefacente.

L’apice, il capolavoro di Ultima Necat arriva con una spietatezza agghiacciante, dal linguaggio del corpo alla mutilazione: "Amputee", soffoca. 11 minuti e 41 secondi di puro decadentismo letterario, visionario, disegnato ferocemente da un crescendo di angoscia, che fa leva sul convulso ripetersi di poche note. La speranza violentata per 6 minuti, poi la tregua apparente che trascina inesorabilmente verso l’oblio di un animo lacerato, fino alla fine del brano. "Corinne" non lascia il tempo di rialzarsi, arriva cambiando registro, decisa, meravigliosamente ossessiva, suoni più secchi e pesanti, drumming serrato, come una reazione che trova la sua naturale conseguenza in "Very Elephant Man". Una scomposizione ritmica degna degli Shellac che lascia spazio, senza arretrare del tutto, a suoni marcatamente shoegaze. Una meraviglia che accompagna verso "Exquisite and Subtle", l’ultimo solco del disco, una discesa in cui la tensione emotiva cede il passo a una tristezza talmente vasta da essere informe e tuttavia non del tutto rassegnata.
“Sottilmente” ferisce di più. Alla fine la percezione del vuoto è tangibile e l’istinto di ricominciare da capo è incredibilmente forte.

Atmosfere inaspettate. L’ultimo EP pubblicato dai Ventura nel 2010, lasciava presagire altri suoni e direzioni: “It's Raining On One Of My Islands / Le Petit Chaperon Beige” – follow up di "We Recruit", aveva addirittura richiamato “spontaneamente” e qui cito la band – “[...] In case he would like to sing on them. And not only did he, but he did [...]” - l’attenzione di David Yow [Scratch Acid, The Jesus Lizard, Qui], con risultati assolutamente notevoli. Un cambiamento, quindi, non un’evoluzione, che va premiato senza alcuna esitazione. I Ventura sono riusciti ad esprimere arte, decadentismo, angoscia, emotività con una spontaneità disarmante, senza esser patetici o magniloquenti, senza risultare banali, semplicemente con umiltà, attraverso un’incredibile urgenza creativa. Masterpiece.

Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Africantape & Vitesse Records.


lunedì 25 marzo 2013

Le Maschere di Clara - L'Alveare (Recensione)

La mia anima è una misteriosa orchestra; non so quali strumenti suoni e strida dentro di me: corde e arpe, timballi e tamburi. Mi conosco come una sinfonia. (F. Pessoa)

Citazione che ben si presta a descrivere l'esperienza d'ascolto de L'Alveare

Venuto alla luce dopo due anni dal loro ultimo lavoro con collaborazioni speciali (Dave e Andrea Battistoni), L’alveare è di sicuro l’album della maturità de Le Maschere di Clara, senza dubbio un progetto originale, meditato e intriso di grandi emozioni, quelle che solo grandi nomi della nostra letteratura possono ancora dare.
Un concept album, un alveare, dove in ogni cella è perfettamente sistemato un grande autore, dalla Merini a Leopardi, da Pirandello a Calvino, senza ovviamente dimenticare il padre della lingua italiana, Dante.

Si ascoltano cosi nell’ordinato ronzio caotico, voci, sonorità classiche e graffianti distorsioni, che regalano   al noise quell’inquietudine che stupirà quanti avranno la fortuna di vedere un loro live.
Un album che già dal titolo comunica quanto lavoro e quanta armonia ci sia dietro ogni canzone, un lavoro non solo creativo, ma anche introspettivo. Introspezione che nasce dalla volontà del trio veronese, di individuare le ingiustizie umane ed i sentimenti che ne scaturiscono, per poi trasferirli in musica, sognando un miglioramento degli animi, confidando in un loro scuotimento all’ascolto di tracce che prendono forza ed acquistano potenza, non solo grazie “all’orchestra”, ma anche grazie a poesie ed opere che già in passato hanno dato grande prova di rinnovamento.

Si parte dunque dalla Merini con la sua Rasoi di Seta, stimolante inizio per l’anima che crede nella forza della poesia e della musica,  e ribelle incedere di batteria che solo alla fine lascia spazio ad un inaspettato “canto” di violini.
Ma la musica del trio non è solo “cura”, è anche disincanto dei sentimenti e in A Se Stesso Lorenzo Masotto con “i sogni chiusi a chiave …… nel silenzio del tramonto all’orizzonte” continua a gridare, a parlare e giudicare lasciandosi alla fine morire, mentre fuori ancora nevica a ritmo di chitarra e violino.

Si potrebbe parafrasare all’infinito su questo album, e ciò che ne verrebbe fuori sarebbe un messaggio intriso d’anima, un’anima che vaga tra i fantasmi del passato come la guerra (Forse il cuore e Se questo è un uomo), ma un passato che è sempre presente, e che nonostante tutto ci invita ad aprire gli occhi per imparare a vedere l’invisibile.
Fantasmi che, anche se impiegano molto a svanire giovano in queste tracce di grandi cori e grandi orchestre per assicurarsi uno stile unico che è tutto, ma non è classificabile, nè catalogabile nelle numerose celle alveari  dei vari generi, forse perché è semplicemente cuore.

E il cuore palpita alla grande in Satura grazie al drummer Bruce Turri , accompagnato da un sound elettronico (basso/ Lorenzo Masotto) – (violino elettrico/Laura Masotto) e sfiorati dall’orchestrale Battistoni.

Ma le parole incise che forse tutti dovremmo cogliere sono le ultime, quelle che grazie alla voce di un grandissimo Gassman e una stridente intro, chiuderanno l’opera e naturalmente porteranno al risultato che di album cosi folli se ne vedono davvero pochi in giro.
In conclusione,  “Anche la follia merita i suoi applausi”. (A. Merini)

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Materiali Musicali

In Anteprima "A Se Stesso", traccia che anticipa l'uscita dell'album prevista per il 2 Aprile.
Un urlo di disillusione nei confronti dell'esistenza umana, ma anche la volontà di lottare con grande dignità.














sabato 23 marzo 2013

Mi Sa Che Nevica - Come Pecore In Mezzo Ai Lupi (Recensione)

Avevo scoperto i veneti Mi Sa Che Nevica ai tempi del loro primo ep, interessante musicalmente per l'energia profusa in un rock dal sapore smaccatamente nineties ma godibile anche senza essere a tutti i costi originale e, soprattutto, dal punto di vista cantautorale.

