lunedì 30 settembre 2013

Deadburger - La Fisica Delle Nuvole (Recensione)

C'è chi dice che la crisi crea opportunità, e forse qualcuno ci crede davvero. Tipo i Deadburger, band con una carriera ultradecennale che in un'era in cui non si vendono più cd (ma da mò...) ne fa uscire ben tre. Un trittico di album ognuno col suo bel titolo e la sua ambientazione sonora, pieno di svariate collaborazioni (Emanuele Fiordellisi e Giulia Sarno da Une Passante, Gabrielli, Benvegnù etc...) e votato alla sperimentazione di atmosfere tanto variegate quanto unite da un invisibile filo conduttore, uno stile coerente che emerge tanto nei brani più rock quanto nelle preponderanti divagazioni elettroniche, siano esse minimalmente psichedeliche o totalmente votate all'avanguardia sonora.
Inizio il viaggio da Puro Nylon 100%, in cui l'incipit claustrofobico di “Madre”, basso e batteria a dettare un ritmo lento ed ossessivo solcato da parole, rumorismi elettronici, rade note di chitarra elettrica e violini, nasconde la reale natura del disco: sono infatti le atmosfere rarefatte e minimali le vere padrone, ben delineate dalle “Variazioni Su Un Campione Di Erik Satie”che oscillano fra violini ed effetti elettronici inquieti per lasciare spazio, al quarto assalto, anche alla chitarra elettrica, ma sono soprattutto “Oltre” ed il suo ideale seguito, “Ancora Più Oltre” a lasciare il segno. Muovendosi lungo la stessa melodia la prima si regge quasi esclusivamente su un giro di basso mellifluo ed avvolgente, la seconda lascia spazio alla tromba di improvvisare lungo i tre minuti del brano, una tromba capace di rapire già nella precedente “In Ogni Dove”, notturna suite dal mood raffinato e rilassante. Come una mosca bianca si inserisce in tutto questo “Obsoleto Blues”, mutevole brano dal fortissimo groove dove basso (ora “liscio” ora graniticamente distorto) e batteria dettano il ritmo mentre alla chitarra è lasciato il compito di creare psichedeliche visioni sonore su quel tappeto, un tappeto che da metà brano si fa quasi tribale in una folle corsa sui fusti da parte della batteria.
Microonde Vibroplettri segue a ruota nell'ordine di ascolto, e qui il discorso si fa complicato. I Deadburger, nella persona di Vittorio Nistri per i primi brani e di Alessandro Casini nella seconda parte, danno infatti libero sfogo alla sperimentazione perlopiù elettronica, piazzando qualche buon colpo con la liquidità minimal-psichedelica dell'orientaleggiante “Il Dentista Di Tangeri” e con i distortissimi incroci chitarristici di “Cuore Di Rana” (che sanno molto di Butthole Surfers) ma buttandosi per il resto sui rumorismi troppo fini a sé stessi di “La Mia Vita Dentro Il Forno A Microonde” e “Magnetron” o sul ritmo ripetitivo ed estenuante di “Strategia Del Topo”. Va un po' meglio con la struttura delirante di “Dr. Quatermass, I Presume” e con la dilatazione da trip di “Micronauta”, ma quando arriva la chiusura col ritorno di basso e chitarre a tratteggiare un percorso ripetitivo ma tutto sommato piacevole in “Arando I Campi Di Vetro” le somme che tiro non sono positive quanto nel disco precedente.
La Fisica Delle Nuvole, parte conclusiva del trittico nonché episodio che dà il titolo al'intera produzione, ritorna su atmosfere meno criptiche: fra la new wave oscura e mediorentaleggiante di “Amber”, il groove rock di “Bruciando Il Piccolo Padre” ed il funky alla lunga estenuante di “Deposito 423” questa parte del progetto rivela il lato più tradizionalmente rock della band, anche se non mancano episodi più rarefatti fra cui già l'iniziale title track, in cui la levità dei suoni viene amplificata dal testo, parlato, rubato a Kurt Vonnegut, o in “Wormhole”, dove il tappeto di basso viene solcato da tromba e violini e, brevemente, anche da un duetto di voci maschile e femminile ben congegnato. Il vocalist Simone Tilli esce qui in maniera preponderante, sfoggiando un tono perlopiù greve che ben si adatta alle varie atmosfere, anche se certe forzature metriche in “Bruciando Il Piccolo Padre” sanno di esercizio di stile un po' fine a sé stesso, almeno finchè il groove del pezzo non riesce a sopperire ad un inizio un po' balbettante. C'è spazio anche per brani dal ritmo quasi tribale come “Cose Che Si Rompono” e “Il Mare E' Scomparso”, trascinati dalla fantasia del batterista. Il mood è meno coinvolgente rispetto al primo disco, ma la varietà di atmosfere riesce comunque ad elevare anche questa porzione del lavoro a buoni livelli ed a concludere degnamente l'intero viaggio.

E' difficile valutare un'opera così variegata e monumentale nelle sue dimensioni, un'opera che non può essere scissa fra l'altro dalla sua componente fisica: dalla cover, realizzata da Paolo Bacilieri, all'albo di 64 pagine a cui lo stesso artista ha contribuito. Un albo essenziale per comprendere meglio tutto il lavoro, che permette di scoprire retroscena legati agli spettacoli teatrali di cui questi brani sono stati “colonna sonora” (registrati e in alcuni casi modificati apposta per l'occasione nonostante ripercorrano un arco temporale di 10 anni) oltre a gustosi inserti di cultura spicciola sempre legati a doppio filo ai titoli ed agli argomenti, tutti riuniti sotto la dicitura “Poor Robot's Almanack”, personaggio quest'ultimo che può essere definito come una mascotte dell'intero lavoro. Per tutti questi piccoli e grandi dettagli non si può non consigliare la nuova fatica dei Deadburger, una formazione in continua evoluzione che con La Fisica Delle Nuvole riesce a delineare chiaramente la propria natura multimediale ed artisticamente bulimica.


Voto: ◆◆◆
Label: Snowdonia / Goodfellas


giovedì 26 settembre 2013

Clock DVA - Post-sign (Recensione)

Il Mercury project è un pezzo di storia della storia americana e, più in generale, di quella dell’umanità in rapporto con lo spazio, la prima missione del genere creata dalla allora nascente NASA, ed è anche un concept album che, tanti anni dopo la sua realizzazione, Adi Newton alias Clock DVA ha portato a compimento con questa tardiva release, contenente brani composti tra il 1994 e il 1996 finora chiusi in un cassetto, secondo la medesima dichiarazione dell’artista. La sua creatura, famosa per essere annoverata nel seminale trio di acts responsabili del primigenio sviluppo della musica industriale, si è fatta, nella sua storia, portatrice del nascente messaggio cyberpunk che, anche in questa sede, continua a mostrare nella sua forma più evoluta, proponendo un sound frutto della sperimentazione della metà degli anni ’90, legato in particolar modo a quello shift verso l’electronica e in particolare la techno che molta della musica poi definita electro industrial lancia in questi anni su scala mondiale. Sebbene il suono, che sia un pregio o un difetto, risulti piuttosto datato nei mezzi e nella qualità, ciò dona alla presente un’aura di sacralità, laddove il dibattito benjaminiano incontra i mezzi che la musica elettronica mette a disposizione, una riproducibilità nella sua irriproducibilità tecnica. Ascoltare oggi questi dodici brani fa tornare la memoria a tempi non vissuti dalla maggior parte delle generazioni, a un momento storico in cui la musica industriale non aveva dei reali confini, se non, come unici, il fatto di superarli costantemente tramite il circuito della sperimentazione. E la sperimentazione è la chiave di volta di questi brani non cantati, nenie quasi ipnotiche, talvolta lunghe, talaltra più stringate, che esprimono un senso di astrazione dalla realtà odierna e che alienano nello spazio, rimandando la mente ai tempi dei primi viaggi umani fuori dall’orbita terrestre. Qualcuno ha cominciato ad etichettare questa musica come una forma primitiva di dark ambient, forse questo è vero in parte, ma quel che è più certo è che i confini in questa sede sono molto labili e abbracciano tutto quello che in quel momento veniva considerato al suo apice. Laddove molti degli artisti industriali in quegli anni inseguono una presunta fisicità comunque parzialmente lontana dalle premesse di un genere che fa del sintetizzatore la sua intrinseca magia, l’artista, appartenente alla seconda categoria, porta avanti il discorso aprendosi verso i nuovi lidi elettronici europei di quegli anni, e facendoci pensare al punto in cui sarebbe potuto arrivare se ancora oggi avesse continuato a sfornare releases di nuovo materiale, in quanto il suddetto è pur sempre un lavoro di materiale a posteriori. Quel che è indubbio è che Adi Newton si conferma un grande artista e sperimentatore, uno dei più grandi degli anni ’80, e questa release riaccende un dibattito sepolto anni fa. La scelta di proporre un lavoro strumentale fa da pendant con Digital soundtracks del 1992 e riassume quel bisogno di espandere una musica parzialmente legata alla forma canzone in qualcosa di più largo respiro, intendendo l’operazione come una estensione del lavoro precedente, così come il presente rappresenta idealmente l’estensione del precedente disco in studio Sign del 1993. Musicalmente, ma soprattutto idealmente, l’artista appartiene ad un’altra generazione di musica industriale, lì dove l’atmosfera e il messaggio contano molto più di una presenza scenica, oggi invece preponderante, figlia del fenomeno EBM dei primi anni ’90. Oggi non è semplice comprendere il messaggio di Newton e non ci si aspetta che questo disco aiuti nello scopo, ma senz’altro ci saranno molte persone che apprezzeranno la sua scelta.

Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Anterior Research Media Comm

mercoledì 25 settembre 2013

Jack Day - The First Ten (Recensione)

E’ solo una perdita immensa di tempo stare a formulare mille e più mille frasi per circoscrivere la melanconica bellezza di un disco di un cantautorato semplice, scarno e con la bocca storta propria di quando se è incazzati col mondo intero ma lo si esterna quasi in silenzio, con quei pensieri di fondo che arrivano, sbottano digrignando e poi se ne escono con la timidezza di un piccolo riccio d’innanzi al rotondo buono di una luna piena. Si, è proprio come scrivo il disco d’esordio di Jack Day, giovanotto londinese al quale non importa fare a gara con la moda o essere messo sul piedistallo dei nuovi eroi della poesia solitaria, lui arriva con “The First Ten”, cavalca l’onda della spontaneità e con dieci brani che fanno concorrenza alle friabilità delle nuvole, mette subito a segno un ascolto tenero e assorto in un qualche punto del cielo.
Prodotto dal boss del Bark Studios Brian O’Shaugnessy che già tanto si è prodigato per Primal Scream tra i tanti, il disco porta con sé molte eco vintage di lontani crepuscoli folk e altrettanti angeli che si alternano per ricamarne gli orli come Cat Stevens, Dylan, Springsteen o Bill Fay, tracce che una volta messe a girare, rilasciano come una pozione benigna, tutte le atmosfere looner che una chitarra melanconica possa rilasciare, tecniche di cuore e poco d’artificio pronte a confezionare momenti da incorniciare nella mente; e un silenzio cantato e suonato è sempre portatore di radicalità consistenti, e l’artista Day regala una lezione di estetica che già potrebbe essere una voce autorevole nel nuovo folkly inglese, soprattutto per i suoi rimandi colti e con gli sguardi verso certe simbologie d’antan, comunque e sempre piacevolmente onnivore di bellezza.
Un piccolo “vortice gentile” pregno di emanazioni dolciastre, le ballate stringi cuore “Just a little time” , “I have been conveyed”, il tocco elettrico Cooderiano “Bird song”, il Dylan dei Canyon marroni “Isn’t it strange” e il fichissimo fingerpicking che fa da collante e rugiada in “Shadows in the sun”, tutte cose che travalicano le emozioni e ne procurano altre, un continuo teatro dello stupore che senza far ricorso a marchingegni o strutture musicali statuarie vince e fa vincere chi cerca nella musica delle “povere cose” la ricchezza inestimabile della musica.    

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Buckefull Of Brains 


martedì 24 settembre 2013

L'AMO - Niente (è un bel pensiero da mettere tra le gambe alle ragazze) (Recensione)

Settembre. Si riaprono le aule. 
E da bravi scolaretti quali sono, i L'amo portano in classe un disco tutto nuovo: Niente (è un bel pensiero da mettere tra le gambe alle ragazze). Dopo una nota sul registro per il titolo dalle vaghe allusioni pornografiche e l'artwork a metà tra un fumetto pastello e originale trash filopartenopeo, passiamo all'ascolto delle dieci tracce. 

Come ogni buon disco emo-punk (o post-pre-pop-punk.. insomma, quella roba lì) il ritmo è teso e veloce, urlato, disperato, lo-fi senza essere lo-fi.. Una sveltina musicale oserei dire, ma di quelle che ti rimangono in testa e il giorno dopo pensi "Cazzo perchè non mi richiama?". E continui a vagare in giro con quella voce in testa che ti fa "a Bagnoli ta ta ta ta ta a Bagnoli" o "lei vuole salire, salire, salire!" ecc ecc. Un genere di tendenza che i L'amo riescono però a spremere ancora, levigando le sue tendenze più estreme e rendendolo gradevole anche alle orecchie meno allenate, o perlomeno che tollerano un numero accettabile di decibel. Un disco che racconta delle solitudini, dei rapporti finiti, di mani che si toccano e si lasciano, che si può essere tristi e avere voglia di urlare a Napoli come a Milano, e forse di più. Una consapevolezza intellettuale seppellita dal contesto esterno, che mira invece a incuriosire col nonsense sorridente dei titoli e la grafica succinta in pieno stile Italiano Medio. Musicalmente ottimo, breve e coinciso come un riassunto di storia (escludendo divagazioni come "Ubriaca", che trascende un pizzico i canoni e scoccia pure un po' a dir la verità), un passo deciso verso un'esame di maturità che li promuoverà sicuramente a pieni voti. Ritmi saltellanti e adolescenziali in "Bagnoli" o "Macchina da guerra" (da cui è tratto il titolo dell'album), l'amarezza di "Marinai" o "Nessun rimorso, solo rimpianti", liriche magistralmente brevi, chitarroni, arpeggi e amore, tanto amore. Amore per questa vita di merda, per te che non ci sei e per me che non ti voglio. O forse ti voglio. 