I testi di quei 5 brani erano piccoli gioielli, di quelli che passano inosservati perchè non contengono verità auliche ma si accontentano di poeticizzare la vita comune o di dare letture alternative di cose che diamo per scontate (tipo il mito del vampiro stravolto in “La Crisi Dei Vampiri”), con quel fare semplice che si discosta ad esempio dall'eroicizzazione dell'uomo comune di un Ligabue qualsiasi. Perchè in fondo i MSCN mantengono un'amarezza di fondo tipica del decennio da cui prendono ispirazione sonora, e che non si dissipa a distanza di anni in questo nuovo lavoro.
Come Pecore In Mezzo Ai Lupi è stato registrato in presa diretta da Matt Bordin dei Mojomatics, senza troppi fronzoli in modo da catturare l'energia di pezzi che riescono efficacemente a rimanere in equilibrio sul sottile filo che divide il pop dal rock. E l'energia c'è, si sente, ma la qualità sonora risulta essere croce e delizia per l'ascoltatore a causa di una scelta che è un'arma a doppio taglio: lasciare la voce di Walter alla mercè degli strumenti. Una decisione sicuramente efficace dal punto di vista dell'amalgama generale, ma che rischia di far passare inosservati all'ascoltatore meno attento i testi, che ancora una volta sono il punto di forza dell'intera produzione.

Amari, come quando ci fanno rendere conto che la generazione a cui vorremmo mettere in mano il mondo, la nostra generazione, fa spesso fatica anche ad organizzare la partita di calcetto (“La Partita Di Calcetto Infrasettimanale”), disillusi quando ci fanno voltare lo sguardo verso un cielo che “ha il colore della tv sintonizzata su un canale morto” (“Figlio Illegittimo Di Kurt Cobain”), ironici nel dipingere un mondo in cui va fin troppo di moda guardarsi indietro invece di guardare avanti (“Retromania”). Il tutto appoggiato su sonorità che cercano alternativamente di creare una dicotomia fra musica e testo ed altre volte di accentuarla: la già citata “La Partita Di Calcetto Infrasettimanale” gode infatti di un'energia che ben si sposa con un testo che va ben decifrato per scorgerne un'amarezza di fondo chiara solo nella sua frase finale mentre il caso di “Tasche Piene” appartiene decisamente alla seconda categoria, con un'atmosfera scura che avvolge l'ascoltatore totalmente. Il trio riesce comunque ad essere più efficace quando suonano lievi e disillusi ma con quella piccola scintilla sonora che cerca di riportare il sole, come in “Il Nostro Paese Diviso In Due”, dove i ritornelli riescono a trasmettere qualcosa di forte, come se la dichiarazione d'intenti “siamo orgogliosi noi/ di essere antieroi” ci facesse apparire veramente migliori. Sulla stessa linea si schiera “Apridenti”, piena di un'energia distorta veicolata ad un messaggio chiaro e semplice, che se anche la fortuna non ha intenzione di fare un'altra serata con noi possiamo comunque sorridere di fronte alle nostre piccole e grandi sfighe.

Non sono una sorpresa i Mi Sa Che Nevica, almeno per chi come me li aveva già conosciuti, ma rimangono una gradita conferma. I testi risultano ancora il principale punto di forza, ma se riusciranno a rendere ancora più riconoscibile la loro impronta musicale questo Come Pecore In Mezzo Ai Lupi verrà decisamente eclissato, per quanto sia bene chiarire che la parte sonora pecca di originalità più come suoni che come impostazione, semplice ma d'effetto. Il voto è basso, ma sono sicuro che per aggiungere uno o due voti alla band veneta manchi poco...

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Dischi Soviet Studio




venerdì 22 marzo 2013

KMFDM - Kunst (Recensione)

Qualcuno lo aveva predetto ma non molti se lo sarebbero aspettato. Qual’è il miglior modo per rimanere sè stessi. Fottersene, di tutto e di tutti, e i KMFDM, ovvero i Nessuna pietà per le masse non fanno eccezione. A pochi giorni dalla pubblicazione del nuovo, attesissimo disco dei Depeche Mode, Delta machine, Sascha Konietzko e Lucia Cifarelli, insieme agli storici Andy Selway, Jules Hodgson e Steve White, nella loro opener del nuovo ennesimo lavoro dichiarano Kill Mother Fucking Depeche Mode. Al di fuori dei gusti di ciascuno, che i DM piacciano o meno, questa dichiarazione di intenti li consacra a gruppo forever underground, che non scende mai a compromessi, nè lirici nè tantomeno musicali, che sono quelli che poi interessano maggiormente. E’ inutile parlare di loro musicalmente in quanto ogni dettaglio sarebbe superfluo, sono all’incirca gli stessi da sempre o, a voler essere più pignoli, suonano allo stesso modo dalla pubblicazione di Attak nel 2002, il disco della reunion e della svolta, sebbene questa sia avvenuta musicalmente molto prima. Industrial rock purissimo per i pochi che non ne siano a conoscenza, chitarre heavy / rock miste a sintetizzatori e doppie vocals maschili (cupe e modificate, di Konietzo) e femminili (dell’italiana Lucia Cifarelli). Questa è la formula. Dal punto di vista tematico i testi sono spesso dissacratori (ma che mantengono sempre una certa dose di humour) e soprattutto, caso unico nel panorama, fortemente celebrativi dell’act stesso. Basti pensare ai loro inni che richiamano continuamente il loro nome, KMFDM, come simbolo di intransigenza musicale, perchè i nostri suoneranno sempre così e saranno sempre così. Parlando degli episodi principali spicca l’opener e titletrack che da sola vale il prezzo del disco, espressione deprecata considerati i tempi in cui viviamo ma che rende bene l’idea. Le liriche, oltre a mandare a quel paese i DM, sono costruite richiamando i titoli dei loro maggiori brani di successo, ma non solo. Lo stesso discorso vale per i i riff di chitarra e i passaggi di synth che hanno pià di qualcosa in comune con tanti dei loro lavori, in modo particolare con Attak al quale abbiamo già fatto riferimento. Kunst è un disco molto più rock rispetto al precedente WTF?!, molto vicino anche ad un lavoro come Hau ruck. I synth invece riprendono sapientemente alcuni dei migliori episodi di Tohuvabohu, ma non finisce qui. Siamo solo all’inizio e i brani sono dieci. Ave Maria è una idea altrettanto geniale. un brano costruito sul dosaggio sapiente di chitarre rock e atmosfere elettroniche, sormontate dalla voce femminile di Lucia, ma la grandezza nel brano sta nel riuso del riff di chitarra di The beautiful people di Marylin Manson, presente in uno dei suoi dischi più importanti Antichrist superstar. La critica verso la Chiesa qui è totale e rappresenta il concetto artistico che accompagna i KMFDM come Grandi Artisti. Il disco prosegue su episodi dello stesso livello come la successiva Quake che vuole trasmettere quella idea di terremoto sonoro e che riesce nel suo scopo. Si badi bene: esistono, nel repertorio dei Nostri, decine di canzoni del genere ma non importa, quel che importa è che oggi, nel mare dei Next big things ci sia ancora chi distrugge tutto per il gusto di farlo, in barba al mercato. Anche la successiva Hello che vede, da buona tradizione di alternanza tra un brano cantato da Sascha e uno da Lucia, è un brano molto ben fatto, che lascia poi spazio alle chitarre di Next big thing. Il messaggio è chiaro: No pity for the masses! Musicalmente è hard-rock ma cosa importa, è una dichiarazione, è forte e potente. E si va avanti così, su scie simili, per brani dai titoli Pussy riot, Pseudocide, Animal out, The mess you made, e, in chiusura, la strana I ♥ Not. Se la penultima traccia si chiude con una inaspettata citazione musicale alla musica heavy, mi viene in mente un assolo che potrebbe essere dei Metallica, il brano conclusivo è una rivisitazione in chiave industrial rock del synth pop tedesco, una sua estremizzazione e, soprattutto, una sua ulteriore derisione. Qui, tra queste note, lo humour è molto forte, la presa in giro è dietro l’angolo. Quella dei KMFDM è indubbiamente un’Arte, è, l’Arte di rimanere sempre coerenti con sè stessi, con i fan, e, soprattutto, con il mondo della musica in generale. Perchè i loro fan si aspettano questo. E questo avranno, sempre. Since 1986.

Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Metropolis Records

giovedì 21 marzo 2013

Dance With The Bear - I love you bears (Recensione)

Dalla provincia ferrarese il sound travolgente e dancers dei Dance With The Bear, formazione che fa immergere l’ascolto tra i frenetismi convulsi e joy della dancefloor e “I love you bears” è la loro festa d’esordio, un felice cardiopalma che ingloba dalla dance al rock temperato, elettronica zaffata e digitalismi pirotecnici, il tutto in un caotico benessere energetico e di ostinazioni stilistiche che ispirano e respirano vita al quadrato.

Otto brani scatenanti ed un remix fluorescente “A Reason” per la ghiottoneria succulenta di chi nel ballo, nei filtri e nei subwoofer ritmati a mozzafiato ne trova linfa vitale per staccarsi dalla realtà e frequentare simultaneamente il rock dell’immaginario ed i clubbing house più triti e sconvolgenti della scena odierna; quello che imbastiscono i DWTB è un perfetto mixer a centrifuga di Jamie Jones e Bloody Beetroots, filtri passa banda e groove in bridge continuo come l’alta densità di "TR 606" che dilatano e comprimono ogni centimetro disponibile della tracklist.

Tutto quello che suona qua dentro è sudaticco e movimentato, una perfetta sintonia e tentazione che “istiga” a lasciarsi andare e catturare dal sound primario, dal move-it irresistibile che il registrato “spaccia” ad oltranza; non è il classico dischetto a “canto di sirena” di come ne girano a tonnellate ovunque, o quelle fregature imperterrite che paiono arrivare come un souvenir dalla Ibiza del fancazzismo amplificato e quattrinaio, ma un disco che strizza l’occhio all’Europa per la sua professionalità, freschezza e gioventù sprizzante che farà felici gli abituè delle spiagge assolate nelle ore vicine all’aperitivo come funzionerà dannatamente cool nelle dance floor supersoniche e smaliziate.


Tutti in pista, gli orsi cominciano le danze!


Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Ocarina Management 

mercoledì 20 marzo 2013

Combichrist - No redemption DmC O.S.T. (Recensione)

Il ritorno in scena di Andy LaPlegua è uno degli eventi più attesi e seguiti all’interno della moderna musica industriale. Eclettico musicista ma anche follower delle mode musicali e amplificatore delle stesse, con i suoi progetti desta molto interesse, che alle volte si rivelano interessanti, altre volte sono buchi nell’acqua. In particolar modo la parabola dei Combichrist è una di quelle che oggi rappresentano un punto di riferimento per un certo harsh, ma che in passato, così come nel presente, come si evince dall’ascolto di questo lavoro, ha attraversato e attraversa i suoi confini.

LaPlegua è per il post-industrial neo-harsh un po quello che i Run DMC sono stati per l’hip hop. I commercializzatori, coloro che hanno saputo produrre musica qualitativamente elevata e sfruttare le mode del momento. E quest’ultima è quella della stesura di colonne sonore per videogiochi. In questo caso si parla del nuovo episodio di Devil May Cry, un videogioco che ha fatto largo uso di colonne sonore heavy metal e affini, di conseguenza questo lavoro sarà necessariamente un punto di sperimentazione, una nuova rotta da seguire. L’inizio del primo brano, "Age of mutation", è molto spiazzante. L’ascoltatore, compreso il sottoscritto, non conoscendo il gioco e le sue colonne sonore, si appresta ad ascoltare qualcosa che si è pensato vicino al genere originario proposto dal combo così come i FLA hanno fatto con Airmech poco tempo fa. Il primo pensiero è Un disco metalcore? Sì, è un disco metalcore, all’incirca. Questo circa serve a spiegare che la classificazione non è così frettolosa. Il metal è sicuramente un elemento preponderante ma non è tutto, tuttavia la direzione è una. E così, tra atmosfere industrial-metal e tastiere di alto livello, incapsulate in un contesto di screaming e di growling sorretto da strutture hardcore, i norvegesi ci concedono una piacevole sorpresa inaspettata, un disco abbastanza notevole, che scorre bene senza particolari intoppi, che è un po una rilettura più metallica di certi lavori dei Ministry, che scava nella matrice industriale americana generata da Al Jourgensen e soci.

 Musicalmente i brani sono abbastanza semplici e allo stesso tempo complessi, pieni di esempi e di soluzioni che talvolta riconducono all’ambient, tal’altra al post-industrial, sottolieando l’heavy che sta alla base. Una grande prova questa di LaPlegua che si distacca dagli stilemi più commerciali dei suoi ultimi lavori e che spacca in due il pubblico. C’è chi ha già inneggiato all’allontanamento dal purismo harsh, e questo è piuttosto da apprezzare, ben venga la sperimentazione se utilizzata in modo intelligente. D’altronde stiamo parlando di personalità che sono già avvezze a certe sonorità, che hanno sempre sconfinato, o che semplicemente sanno cogliere le mode.