L'anno scolastico ricomincia e i L'amo vi offrono la colonna sonora perfetta per qualsiasi cosa voi aveste intenzione di fare: bombe in cortile, limonamenti vari appiccicati alla ringhiera, compiti copiati, un pugno sul naso, il tuo sguardo che non incontra mai il mio. Ascoltate senza paura, alla maestra piacerà!

Scarica gratuitamente il disco qui.

Voto : ◆◆◇◇
Label : Fallodischi, V4V, To Lose La Track, La Fine

lunedì 23 settembre 2013

Lolaplay - La città del niente (Recensione)

Premessa en pendant con l'artwork del disco, secondo lavoro della band: del maiale non si butta via niente, ci ricavi un po' di tutto, quello che ti pare: le cotiche da mangiare coi faglioli, il filetto da fare in crosta, setole per pennelli.

Da “La città del niente” non è facilissimo capire cosa si può ricavare di preciso. Nell'immediato l'ascolto dell'album è godibile per energia e piglio istintuale, e ce n'è anche per gli amanti di genuine ballate di classico rock nostrano senza troppi fronzoli o sperimentazioni (in particolare, "Musa" e "L'antidoto"). E tuttavia, l'impressione che resta in testa alla fine del disco è quella di un disegno abbozzato su un pezzettaccio di carta spallottolato dopo un giro di centrifuga nei pantaloni, vuoi per gli inserti elettronici non sempre del tutto in assetto, vuoi ancor di più per qualche colpo di sonno sul fronte lirico. Cosicché, se il lavoro si apre in "La città del niente" con un sanissimo proclama di intenti antagonisti della serie “questa città è un giardino che vive solamente di istrionici cliché”, poi però qua e là si scivola su qualche istrionico cliché – per l'appunto - di troppo (“questa città è puttana, sembra che ti dia e invece lei prende”). L'ironia del brano a seguire "Non comprate questo disco", costruita su di un ritmo tiratissimo e sull'iterazione ossessiva di “dovreste” e pseudo-consigli al negativo (“dovreste scriver più canzoni d'amore, dovreste abbassare tutto il volume, dovreste essere meno offensivi, dovreste anche fare meno i cretini, dovreste suonare molte più cover, dovreste usare molte più scale, dovreste essere molto più blues, molto più jazz, molto più funky, dovreste essere molto più belli per la tv e per la radio italiana, dovreste anche imparare a ballare ed aver più rispetto per gli amici di amici”) si dà la proverbiale zappa sui piedi in finale di partita con un goffo “non comprate questo disco e non ascoltate i Lolaplay!, ucciderete anche voi la buona musica”; il tutto al termine di una raffica di mitra sulla Croce Rossa: “dovreste amare tutte le Lollipop che han venduto molto più di voi, dovreste portare indietro il bacino e non rinunciare al Capitan Uncino”. 
 
È un peccato che il disco butti tempo e spazio su salotti televisivi e poracciate varie, perché in altri episodi i Lolaplay sanno essere nettamente più convincenti (Fantasma su tutti).
Restiamo fiduciosi in attesa di prove future più caratterizzanti e meno discontinue.


Voto : ◆◆◇◇◇
Label : GodZ


sabato 21 settembre 2013

Santo Niente - Mare Tranquillitatis (Recensione)

Come se fosse Antony con la sinistra a scrivere di musica prematurata, con la superspazzola, ma soltanto se blinda. 

Mi è venuto in mente Ugo Tognazzi quando ho visto il videoclip de "Le Ragazze Italiane" rendendomi conto che non avrei scritto nulla di particolarmente buono. Si, perché a detta di molti le recensioni non servono più a nulla, e allora Amici Miei spero vi vadano bene le supercazzole riviste per l'occasione, perché pare che parlare del Santo Niente sia diventato impossibile, sempre come una commedia all'italiana in cui avviene tutto e il contrario di tutto. 


Non sono mai andato pazzo per questa band ma ne riconosco l'importanza, soprattutto con questa formazione nella quale in pianta stabile troviamo 3/4 dei Death Mantra For Lazarus (dunque 2/5 degli Zippo) più ovviamente Umberto Palazzo. Quest'ultimo una figura storica che in questi anni ho rivalutato molto, dapprima grazie a El Santo Nada e poi nel suo album da solista. In Mare Tranquillitatis che arriva dopo sei anni di distanza dal precedente assetto, sentiamo il sound stoner di Pescara in "Cristo Nel Cemento", poi la sottile ironia di "Le Ragazze Italiane", perché chi ha vissuto l' Umberto Palazzo uomo conosce i particolari e lo dico francamente: sembra più un pezzo dedicato a qualcuno in particolare che al generico andare delle cose. Probabilmente questa è una canzone d'amore, di quelle scritte per caratterizzare l'emancipazione femminile dalla forte carica seduttrice, in perenne contrasto al bigottismo. Casa & chiesa 2.0. Ovviamente con scappellamento a destra.

Poi, a conferma di ciò che ho sostenuto poco fa, in "Un Certo Tipo di Problema" si evince che Pescara, o il mondo intero è pieno di riottosi disturbatori della vita altrui. Me ne sono accorto frequentando il Wake Up, del quale Palazzo era direttore artistico. Era più che giusto dedicare una canzone a certi dementi, "I Ragazzi Italiani" esaltati che dio non li benedica mai e poi mai. In questo brano Palazzo si avvale della forma reading, necessaria per calcare la mano su di una storia che è dannatamente difficile da musicare ma che dal vivo darà un certo peso e senso di rivalsa o di preavviso a tutti coloro che avranno ancora la faccia tosta di recarsi dall'artista con la presunzione di poter sparare a zero, sbronzi, strafatti e strafottenti, sostenendo cose al limite dell'inverosimile; individui che abusano della scusante perdita di controllo, fondandola a ragione di vita, invidiosi della tranquillità altrui. Gli scatenatori di risse del sabato sera. Pescara like Messico: un inferno nel quale è impossibile vivere dignitosamente. 

Poi arriva "Maria Callas". Un gran pezzo nato inizialmente dalla collaborazione con i Death Mantra for Lazarus e rivisto in chiave diversa in Mare Tranquillitatis. Perde molto dell'assetto originale, ma di certo sancisce il connubio tra Palazzo e le sue nuove leve nella rinascita del Santo Niente. Il testo di "Maria Callas" è uno di quelli per cui Umberto Palazzo andrebbe invogliato a scrivere un fottuto libro, perché ne ha di cose da raccontare nel suo stile pacato ma senza peli sulla lingua.