 E’ un disco alla moda? Non ha molta importanza, perlomeno è diversamente interessante. E merita più di un ascolto. Vedremo cosa succederà in futuro, sperando che questo non sia un fuoco di paglia dettato, come altri hanno affermato, dalle volontà dei produttori del videogioco.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Out of line

martedì 19 marzo 2013

Teutan - Qayin (Recensione)

Teutan è una realtà Italiana che nutre il proprio immaginario attraverso un’esplorazione profondamente guidata dall’istinto, di molteplici sottoculture musicali e visive.

Qayin è il secondo lavoro ufficiale in studio per questo trio, successore dell’EP autoprodotto “Tela”  (leggi qui la nostra recensione) che si avvale della collaborazione di Marco Bernacchia [Above the Tree]. Una comunicazione minimale, poche informazioni sulla copertina, artwork scarno, l’invito non troppo celato è all’ascolto.

Qayin, Caino è il concept su cui si struttura l'intera composizione del disco. Secondo la Genesi il primo Uomo ad esser nato, nonché il primo Assassino.
L’impatto proietta verso la ricerca di un suono viscerale, rigorosamente strumentale, primordiale, fisicamente intenso e fortemente ritmico. Nessuno spazio alle sottigliezze, la costruzione dei brani scorre con le immagini che le note evocano, veloci sovrapposizioni mistico / tribali, aperture melodiche dichiaratamente arabeggianti e strutture che in qualche modo s’avvicinano a un ibrido snaturato tra i Cul de Sac, i Neurosis di Honor Found in Decay e le danze viscerali di un Morrison in pieno delirio lisergico.

La separazione tra i solchi dell'album è davvero superflua, la coerenza concettuale e compositiva delle tracce è sorprendente e i momenti di respiro sono assai ben collocati. Si viene immersi in un’atmosfera cupa che prende forma meravigliosamente e si disegna con una violenza irruenta, seppur dosata con intensità crescente, dall’inizio alla fine dell’album. Davvero notevole la sequenza "Barakallahulekom / Outrohn", prima della title track, in cui la band esprime un potenziale comunicativo quasi cinematografico, come se le note proiettassero spezzoni di pellicola direttamente nel subconscio di chi ascolta. Il risultato stordisce, è intrinsecamente psichedelico e catalizza l’attenzione convogliando le sensazioni in uno scenario post-moderno in cui la luce è solo un lontano miraggio.

Qayin è il lavoro incisivo e bello di una band in evidente crescita e presenta come unico neo una produzione che non incontra pienamente la complessità dei suoni. Da ascoltare e assorbire.


Voto: ◆◆◆
label: Brigadisco/Onlyfuckingnoise Rec.



lunedì 18 marzo 2013

Cosmetic - Arnia/Provincia Ep (Recensione)

Eccoci qui, discutiamo del futuro, o del passato, in periodi retromaniaci come i nostri è normale, l'attualità è un continuo ritorno, elezioni 2013 come le elezioni 1994, musica 2013 come la musica 1998.

Il primo pezzo di questo nuovo EP dei romagnoli Cosmetic (in free download qui al costo di un post o un tweet) mi aveva convinto che si, finalmente potevamo essere arrivati ad una svolta del loro sound. "Ritirata" è un pezzo indie rock dal forte sapore nineties e ben fatto, le chitarre e il basso hanno il giusto "tiro" e la breve parte urlata che chiude il pezzo ne accentua la bontà, mi ricorda tanto i primi Braid di "Frankie Welfare Boy Age Five" e i Trail of dead di "Source tag and code". Un bel complimento, me ne rendo conto.

Il secondo pezzo "Provincia" è il classico repertorio Cosmetic: chitarre scintillanti e melodie che restano in testa, ma la puzza di "indie pop italiano anni '90 VS Verdena"  entra nel naso e  riempie i polmoni fino a far soffocare come il monossido di carbonio quando lasci la stufa accesa e ti addormenti sul divano di tua nonna.

Non sono un'amante della novità a tutti i costi, tutt'altro, ma non c'è mai un passo avanti, i Cosmetic sembrano sempre aggrappati a sè stessi arrampicati sul cucuzzolo della montagna e da lì non si spostano mentre si abbracciano l'un l'altro. Il terzo brano "Motobecane" è un breve giochetto per chitarra, richiama i Pixies, sembra parta benissimo, peccato duri 10 secondi e non ti lasci nulla.
Alla fine i nostri gettano la maschera e ci salutano facendo ciao con la manina e indicando probabilmente, spero di sbagliarmi, il futuro. "L'arnia" è un orribile tentativo di imitazione delle eteree e algide melodie degli ultimi  Verdena. Debole, debolissimo, sostanzialmente inutile.

Potevano trattenersi, peccato, erano partiti bene, lasciandoci intravedere interessanti sviluppi per poi continuare a citarsi addosso.

Voto: ◆◆◇◇
Label: La Tempesta Dischi

sabato 16 marzo 2013

David Bowie - The Next Day (Recensione)

«David Bowie era il nostro idolo solitario, il più stupendo di tutti. La sua musica era la migliore. Tutti volevano assomigliare a lui».

Avevi ragione, Christiane: David Bowie è l’indiscusso Maestro che ha insegnato a generazioni intere il grande inganno del narcisismo, guidando come un messia elegantemente reietto schiere di alienati imbottiti di droghe e coperti di lustrini da quattro soldi. Sembrò un gesto di umiltà e ritegno stupefacenti, quasi un sintomo di umanità malcelata, il ritiro discreto dalle scene; ma il richiamo dell’arte quale antidoto al terrore dell’effimero si è rivelato, ancora una volta, irresistibile.

A dieci anni dal trascurabilissimo Reality, le note che accompagnano il ritorno sotto i riflettori dell’eterna Primadonna appartengono al pigro e felpato singolo Where Are We Now?: la fascinosa prova vocale e gli intriganti, nostalgici acquerelli berlinesi non bastano a evitare che l’iniziale eccitazione si stemperi in un inesorabile effetto soporifero. Questa interminabile litania è tuttavia un preludio fuorviante al vigore sonoro ed espressivo dell’opera, significativo archetipo della peculiare forma creativa bowieana: come in capolavori di transizione quali Diamond Dogs e Station to Station, il fondamentale senso di incompiutezza e frustrazione è articolato e incanalato, con un’operazione di espressione paradossale ai limiti dello straniamento, in brani di perfetta conclusività compositiva ed eccezionale accuratezza.