Una considerazione a parte va fatta per la voce: in questo album spicca notevolmente, si nota una maggiore cura della dizione, in un suono molto più scuro e sicuro, meno malinconico e più consapevole di ciò che ci sta sbattendo in faccia. Con questo lavoro Umberto Palazzo inevitabilmente assume la stazza artistica ammirata quanto in parte odiata di Mimì, non che prima non ne godesse, ma si ode maggior carico enfatico, una maggior presa di coscienza di sè. Umberto che si misura ancora con un pubblico diviso tra chi lo ama e chi lo odia, dove spicca sornione con il solito ghigno che vuol comunicare un grosso "sti cazzi, faccio quel che mi pare, intesi"?

"Primo Sangue" è una sorta di provocazione; posto lì sul finale per far parlare a vanvera gente che vorrebbe una band sempre uguale, perché se c'è qualcosa che in Italia pare non si riesca proprio ad avere è un'apertura mentale. Dunque qualcuno potrebbe non cogliere che quel pezzo fa dell'antropologia musicale e, al quale va un plauso per il coraggio e il menefreghismo di un ritorno sulle scene con musicisti cazzuti che si prestano alla sperimentazione Fifty Fifty come se fosse mea culpa, alla supercazzola… "Sabato Simon Rodia" è un brano della madonna, non aggiungo altro che se siete arrivati fin qui è già un miracolo.


Ultima osservazione sul titolo, quasi a cozzare con la più bella copertina di sempre dei Santo Niente, un mare lunare come quel brano di Vangelis dell'album "Albedo 0.39". Mi sbaglierò ma è senz'altro antani, come trazione per due anche se fosse supercazzola bitumata.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Twelve Records

venerdì 20 settembre 2013

Nine inch nails - Hesitation marks (Recensione)

Recensione scritta a quattro mani: A.Violante & Martina F.

E' innegabile che il nuovo disco targato NIN sia stato considerato una sorpresa e, immediatamente dopo la notizia che ne annunciava l'uscita, uno dei lavori più attesi di quest'anno, in prima istanza perchè Trent Reznor è stato, nel bene e nel male, vero o falso che sia, uno dei personaggi più importanti della musica alternativa anni '90, mai troppo vicino agli schemi della MTV generation eppure, per certi versi, parte del carrozzone insieme ad altri artisti come Marylin Manson. Il motivo principale che però spinge a parlare di questo prodotto è che il suo monicker è, a torto o a ragione, una forte fonte di ispirazione per molti di coloro che sono affini al contesto musicale post-industriale, in particolar modo quello legato al genere dell'industrial rock, del quale senza dubbio il suddetto progetto è il massimo esempio commerciale, forse l'unico che riesce ad avere delle vendite importanti. Vuoi per l'avvicinamento alla formula pop, vuoi per l'estro del polistrumentista e soprattutto per la sua forza comunicativa, che ha giocato e gioca un ruolo fondamentale per l'inserimento della sua proposta all'interno degli scaffali di molti negozi di dischi, a scapito della maggior parte dei suoi colleghi (e non).

Questa sottile, ma non velata, accezione negativa è conseguente solo all'ascolto di questa ultima costruzione sonora, non di certo per chi ha ancora gli occhi al passato della peregrinazione artistica dell'artista, iniziata con un simil industrial rock di pronto successo e proseguita sempre più verso l'elettronica e il rock ad episodi alterni.  NIN nel 2013  fa rimpiangere quello che Trent ha fatto con il suo side project How to destroy angels nel recentissimo passato, ovvero dopo la pubblicazione del primo full length.

L'operazione dell'artista potrebbe essere riassunta come il tentativo di dimostrare le sue doti di produttore e di selezionatore di suoni all'interno di un microcosmo musicale che và dal brit rock all'electronica, passando per i ritmi africani del dub e dell'hip hop. Cosa ne viene fuori? un disco estremamente eterogeneo che mostra molti lati della sua creatura poliedrica, ma che trova la sua identità in un troppo lungo ed informe collage.

Dopo una breve introduzione, evitabile, Copy of A, uno dei brani migliori, evidenzia dal punto di vista lirico e da quello musicale un attaccamento alle radici di una elettronica minimale in cui un motivo facilmente memorizzabile costruisce un brano incalzante electro pop che fa ben sperare, e il successivo singolo Come back haunted, nel suo leccare la teoria del disco d'oro e delle classifiche riesce comunque a convincere con la sua eterna sincope che fa presa sull'americano medio, e non solo. Find my way è il primo brano lento e funziona bene nella migliore tradizione di quei brani che, nella loro personificazione degli stati d'animo degli ascoltatori hanno fatto e fanno il successo del brand NIN, e così via per brani non particolarmente degni di nota ma comunque ben composti fino al succitato brit rock di Everything, al dub di Satellite per poi tornare verso lidi legati in misura maggiore al side project.

Senza particolari reminiscenze, nulla in questo album riesce a mantenere in auge l'abilità nella sperimentazione di Reznor, che si limita, in più riprese, ad esorcizzare nei testi la figura mera e precaria dell'essere umano. Ci sono brani per tutti i gusti che funzionano molto bene e che faranno breccia in più di qualche cuore, ma che non trasmettono niente al di fuori del riuscito prodotto di un supermercato che vende sempre e comunque.

Ma la musica, e questo dipende da chi la concepisce, non è un supermercato ma una forma d'arte e, secondo chi scrive Trent non fa più musica per fare arte, perchè al di là dei suoni, della produzione e dei testi riciclati si trova il vuoto cosmico di chi ha finito di dire quello che voleva dire. Questo concetto è lontano da quello di industrial ma, infatti, egli non lo è più e non è neanche un artista elettronico. Bisogna riconoscergli, però, che riesce ancora oggi a rendere al meglio quello che il mercato propone con il suo tocco personalissimo. E' tanto? E' poco? E' abbastanza? Forse è abbastanza, e questo non è per niente male, ma se cercate musica fatta per fare musica il consiglio è quello di rivolgersi altrove.

"A copy of a copy of a copy .."

Label: Columbia records
Voto: A.Violante: ◆◆◆◇◇ - Martina F. : ◆◆◇◇

giovedì 19 settembre 2013

Il Capro - Le Notti Del Maligno Vol.1: Il Riflesso Della Morte (Recensione)

Qualche anno fa io ed il webmaster di un sito di cui non faremo il nome mettemmo su un ipotetico duo chitarra-voce di reading distorto, una specie di plagio degli Offlaga Disco Pax (lui parlava con la stessa indolenza) con testi improbabilmente violenti e chitarra suonata male da me, che prendevo influenze a caso da colonne sonore come quelle di Cannibal Holocaust, Lo Squalo e Blood Simple (vi ho messo in difficoltà con l'ultimo eh?). Perchè racconto questo oscuro e misconosciuto episodio musicale dell'underground vigevanese? Perchè la mia idea di riutilizzare colonne sonore e ricamarci su qualcosa (per fare da accompagnamento alla storia di una moglie che cerca di ammazzare il marito mettendogli il valium nelle brioche a colazione con l'aiuto dell'amante ad esempio, grazie Cronaca Vera per le ispirazioni) è stata ripresa dagli Il Capro, poker di strumentisti di Foligno che però ha una cosa in più rispetto ai [Progetto Morosa] (sì, ci chiamavamo così): sanno suonare e hanno idee migliori.