Scelte di ambivalenza strutturale implicite sin dall’iniziale title-track, che adagia l’albionica lascivia dell’interpretazione su un energico incalzare chitarristico, per poi dissolversi nell’inatteso Singspiel di "Dirty Boys". Il minaccioso e sordido cabaret funge da avanguardia per lo sfrontato erompere di "The Stars (Are Out Tonight"), secondo singolo rivestito di scintillante decadenza dal fido Tony Visconti, la cui produzione teatrale e magniloquente si eleva su sature chitarre ronsoniane. Quella che Bowie stesso definì «nostalgia del futuro», la costante meditazione della caducità declinata nelle molteplici incarnazioni e maschere, è esposta ed esibita in quest’opera come consapevolezza del potere di precorrere il tempo ma insieme, inesorabilmente, trascinarsi alle spalle un passato. Così, è nel glam-pop di "Valentine’s Day" che Bowie esplicita la paternità di quella malinconia cool eletta dai Suede a cifra esistenziale ed estetica, mentre si cimenta con aperture melodiche beatlesiane in "I’d Rather Be High", prima di scivolare nel corale gospel urbano di "Boss Of Me", sospinta da fiati notturni.

L’ipertrofia espressiva, forse alimentata nell’ultimo, defilato decennio, nella sezione centrale del lavoro include momenti che tradiscono un’ispirazione piuttosto stanca. Ballad melò ("You Feel So Lonely You Could Die") o riff ovvi e abusati ("You Will Set The World On Fire") sarebbero prevedibilmente caduti sotto la scure di una salutare operazione di sottrazione e riduzione all’essenziale, che avrebbe consentito all’affascinante blocco dell’epilogo di portare a compimento la coerenza complessiva dell’opera.

«Nel preciso istante in cui ti senti al sicuro, sei morto. Sei finito». Alla soglia dei trent’anni, Bowie già fronteggiava con vivida lucidità la condanna all’impermanenza, l’estraneità rispetto al tempo presente e l’impulso a divorare il futuro che sentenziano inesorabilmente la fine di ogni possibilità di stasi. Got to keep searching and searching.

Voto: ◆◆◆
Label: ISO Records

venerdì 15 marzo 2013

Francesca Lago - Siberian Dream Map (Recensione)


Uscito a giugno 2011 per la On the camper records, Siberian Dream Map è il terzo lavoro della talentuosa cantautrice Francesca Lago. Esordio nei lontani anni 90 con Mosca Bianca e la disperata Niente per me, è tornata dopo undici anni di silenzio con l'ep The Unicorn, assaggio dell'onirica quiescenza che sarebbe esplosa nelle tredici tracce di Siberian Dream Map. 

Fiabe incantate nei ghiacci fluorescenti, che silenziosamente scivolano in un lago di luccicanti follie.. orme di sangue sulla neve bianca e la luna argentea e stordita dai richiami dei licantropi ubriachi. Francesca gioca con gli strumenti come fossero giocattoli, componendo meravigliose melodie e ninnananne che uccidono nel sonno. C'è un po' di Regina Spektor, un po' di P.J. Harvey nel suo dolcissimo rock elettronico, capace di stregare ma di essere allo stesso tempo incisivo e tagliente. La sua morbida voce ci accompagna in viaggi infiniti in terre fredde e inesplorate, sulla scia di arpeggi che si schiudono come fiori di una primavera anticipata come in "On my way back from the moon", "To the wild "o "Still before the spell". I riff di chitarra alla Radiohead si mescolano poi con l'elettronica, cenni di psichedelia e velate dissonanze sciorinate come filastrocche senza tempo. Pezzi come "Leech" o "Slapstick "hanno un piglio decisamente rock, dove Francesca si diverte a imitare una Courtney Love un pizzico meno attempata e più elegante, mentre un cupo violoncello crea atmosfera per la breve "Do you know where to go?" e "Hey hey sentry".

Ci trasciniamo in un oblio bagnato in "Raised by the aliens" e "And in the evening", rimaniamo su un concetto più classico di song-writing in "Bad dream". Un album che è un piccolo forziere di gioielli, di gemme incastonate in un cuore di ghiaccio che si scioglie con dolcezza al candido sorgere del sole. Elegante, eclettico, capace di farvi vibrare di piccole emozioni nel suo essere delicatamente perfetto.

Voto: ◆◆◆◆◆
Label: On the camper records

giovedì 14 marzo 2013

The Men - New Moon (Recensione)

Scorrendo le biografie e scovando cognomi inequivocabilmente esotici, la mia infaticabile attitudine all’indagine inutile non ha esitato a stabilire un legame d’origine tra i The Men e la più nota cricca di italo-americani partorita dal generoso grembo di Brooklyn, il combo di doo-wop bianco Dion & the Belmonts, capeggiati dall’imperituro Dion DiMucci. E le prime note di New Moon mi inducono a sospettare che i nostri cugini d’America siano accomunati da una predilezione singolare per le armonie vocali catchy e agrodolci, cesellate con noncuranza e senza disdegnare una moderata dose di autocompiacimento.

New Moon, però, è un’opera che ambisce ad uscire dall’isola dopo aver mosso i suoi primi, ingenui passi: l’elemento maudit newyorkese viene dissolto da una tensione all’apertura campestre, alla contemplazione rapita di crepuscoli polverosi che si dileguano oltre l’orizzonte inarrivabile. L’incalzare country‘n’roll di "Half Angel Half Light" sposta le coordinate del viaggio verso territori impervi, tramutando l’indolente strolling da marciapiede in una corsa implacabile arrostita dal sole della prateria. Il ritmo costante viene deliberatamente slabbrato in improvvisi fragori disorganici, scombinati da un’eclatante disperazione in "Without A Face", trascinata dal richiamo selvaggio e furibondo dell’armonica. Abbiamo varcato i pericolosi confini della riserva Gun Club, abbandonando però in territorio neutrale la desolazione esistenziale di Jeffrey Lee Pierce. Tentazioni melodiche e chitarre allo sciroppo d’acero isolano spazi di quiete in cui la tensione è sospesa in una tregua improvvisa: il tex è separato risolutamente dal mex, capovolgendo la minacciosità voodoo in esasperazione emotiva. "I Saw Her Face" è paradigmatico archetipo della struttura compositiva ondivaga, che sorregge l’intero lavoro, e dei saliscendi dinamici in cui il frastuono più saturo si alterna a un sottosuolo di fruscii stropicciati.

Lo skyline newyorkese si profila come destinazione di ritorno, in prossimità dell’epilogo del viaggio, nella frenetica, sgangherata e infaticabile accelerata di "Electric". Ma la tabella di marcia concede ancora tempo per indugiare in terre aride e impervie con il vortice sconquassato di "I see no one" e il pop scomposto di "Freaky", prima di venire definitivamente risucchiati nel ventre della metropoli: la claustrofobica allucinazione di "Supermoon" scaraventa in un labirinto chitarristico di ossessione lancinante, che annienta il peregrinare compiuto confondendo l’orizzonte, per piombare incombente e chiudersi infine come un sarcofago.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Sacred Bones

mercoledì 13 marzo 2013

Dj only - Aelion Circus (Recensione)

Bologna è una delle città del beat elettronico di matrice techno, ma soprattutto tekno. Dj Only appartiene decisamente alla prima categoria, ad un suono che affonda le proprie radici all'interno di un sound antico ma sempre attuale che sa scendere a patti con la modernità, senza scadere in soluzioni banali o in sofferti minimalismi. L'opener "Mistery plays", atmosferica, si distacca da quello che si sentirà in seguito, rimarrà un episodio all'interno dell'elettronica ambientale, ben fatto, non eccelso. I brani successivi sanno di euro-techno dei primi anni 2000 nei quali si avverte un certo gusto per le produzioni della BXR Recordings dei tempi d'oro, quelli di Mauro Picotto, Mario più, Saccoman, Joy Kitikonti, a volte invece si apre in spiragli trance, spiragli che però rimangono tali lasciando in primo piano il beat atmosferico ma non troppo, duro ma non troppo, che si pone tra il suono mediterraneo e quello tedesco. I brani si susseguono in un ascolto facile ma non per questo poco interessante.

Un disco fuori dal suo tempo e, in virtù di ciò, superiore a molte produzioni. L'altra influenza di questo producer è la Get Physical Records di M.A.N.D.Y. e Dj T, che tuttavia sta facendo il suo tempo. Volendo collocare questo prodotto potremmo dire che ha un po di entrambe le cose, un po' della BXR alla Saccoman e un po' di Get Physical della prima ora. Non male per un artista relativamente nuovo, davvero non male. Sicuramente c'è ancora dell'ingenuità nei suoni e alcuni brani molto di derivazione, ma d'altronde rimanendo sui 4/4, quale sembra sia la missione del Nostro, è difficile uscire dai confini del genere. Vedremo quale sarà il suo prossimo passo. Nel frattempo facciamo un viaggio in un passato mai dimenticato.

Voto: ◆◆◆
Label: T-NNELSERIES

martedì 12 marzo 2013

Eterea Post Bong Band - Bios (Recensione)

La Bolognese Trovarobato licenzia il nuovo disco degli Eterea Post Bong Band, “Bios”, un disco alieno che fa “i conti” con numeri, matematica, somme e quant’altro, un disco che il collettivo cerca di concitare sfogliando un catalogo mixato da jungle, disco, stunz stunz e tutto quello che potrebbe fare casino senza spostarsi più di tanto.

Preludi Zappiani e sperimentazioni contaminatissime, profumi western, funk ecc ecc, confezionano questi otto piccoli kamikaze sonori che girano come pinball impazzite e senza riferimento, direttrici storte che bisogna riascoltare assolutamente più di una volta per farle salire nell’immaginario, oppure ascoltarle senza compulsività mentre si fanno faccende ed altre incombenze domestiche; fatto sta che Bios – con una sfiziosa cover raffigurante un bel cavolo – è un continuo dirottare neuroni verso piacevoli – eufemismo di prassi – stati “alterati d’ascolto”, stati che prima o poi finiscono di ingoiare la tua passione genuina per le cose strane.

Pure cinematismi ricorrenti fanno bagaglio e peso nella tracklist, che oltre la formazione al completo, vede alternarsi come ospiti Martino Cuman (Non voglio che Clara), Dave Santucci l’americano fischiettatore folle che spopola su YouTube e il polistrumentista Enrico Gabrielli ("Homo Siemens"), il resto è una stravagante cronaca metafisica che suona , strimpella, declama con tutta la sincerità di pochissime band a mettere davanti il proprio coraggio di fare solamente la musica che amano, fregandosene dello stile, della moda o del trendy, solo musica, rumore e un insieme delirante di fraseggi e strumentazioni free che trovano nel “buon bailamme” la precisa definizione, la propria essenza, per esserci e “disturbare con una creatività dada”.

Si, tornano per depistare ogni formato canzone e altrettante linearità, ma gli EPBB sono fatti di questa stoffa, e la Trovarobato è una stupenda “Enterprise” che, vulcaniani e no – riesce comunque e sempre a farti stare con la bocca aperta e muta, agli aggettivi e le parole sonore ci pensano loro, e di fitto!.


Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Trovarobato

lunedì 11 marzo 2013

How to destroy angels - Welcome Oblivion (Recensione)

Una recensione scritta a quattro mani, per confrontarsi su una delle coppie, artistiche e non solo, più opinate sin dal loro primo Ep nel 2010.

Benvenuto all'Oblio! O sarebbe meglio dire che è un Benvenuto nell'Oblio. Perchè? Sono passati alcuni mesi dalla pubblicazione, da parte dei quattro membri del progetto How to Destroy Angels rispondenti ai nomi di Trent Reznor, mente del progetto NIN, di Maryqueen Maandig-Reznor, sua moglie e singer, di Atticus Ross e di Rob Sheridan e questo ha rappresentato un viaggio nell'Oblio che ha portato al compimento del primo full length, di un lavoro che, inizialmente e per via del suo E.P. An omen, aveva destato non pochi pareri negativi.

Un nome impegnativo per chi viene considerato redentore delle pene afflitte con lo scioglimento dei Nine Inch Nails, di cui tanto ricorda il sound con le prime track tirate fuori dal cappello, in digitale , tre anni fa come con "The Space in Between".
Si era tacciato il mastermind Reznor di aver dato vita a qualcosa di scontato, tutto sommato di accettabile ma che non basta quando si parla di un personaggio dal quale ci si aspettano solo grandi risultati. E la volontà di sperimentare all'interno di un genere, sì, elettronico, ma pur sempre molto diverso dalla linea principalmente seguita in NIN, ovvero virando verso il trip hop, aveva dato luogo a pensieri legati al fatto che, non avvezzo al genere, egli non sapesse spingerlo al massimo suonando banale e ripetitivo.

L'attesa per il 5 marzo, quindi, per il loro primo lavoro completo in studio di ben tredici tracce, è alta ed è spiazzante riconoscere quanto la band sia cresciuta, lasciandosi alle spalle, il sound del colosso della musica che l'aveva preceduta.
Welcome Oblivion è ricco di contraddizioni e cambi di scenario, pur rimanendo improntato su note molto cupe ed introspettive.
Indubbiamente il minimalismo e la ripetizione sono ancora parte integrante di questo lavoro, eppure si è verificato un salto importante tra il lavoro precedente e questo. Basti pensare a brani presenti all'interno di entrambe le releases come "Keep it together", "Ice age", e altre. Ebbene, così come ci mostra la lezione duchampiana, gli elementi in sè non sono oggettivi ma, come "objet trouvèes", possono mutare a seconda del contesto nel quale sono inseriti ed acquisire un nuovo significato.