In meno di un quarto d'ora il gruppo espande e reinterpreta in modo ancora più sulfureo i temi di Psycho (in due parti), Lo Squalo e Rosemary's Baby, mischiando il prog col metal e aumentando a dismisura il livello di inquietudine che le pellicole potevano creare allo spettatore. Particolarmente il duo centrale “Psycho – Prelude” e “Jaws” si rivela fonte di disagio (nel senso buono del termine), grazie al violino e ad una tastiera stridula ed acida che fanno sembrare il tutto come composizioni dei primi Litfiba pompati di steroidi o pezzi de Le Maschere Di Clara che si danno allo stoner. Sono però il breve incipit “Psycho – The Murder”, satanica e breve progressione di accordi dal sapore doom, e soprattutto la conclusiva “Rosemary's Baby” a lasciare il segno, con quest'ultima che abbassa i toni e conclude il lavoro fra un triste violino, arpeggi di chitarra e una tastiera spettrale quanto l'atmosfera da ghost story creata.

Le Notti Del Maligno Vol.1: Il Riflesso Della Morte è un lavoro interessante, originale e lodevole. Ha un solo difetto: dura poco. Quattro brani per poco più di 10 minuti di durata bastano a farsi venire l'acquolina in bocca, per dire soddisfatti “bravi, bene, bis”, ma più in là non mi sento di spingermi per ora. Quando e se Il Capro avrà tempo e voglia di infestare le mie notti con nuovi incubi sonori sarò ben lieto di vedere se potrò andare oltre la piena sufficienza che già si meritano, per ora mi limito a consigliar loro il prossimo pezzo da rivisitare: Cannibal Holocaust. Dai, accettate la sfida.
Per tutti gli altri, invece, godetevi il corto diretto da Federico Sfascia che accompagna l'ep in maniera magistrale fra demenzialità, inquietudine e citazionismo sparso: lo trovate qua sotto, guardatelo e non ve ne pentirete.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Black Vagina


mercoledì 18 settembre 2013

Scott Matthew - Unlearned (Recensione)

Un paio di anni fa, recensendo un altro album di sole covers (il delizioso I Already Love You della dolce Sara Lov), scrivevo che “la reinterpretazione di canzoni altrui non è un’arte semplice. E’ una avventura in cui molti si buttano ed, ahimè, tante volte il risultato può lasciare interdetti”.
Non è questo il caso di Unlearned che, come recitano i dizionari, è il participio passato del verbo “to unlearn” che significa “disimparare”.
Nel caso di Scott, cantautore australiano con all’attivo già 3 album da solista ed uno come componente della band Elva Snow, potremmo metterla così: dimenticare come si conosceva/faceva qualcosa prima, per farla in modo differente ora.
E ascoltando questo album vi accorgerete che non vi è titolo più adatto.
Le canzoni vengono spogliate della loro veste (a volte sontuosa) originaria e rivestite con abiti succinti, la voce (calda, bellissima ed espressiva) di Scott, un piano, una chitarra oppure un ukulele, e poche altre note sparse di qualche altro strumento...
Scott spazia in generi ed epoche molto differenti, raccogliendo, per la maggior parte, brani molto conosciuti, già (re)interpretati da tanti altri artisti e che tra di loro hanno poco o nulla a che fare.



Cosa possono aver in comune i fratelli Gibbs (a loro l’onore di aprire le “danze” con "To Love Somebody") ed i fratelli Reid (piena di pathos la reinterpretazione di quello splendore intitolato "Darklands")? Oppure Whitney Houston ("I Wanna Dance With Somebody") con Moz ("There’s A Place In Hell For Me And My Friends")? E che dire di Charlie Chaplin (Smile) contrapposto al canto disperato di Ian Curtis ("Love Will Tear Us Apart")?



Naturalmente nelle versioni originali questi brani striderebbero a giacere l’uno accanto all’altro ma il trattamento a cui le sottopone l’australiano smorza gli “eccessi” (siano essi punk, grunge oppure disco o country o quel che volete voi), conferendo un filo conduttore unico dato dal minimalismo musicale e dalla delicata, malinconica sensibilità dell’interprete che li pervade.
Un’opera affascinante, insomma, e senza tempo, adatta ad essere ascoltata più nel corso delle uggiose giornate autunnali che nel caldo estivo, magari non tutta d’un fiato (soprattutto se, oltre alle 14 tracce originarie, avete anche le 4 extratracks disponibili solo in download) dato che  l’uniformità stilistica, di cui si diceva, è sì una caratteristica precipua ma anche un limite che, però, non intacca assolutamente il risultato finale.

Voto:  ◆◆◆◆◇
Label: Glitterhouse Records

martedì 17 settembre 2013

Green like July - Build a fire (Recensione)

Immaginate di chiudere per un attimo gli occhi.
E di escludere dal campo visivo il disordine compulsivo della vostra cameretta da rockers. 
Immaginate il verde, tanto verde intorno... con le gocce di rugiada, il cielo nuvoloso e tutto il resto: un contesto che si addice perfettamente al nuovo lavoro dei Green like July

In uscita il 17 settembre per La Tempesta International, Build a fire è un piccolo capolavoro che mescola sapientemente la sua vena retrò con divagazioni pop italiano anni 60, un sapore di country acustico americano e celestiali armonie degne dei Beatles degli anni migliori. Dolce, fresco, palpitante come il cuore di un bambino, di un'innocenza che lascia incantati e ci trasporta in una dimensione irreale. Registrato in Nebraska nello studio dei Bright Eyes con il produttore A. J. Mogis e gli arrangiamenti di Enrico Gabrielli, il disco può vantare anche di altre prestigiose collaborazioni come le chitarre di Mike Mogis (dei Bright Eyes appunto) in Tonight's the night e la voce di Jake Bellows (Neva Dinova). Le tracce sono nove ed esplorano con candore uno spazio siderale pieno di romanticismo, nostalgia e un velo di tristezza: una specie di fiaba per mettere a letto anche i bambini più grandi e una ninnananna per i grandi che dentro sono ancora bambini. C'è dentro un po' di John Denver, di Rolling Stones in pieno Let it bleed (in Borrowed times per la precisione), del Ben Harper di Diamonds on the inside e Credence Clearwater revival, tutto impastato con mani fatate in un magico pop acustico che sa di magia e meraviglie. 

Probabilmente non sarà la novità dell'anno, ma col suo suono suono vintage, morbido e scintillante Build a fire riuscirà di certo a strapparvi una qualche emozione da quell'animo ingrigito che tanto vi vantate di avere. Pace.