Apre con un piccolo assaggio lungo meno di due minuti per poi sfociare in uno dei due pezzi portavoce dell'intero lavoro "Keep it Together", dove una ben fatto uso di digitalizzazioni crea un brano che scandisce il ritmo di vita dell'ascoltatore.
L'altra track "How Long" promossa e lanciata dalla band stessa come portavoce dell'intero album, la troviamo un po' più in là nel cd, preceduta da brani non altrettanto importanti se pur piacevoli come "On the Wing" e la title track "Welcome Oblivion" ne è manifesto: non camuffando con le note, si da molta importanza al testo del brano stesso, che appunto possiede molti pochi fronzoli e prodigi dell'elettronica.
E' quello che succede qui, nonostante si possa pensare che essi siano gli episodi più deboli di un disco che sa a volte anche indurire le proprie sonorità, rappresentate da architetture sonore ampiamente e saggiamente tessute dal musicista Reznor per venire poi utilizzate dalla moglie Maryqueen. Non è ben chiaro chi dei due sia il personaggio vincente all'interno di questa sottile alchimia. Ogni brano è una idea a sè, a volte più o meno riuscita, nonostante sia sempre forte l'impressione che le migliori siano quelle più brevi e concise, anche perchè il minimalismo, a volte, può stancare. Welcome oblivion non vuole decollare, non deve decollare verso beat frenetici o tessiture industriali, il qui presente non ha nulla a che fare con l'industrial ma è una prova interessante di un musicista che vuole sperimentare qualcosa di nuovo. I limiti tecnici, inutile negarlo, sono tanti.
Chiudono l'album delle track sufficientemente lunghe, tra I 6 e gli 8 minuti, a perdere il filo dello stesso che non colpiscono particolarmente e che non spiegano nemmeno le intenzioni di questo quartetto americano.

Gli How to Destroy Angels non potranno mai essere i Massive Attack, così come, probabilmente, essi non verranno mai ricordati come il miglior side project di Reznor. Questo non toglie che si tratti di un prodotto godibile che, a tratti, mostra qualche episodio particolarmente buono come la opener "The wake-up" o  la già citata titletrack. Forse tredici brani sono troppi, ma riescono a dimostarsi ugualmente apprezzabili. Si tratta solo di capire quali siano le aspettative che ciascuno di noi si pone nei confronti di un lavoro del genere.

Ancora non troppo distanti da loro stessi e dalla loro prima uscita, la bellissima "A Drowing",  gli HTDA ci regalano un album studio mutevole, con tante diverse ispirazioni all'interno, sicuramente da collezione per gli amanti della musica "riarrangiata", meno per chi invece rimpiange I NIN. 

Martina Frattura.

Voto: ◆◆◆
 
Label: The null corporation


sabato 9 marzo 2013

Ofeliadorme – Bloodroot (Recensione)

Quando mi è stato suggerito di scrivere qualcosa su quest’ultimo lavoro degli Ofeliadorme, ho esitato: vincolata a un’inestirpabile ignoranza e a un’ingenua supponenza nei confronti della musica italiana, avevo candidamente trascurato la carriera della band bolognese, sostanzialmente senza averne mai sentito una nota. Suggerisco un inganno pedagogico, come quando ai bambini viene camuffato il cibo che si rifiutano di mangiare: se mi avessero tacitamente propinato Bloodroot omettendo la provenienza geografica degli artefici, lo avrei ingurgitato obbediente. Non avrei avvertito alcuna traccia di italianità cantautorale nel songwriting, né avrei percepito un dislivello qualitativo rispetto alle sonorità estere: tutto concorre a definire un lavoro consapevolmente internazionale, che conferma le attestazioni di stima collezionate oltre i nostri confini e sancite lo scorso settembre dalla collaborazione con Howie B.

Il proscenio è inevitabilmente guadagnato dalla vocalità di Francesca Bono, dotata di naturale apertura corale e incline a una limpidezza non priva di sfumature; il velluto traslucido della voce si adagia su pulsazioni percussive quasi silenti, spesso frammentate secondo una reduplicazione affine alle sonorità rarefatte elaborate da Martin Hannett, a tratti stravolte in interferenze disturbanti e altrove diluite in un torpore post-rock.
La chitarra, impegnata a intessere trame luminescenti, nella title track acquisisce sonorità wave, stemperate secondo l’estro psichedelico di David Roback. È infatti l’atmosfera trasognata e insieme conturbante di Opal e Mazzy Star a venir adombrata nel connubio tra i sospiri fanciulleschi del cantato e lo sghembo tracciato chitarristico, in un equilibrio cristallino in cui i suoni sono distillati e dosati come estratti medicinali. L’abilità di conservare un’armonia ponderata, attraverso l’evoluzione strutturata nello spazio di una canzone, trasforma il dream pop malinconico di "Ulysses" in una tesa preghiera, mentre in "Brussels" la voce impalpabile si irrobustisce, trascinando in primo piano la chitarra obliqua.

L’elemento derivativo è innegabilmente evidente, ma non segna assenza di esclusiva identità: le suggestioni sono assimilate da una scrittura di singolare compiutezza e plasmate secondo scelte sonore intriganti. Il bloodroot (Sanguinaria Canadiensis) è un fiore dalla linfa di tonalità sanguigna e di alta tossicità, pianta perenne e perciò destinata a lunga sopravvivenza: per il lento, tacito e seducente veneficio degli Ofeliadorme si prevedono effetti prolungati.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: The Prisoner Records

venerdì 8 marzo 2013

Kafka On The Shore - Beautiful But Empty (Recensione)

Ci sono un italiano, un tedesco, un americano ed un austriaco...sembra l'inizio di una barzelletta ed invece è il cappello introduttivo di una recensione, l'unico che mi è venuto in mente dopo uno stancante allenamento in palestra e mentre sto digerendo la cena.

D'altronde che dei Kafka On The Shore attragga l'attenzione la pluralità di nazioni da cui provengono i suoi componenti (il cantante Elliot Schmidt è pure nato a Dusseldorf) è normale visto che alla fine si sono ritrovati non si sa come a Milano e qui hanno deciso di formare una band che ha come nome un libro di Murakami (da buon ignorante io di suo ho letto solo Tokyo Blues, Norwegian Wood come il 90% della gente mi sa). Beautiful But Empty è il loro primo disco, e che disco.