Voto: ◆◆◆◆◇
Label: La Tempesta International



lunedì 16 settembre 2013

DangerLies - Zitto e Urla (Recensione)

Da cover band a protagonisti dei sintomi hard rock di casa nostra, i genovesi DangerLies con l’otto tracce Zitto E Urla si mettono in mostra in tutta la loro superba eccentricità amplificata, un disco che si agita tra le mezzerie dei jack infiammati dello street rock di marca Gun’s e i quadrilateri tricolori di Timoria, un disco che senza inventarsi nulla, (ri)esporta prima ancora che rispolverare, le baldanzosità di una decade sonora che ancora nell’oggi batte quattro e facilita la presa diretta con il rock di pronto impatto. del suono primario e grezzo.
Dicevamo otto tracce ben realizzate, una perfetta dissonanza che una volta inserita tra questi ascolti indie e traiettorie sperimentali, danno quel buon contrasto stilistico, se non temporale, un fulmine nei cieli sereni ed innocui della musica odierna che nel suo corto vitalizio stereo esplode, colpisce e lascia molto dietro di sé, perlomeno l’immagine e l’istantanea di una deja vu tutto watt e poetica stradaiola che fa tanto sciccoso e style; ballatone killer e suoni canaglia sono i principali motori sonici del lotto, l’andamento sgarrato e la dolce maledizione persa nei miti distorti colorano la tracklist dalla prima all’ultima nota tanto che quello che dall’inizio si potrebbe scambiare per un’operazione nostalgia si trasforma in pochi giri in una rivalutazione validissima di polveri e fuochi – in fondo – mai spenti del tutto, anzi.
Ottimi lavorii di chitarra, una voce teatrante, ritmiche preziose e atmosfere sincopate fanno parte della lavorazione di gruppo, sapori vissuti e scuri pirotecnici convolano alla stesura di un disco che decora la voglia mai sopita di good vibes, la forza di quel rock che poi è un atto di fede conclamato, viscerale, e che i DangerLies riportano tra lapilli e tonalità che fanno zompare il cuore; impatto e melodia sono un tutt’uno nell’insieme dei brani, l’irruenza smagliante di “Black Mamba”, l’epicità convulsa “Vertigini”, il lounge appassionato e collar “Persa nel blues (un passo)” e la stimabile necessità espressività di un virtuale Renga a cavallo di “Corri via”, convenzionano un ascolto pregevole che fa la quadratura del cerchio, una cascata di note e di stimmate che non passano inosservate e tantomeno retoriche.
Vale la pena farci un bel giretto dentro, vale la pena lasciarci una mezz’oretta del vostro tempo, sound e cuore vi aspettano.            

Voto: ◆◆◆
Autoproduzione

venerdì 13 settembre 2013

Wolther Goes Stranger - Love Can't Talk (Recensione)

E' una fuga di cervelli quella che va in scena dalla rinomata ditta degli A Classic Education, una fuga per fortuna loro solo momentanea: s'è preso i suoi spazi al di fuori del progetto “principale”, se così si può dire, il vocalist Jonathan Clancy (ospite anche qui nella traccia “Sixteen”) col suo moniker His Clancyness, se la viaggia su altri lidi da qualche tempo anche il chitarrista Luca Mazzieri coi Wolther Goes Stranger. Love Can't Talk è il primo full lenght della band che ha costruito con il contributo di Massimo Colucci e Linda Brusiani, un traguardo raggiunto dopo un paio di ep e che cerca di creare un curioso connubio fra atmosfere elettroniche da dancefloor e rarefazioni sonore diafane e decisamente più ricercate.

Darling” indica la via in maniera autoritaria ed efficace, lasciando il beat in sottofondo per far spazio alla tastiera e, da metà pezzo, al fondamentale sassofono di Stefano Cristi (quarto componente dal vivo della band), ma già dalla successiva “Your Name” i bpm si fanno più pressanti e le tinte più scure, mentre entrano i vocalizzi di Linda a duettare col cantato in parte in inglese ed in parte in italiano (scelta rivedibile nel caso specifico) di Luca. “I'm Sorry”, che si avvale pienamente della voce di Linda e del testo (non ispiratissimo) di Alessandro Raina, aumenta la vocazione danzereccia inserendo però efficacemente la chitarra di Luca in punti strategici che spezzano un po' l'altrimenti fin troppo ripetitivo andazzo della canzone, mentre “Idol” è un tuffo nelle atmosfere new wave degli anni 80, solo leggermente ammodernate per l'occasione. “Sailor” è un divertissement fine a sé stesso, una trentina di secondi a fare da spartitraffico per la seconda metà dell'album che si apre col groove contagioso di “Jesus”, trascinata da una linea di basso ripetitiva ma efficace, diversa quasi come la notte dal giorno dalla seguente “Sometimes”, dove il duetto di voci non rende pienamente giustizia al tappeto elettronico arioso e decisamente estivo che le accompagna. “Sixteen” riprende in parte quel tono altolocato con cui si è aperto il disco, mischiandolo sapientemente con un ritmo ripetuto ed incalzante, lasciando poi spazio all'elettronica evanescente e al cantato riverberato di Luca nella conclusiva “Julesdormeinberlin”, un modo bizzarro di finire quasi sfumando il percorso musicale del disco.

E' un disco sicuramente affascinante Love Can't Talk, ma non sempre riesce a mantenere quell'equilibrio raro fra la vocazione dance e una ricerca sonora minuziosa ed ammaliante. L'iniziale “Darling” rimane così l'episodio migliore di un album che decide di fare della varietà il suo vanto invece che della coesione stilistica, pur rimanendo nei solchi di un'identità musicale assolutamente ben definita. I Wolther Goes Stranger sanno quel che vogliono, e con testi più incisivi e parti vocali più particolareggiate possono sicuramente fare di meglio rispetto ad un esordio sulla lunga distanza positivo ma che lascia qualche punto in sospeso.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: La Barberia Records


giovedì 12 settembre 2013

Revglow - Sound Post Tension (Recensione)

Avevamo lasciato i Revglow in forma di crisalide un paio di anni fa con l’eccellente “9th Chrysalis” (leggi qui la nostra recensione) e ce li ritroviamo ora, al termine di questo nuovissimo album Sound Post Tension, sottoforma di farfalla.
Insomma il mio auspicio, messo a chiusura della recensione del secondo album, è diventato realtà
E più che un semplice passaggio da crisalide a farfalla, ci troviamo davanti ad un concept composto, come dichiarano loro stessi nel comunicato stampa, da “dieci brani che racchiudono in sè il senso dell'evoluzione, il passaggio da cicatrice a farfalla, metafora della sofferenza umana volta alla ricerca di conforto e sollievo.”

La terza prova di Francis, polistrumentista che suona un po’ di tutto dalla chitarra al piano, dal violoncello al basso alle tastiere nonché vari beats elettronici, e Lilium, suadente alle parti vocali, si distacca notevolmente dalle 2 precedenti, dimostrando un livello di maturità, che, seppur non completamente raggiunto, li ha condotti verso un suono (più) personale e meno omologato.
Infatti vi consiglio di porre molta attenzione nel momento in cui vi appresterete ad addentrarvi nei meandri di questo Sound Post Tension perché meno immediato e scontato dei precedenti.

Il primo ascolto può lasciare un po’ perplessi e disorientati ma, ascolto dopo ascolto, cresce dentro e si attacca alla nostra anima (musicale) e non va più via, proprio come una cicatrice.
Bellissimi i testi che sono come anche in passato molto densi e poetici.
La parte musicale si è arricchita di venature jazzate, aperture ambient senza rinnegare le radici trip-jungle-pop.
"Scars" (appunto cicatrici) posta all’inizio, brano “circolare”, ci riporta dalle parti delle “nuove forme” di Sizeana memoria.
E nei 5 minuti e mezzo di durata la graziosa Lilium ci ricorda di Just let it go! there's no more time to waste...no… Life won't hurt you life won't hurt you life won't hurt you. Anymore...”
I riferimenti al (recente) passato ci sono e non potrebbe essere altrimenti, a partire da "Strangers", di cui è stato realizzato anche il video, per continuare con "Phantom Theatre" e "This Is The Day".

"27", invece, è quello che più dimostra l’evoluzione (positiva) compiuta: brano complesso e claustrofobico che ci assale alle spalle e ci lascia tramortiti “Open the window darling! It’s 5 to 12.00 and my dreams have yet to come... Close the window darling! I don’t want to miss one note of these golden breaths…”

Per compiere il percorso fino in fondo c'è ancora un coro di gabbiani ("Seagulls Choir") che sfiorando dei fiori ("Petals") ci accompagna nella ricerca di quella pace (“Where's the place where I could be peaceful?” "Peaceful")  interiore che possa farci rinascere (“awaiting the moment I’ll be born again...I’ll be born again!” "Self Portrait") e finalmente far in modo che le cicatrici si trasformino in farfalle ("Butterfly").

Alcune cose ti si incollano addosso soltanto perché appiccicose.
Le cicatrici restano per tutta la vita attaccate alla nostra pelle, la farfalla la sfiora, l’accarezza, vi si può poggiare solamente per una frazione di tempo.
Questo disco scava dentro con la leggerezza di una farfalla.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Krisalisound



mercoledì 11 settembre 2013

Cayman The Animal - Aquafelix EP (Recensione)

E so qual è il segreto: il rock‘n’roll è uno sport adolescenziale, che deve essere praticato dai teenager di tutte le età; possono avere 15, 25 o 35 anni. Quello che conta è che abbiano l’amore nel cuore, quel meraviglioso spirito da adolescenti”. Questo asseriva convinto intorno al 1979 Calvin Johnson, eterno adolescente indolentemente sbruffone; io non posso sentenziare cosa i Cayman The Animal abbiano nel cuore né se, in fondo, ne abbiano uno. Ma l’ecocardiografia dei cinque importa poco perché, sebbene l’adolescenza per molti di noi sia innegabilmente morta da tempo, l’odore del suo corpo in decomposizione ha comunque una certa dolcezza.

L’ansia pressante è qui preferibilmente tradotta in essenzialità melodica, come nell’incipit di Cayman JR o nella frustrazione a intermittenza di "Killed by the golden gun", il cui impertinente gemito svogliato si arrotola in un’insistente cantilena che grava molesta sul guaito della chitarra; dopo la destrutturata Next "Stop Orte", l’impeto si frantuma in "I say Prévert – You say Pervert", come uno schiantarsi che implode e si accascia. La chitarra di "Here Comes The End Part II" affiora con il ronzio di un’emissione di corrente, che innesca l’indolente tormento suggellato dal vagito indolente del cantato, mentre "Donkey Man" sputa amarezza senza esitazione, nel coro da asilo per girotondi indispettiti che precede il frastornato epilogo. L’abbattuta malinconia di "Shiny Happy People Dying" slitta dall’iniziale lenta introversione a un ruvido abbandono, che naufraga in una desolata dilatazione come materia espansa tra la chitarra afflitta e l’eco strozzata della voce; lo sconforto indifferente è rovesciato nel capriccioso urlo bambino di "Rock‘n’Roll Icecream (Poor Biscottino)": l’ilare invettiva contro la lucrosa collaborazione tra Marky Ramone e i suoi amici morti evita di essere catchy per un soffio, finendo per diventare sfacciatamente "bubblegum" e convincendomi che, dopo tutto, le Converse che indosso dal liceo non sono troppo logore e sfondate.

Opportunamente, una cacofonia autodissacrante aleggia sull’intero lavoro, intervenendo a rovinare la festa con la salutare ironia che contraddistingue i Cayman: sono talmente abili nello sfuggire all’autocompiacimento, che alla fine mi chiedo se, in realtà, non sia necessario l’impegno più radicale per potersi permettere di dar l’impressione di non prendersi sul serio affatto.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Mothership Records/Annoying Records/Sonatine Produzioni.

martedì 10 settembre 2013

Francevskij - Ora Ora (Recensione)

Francesco Martinelli e Francesco Monaci sono due musicisti che vengono da esperienze sonore diverse, l'uno dal rock diretto dai testi pungenti ed arzigogolati dei Dondolaluva (di cui è cantante e bassista) e l'altro dal progetto con venature molto più armoniose ed elettroniche dei Liberal Carme (in cui è chitarrista). Non è quindi il linguaggio musicale la prima cosa che li ha accomunati, bensì la provenienza geografica, quel monte Amiata situato nel sud della Toscana che a quanto pare di gruppi interessanti ne sforna parecchi. I due Francesco hanno così deciso di unire le forze e, armati di santa pazienza per superare vari problemi logistici, hanno cercato di mischiare la penna di Martinelli (che qui ci mette i testi) e la musica di Monaci (che fa il resto), riuscendo a trovare una via che diverge da quanto fatto sia dall'uno che dall'altro, pur lasciando qualche margine di riconoscibilità coi rispettivi progetti. Nascono così i Francevskij.
La scelta di aprire il disco con “Ultimo Piano”, esperimento reading dal testo criptico e dalla recitazione poco intensa, non è delle migliori, e forse anche per questo Ora Ora ci mette un po' a carburare nelle mie orecchie. Le atmosfere elettroniche raffinate e vagamente eighties della seguente “Scrivere D'Altro” alzano di poco l'asticella, ma testo e musica si rivelano troppo ripetitivi per non stancare negli oltre 5 minuti del brano, così tocca ad “Augurio” ed alla sua indole maggiormente rock dai toni post-hardcore alla Sparta cominciare a far drizzare le antenne. Quello che frena un po' il progetto è la voce, monotona in troppi casi, ma nel momento in cui i testi si fanno più interessanti è tutto l'insieme a guadagnarne esponenzialmente. Così dall'intensa e sofferta “A Proposito Di Te” e, soprattutto, dalla più lieve ed ironica “Vola Vola” si comincia a prestare maggiore attenzione, l'orecchio si fa catturare da frasi quali 'Volano sconfitte talmente piccole che sembrano minori, così diffuse e collettive che ci muori', o 'Volano sassi che usi solo per nascondere la mano, e nonostante tu non faccia passi avanti li lanci in modo da arrivare più lontano' (entrambi estratti della seconda, sicuramente il pezzo migliore del disco). Il livello rimane alto fino alla fine: “Pietà” ha un sound abbastanza minimale e coinvolgente su cui forse, più che nella traccia iniziale, non sarebbe sembrato azzardato adagiare un testo parlato che avrebbe fatto molto Offlaga Disco Pax, “Cristoforo Colombo” è solare e rarefatta e si adegua perfettamente ad un testo a tratti poetico (azzeccatissimo il finale con gli archi), “Passatempo” chiude il disco con tastiera e diapason a prendersi la scena costruendo un'atmosfera gioiosa e vitale su cui la voce di Francesco Monaci riesce ad essere più efficace che altrove.
Ci è voluto un anno e mezzo ad Ora Ora per vedere la luce, fra problemi logistici, di mezzi, testi dispersi e normali momenti di divergenza artistica, tutto segnalato dai due autori nel sito ufficiale da cui questi 8 brani possono essere scaricati gratuitamente. 8 pezzi che prendono piano piano, non perfetti ma capaci di suscitare emozioni e riflessioni come la buona musica dovrebbe fare (e a volte fa). Una maggiore convinzione nel cantato avrebbe elevato il progetto Francevskij al di sopra del voto che vedrete a fondo pagina, ma mi piace sperare che il collettivo dei Francesco del monte Amiata possa decidere in futuro di unire le forze nuovamente per dare un seguito a questo interessante progetto. Nel frattempo collegatevi al loro sito (http://www.francevskij.com) e scaricatevelo, poi mi direte cosa ne pensate.