Se si fossero limitati a riproporre per 11 tracce il leit motiv indie-rock incalzante della traccia d'apertura “Berlin” sarebbe stato tutto un bel sentire, ma probabilmente alla lunga avrebbero stancato anche alternandolo a derive più calme come quella della pur coinvolgente “Airport Landscape”. Ma lo hanno capito prima che potessimo prenderli in castagna, e quindi non sono qui a lamentarmi di una varietà stilistica che invece è il fiore all'occhiello della produzione: il pop-rock lisergico del binomio conclusivo “Walt Disney Part I e II” è da applausi (non per niente nella prima parte l'inizio da falso avanspettacolo li contiene anche), “Bacco” sembra suonata dalla famiglia Addams in un vecchio west in cui più che mai vige la regola di non sparare sul pianista, “Moon Palace” mischia alla perfezione un piano ispirato e distorsioni a profusione, “Lost In The Woods” alterna un ritmatissimo andazzo rock a brevi divagazioni psichedeliche in cui si fa spazio anche una tastiera quasi spettrale. Su tutto, e altro, di questo ben di dio la voce di Elliot, capace di alternarsi fra un tono snob tipicamente british (ma che fa molto anche Julian Casablancas) e prove più grintose, come nell'ottima “Campbell's” dove le sue urla in certi punti riportano alla mente il miglior Frank Black.

Si può trovare qualche difetto? A fatica, e se proprio vogliamo usare la lente d'ingrandimento puntiamola su “Venus”, esperimento minimale troppo ripetitivo e probabilmente più nelle corde dei 2Pigeons della vocalist Chiara Castello, ospite alla voce nel brano in questione.
Un esordio coi fiocchi questo per i Kafka On The Shore, divertente e non banale ed in cui tutti gli strumenti agiscono all'unisono per creare atmosfere sempre diverse. La genesi della band potrebbe essere ottima per una barzelletta insomma, ma con gli strumenti in mano questi 4 fanno maledettamente sul serio.

Voto: ◆◆◆
Label: La Fabbrica


giovedì 7 marzo 2013

Beach Fossils - Clash The Truth (Recensione)


Clash The Truth è un timelapse perfetto che riprende una New York in movimento, esattamente nel mezzo della sua gerarchia sociale. Non vede aggressività, perversione e violenza e d’altro canto non è certamente un disco sofisticato.
Il secondo album dei Beach Fossils esprime in suoni la spontaneità e il dinamismo della mid-life nella Big Apple. Il progetto di Dustin Payseur arriva in studio con una line up decisamente più stabile rispetto al lavoro precedente. Dopo aver cambiato dodici differenti drummers e tre chitarristi, i Beach Fossils si presentano come una band a tutti gli effetti, con un batterista e co-writer full-time.

Enormemente influenzato dal movimento artistico emergente di Brooklyn che oggi detta legge nella scena indie mondiale, Payseur, con l’intento di riproporre l’urgenza e l’immediatezza dei suoi live set, affida la produzione del disco a Ben Greenberg dei The Men. La scelta è certamente azzeccata. Clash The Truth è confezionato alla perfezione, scorre veloce e facile con suoni omogenei e stilisticamente impeccabili. Per conferirgli una forma ibrida, tra il bedroom DiY e una registrazione “hi-fi” Greenberg cattura batteria e basso in presa diretta e sempre nella stessa stanza, facendo assorbire al disco un suono che oscilla tra il post-punk 80’s tipicamente British e le produzioni indie-pop statunitensi decisamente più moderne e leggere. L’album si lascia ascoltare d’un fiato, dall’inizio alla fine ed è piacevolmente easy-listening.
Tra i brani s’incontra, con sorpresa, “Sleep Apnea”, una melodia acustica che rimanda addirittura ai Beatles. “In Vertigo”, invece, è un risveglio sognante che vanta Kazu Makino dei Blonde Redhead alla voce. Degna di nota la chiusura dell’album: "Crashed Out", con la sua linea sonora assolutamente cinetica e tesa nonostante la connotazione marcatamente pop.

Clash The Truth esprime esattamente ciò che vuol essere e lo fa senza sbavature. Una curiosità: durante il periodo di registrazione, lo studio affittato dai Beach Fossils è stato allagato e distrutto dall’uragano Sandy e la band s’è dovuta trasferire altrove per completare il lavoro. È sorprendente come questo non abbia minimamente influito sulla coerenza stilistica e sonora del disco. Da citare, lo splendido lavoro fatto per la cover a cura di Ryan McCardle.

Voto: ◆◆◆
Label: Captured Tracks Records


mercoledì 6 marzo 2013

Etruschi from Lakota - I Nuovi Mostri (Recensione)

Direttamente dalla campagna toscana arriva un rombo rock'n'roll tutto nuovo: si chiamano Etruschi from Lakota e con il loro disco di esordio I nuovi mostri, ci aprono le porte su un mondo di cui difficilmente avremmo immaginato l'esistenza. 

La piazza del villaggio gremita di adolescenti col cappello di paglia accorsi a vedere i nuovi Led Zeppelin alla sagra della marrocca, per poi proseguire con un'incazzato Angus Young che si scaglia contro la brulicante vitalità dello scenario delle cover band, intonando canti proletari dal sapore Hollywood anni 70. 
Fremito country-blues, hard rock, chitarre acustiche e un'irriverente vena citazionale che spazia da "Dazed and confused" a "T.N.T." passando per "Jesus Christ Superstar" e i The Doors. Un disco che fa sorridere per la sua rabbia intrappolata nelle maglie di un' ironia paesana e ammiccante, come i Modena City Ramblers col piglio degli Zen Circus. C'è la musica da osteria di Elenoir, dove piangere vecchi e nuovi amori andati a male a suon di brindisi in un maccheronico ma romantico francese, la genialità di "P.M.P. (panorama musicale provinciale)", dove l'ironia si mescola con il rock'n'roll degli AC/DC, e ballate degne dei Rolling Stones di Love in vain come "Aulin" o la rabbiosa elettricità dei canti di fabbrica come "I nipoti di Pablo".

Un disco decisamente particolare, a metà tra il genio assoluto e il patetico. Negli schemi dell'ultimo alternative rock acustico italiano sono impastati clichè di un hard rock polveroso ma vitale nel suo essere lievemente disomogeneo e allucinato mentre testi sono divertenti e freschi quando non calcano troppo sulla trita retorica della fiaba comunista folk.
Con la sua energia, i pugni alzati e le divagazioni rock ha tutte le carte in regola per diventare il disco dell'anno di un qualsiasi adolescente che si rispetti: chitarra al collo, capelli lunghi, centro sociale e un'età che si aggiri possibilmente intorno ai vent'anni. Non di più, sennò non è figo abbastanza.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Phonarchia dischi

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