Voto: ◆◆◆
Label: autoproduzione

lunedì 9 settembre 2013

Crystal Fighters – Cave Rave (Recensione)

La loro musica è stata idonea al 100% per tagliare in due l’afosa estate appena trascorsa e per dare il giusto tocco “aleatorio” a giornate in piscina o meglio in qualche località balneare, fatto stà che i Crystal Fighters – formazione basco-inglese – li ritroviamo in giro col loro secondo disco, “Cave Rave”, un dieci brani che tra bramosie elettroniche e imputs powerfolk fanno festa e un qualcosina in più che a furia di girarli e rigirarli nello stereo, diventano perfetti tormentoni da subire gioiosamente come ghiaccioli succosi e docce impertinenti.
Musica per il caldo, brani e poesie che a loro modo refrigerano la mente e fanno battere il ritmo di giornate allungate, e se già per caso apprezzate il move-it di Friendly Fires o Is Tropical, difficilmente non farete amicizia con questa ondata di suoni garbati e freschi, una discreta e personale baraonda che avvince e galvanizza per tutto l’arco della sua evanescenza tecnica; dieci brani tutti da ballare e che ostentano un forte sensibilità poppyes che si slancia in ogni interstizio della tracklist e che alternativamente evoca il juke-box come contenitore di spensieratezze e -  saldamente – la tradizione rivisitata di un lontanissimo carribean giocoso.
Certe volte basta una canzone per farsi incastrare da un disco, e qui ce ne sono nove in più che vi possono “castigare” per tutte le vostre esigenze, ed il sapore che si assaggia in questo lavoro è quello del sole e dell’odore di vaniglia, impressioni sonore che vi si attaccano alla pelle come tattoo indelebili; a dirigere le “operazioni emotive” del disco – tra le tante – le arie folkly “No man”, “Love natural”, gli echi tribal pop di “LA calling”, le radici basche “You & I” e il pianoforte che tinge la ballata Stonesiana “Bridge of bones” di flashback e deja vù sconfinati; tracce che danno immaginazioni e sensorialità tenui, i Crystal Fighters sanno giostrare il calibro del loro tiro sonoro, piacciono e fanno smaltire accumuli di rock che – nell’arco di un anno intero – stanno lì a penzolare nel niente.
Fate girare questo disco ora che avete ancora una bella abbronzatura, e l’inverno forse prima di arrivare se la prenderà più comoda.      

Voto: ◆◆◆
Label: Zirkulo/Pias 

venerdì 6 settembre 2013

Joseph Arthur - The Ballad Of Boogie Christ (Recensione)

Tutto si può dire di Joseph Arthur ma non che stia con le mani in mano.
Joseph, cantautore ma anche pittore (sue molte delle copertine ed illustrazioni dei suoi dischi) proveniente da Akron Ohio, è un vulcano in continua attività.
Il suo primo introvabile Ep, Cut and Blind, è datato 1996 mentre è dell’anno successivo la sua prima prova sulla lunga distanza, Big City Secrets.
Tra questi 2 e la sua ultima opera sono passati altri 6 album, 10 EP e svariati singoli a suo nome, 2 CD con i Lonely Astronauts, 1 come Holding The Void, 1 altro come Fistful Of Mercy (trio dove si è unito a  Harrison jr. e Ben Harper) ed infine ancora come RNDM (progetto con Jeff Ament e Richard Stuverud).

Quanto a prolificità, non è secondo a nessuno, insomma.
Prolificità che spesso può portare ad una alternanza di risultati; ed infatti mentre gli album a suo nome si mantengono su livelli pregevoli (se dovessi suggerirne qualcuno, su tutti direi Come to Where I’m From, Our Shadows Will Remain e The Graduation Ceremony) non altrettanto si può dire degli altri progetti che, a parte l’eccellente As I Call You Down con i Fistful Of Mercy, non aggiungono nulla, casomai sottraggono qualcosa all’opera di Joseph.
Ma veniamo alla sua ultima opera, ultima per pochissimo tempo visto che viene presentata come il primo atto di una trilogia.
Il disco, il cui titolo, The Ballad of Boogie Christ, si candida alla palma come miglior titolo dell’anno, è, come dice lo stesso artista, un concept ispirato alla sua vita, registrato grazie alla campagna di raccolta fondi per la quale Joseph ha messo in vendita numerosi cimeli della sua vita artistica (CD, vinili e dipinti autografati).
Lascia un po’ spiazzati, soprattutto i “vecchi” fans, la ricercatezza e la “sofisticatezza”degli arrangiamenti, con fiati, cori gospel oppure la voce da crooner, di cui "The Currency of Love", posta  in apertura ne è l’esempio più eclatante.


Anche gli altri brani risentono di una sovrapproduzione voluta dallo stesso autore che farà storcere il naso ai die-hard fans anche se poi, brani come "Wait For Your Lights" (quasi un outtake da The Graduation Ceremony) o la rivisitazione di "I Miss The Zoo", già presente nel precedente Redemption City, e ancora Still Life Honey Rose e Famous Friends Along The Coast si ricollegano al più classico suono del nostro.


Come già nei dischi precedenti, ritroviamo quel misticismo visionario e religioso di Joseph che pervade il disco e che non è una novità se si pensa ai versi di alcuni brani, come "In The Sun (“may God’s love be with you, always”) oppure ai titoli di alcuni dei suoi album (Redemption’s Son oppure Redemption City).
Qui si parla di un "Boogie Christ" molto “terreno” che farebbe sesso e mangerebbe una pizza “Christ would have sex / Christ would eat pizza” (The Ballad of Boogie Christ) ma anche di un Signore che è l’unico in cui credere  “I have no one to trust / but the Lord up above” ("The Currency of Love"). E si continua con la ricerca di un santo della musica e dell’amore gli unici che possono salvarlo “I need the saint of music / I need the saint of love / Only they can save me / reaching out for you” ("The Saint Of The Impossible Causes") mentre ci ricorda che riusciva a camminare sull’acqua essendo il re dei re “I used to know how to walk on water / a king of kings they knew me well” ("I Used to Know How To Walk On Water").

Tra i musicisti che accompagnano Joseph troviamo Ben Harper ai cori e slide in un paio di brani, Joan Wasser (aka Joan as a Policewoman) ai cori e violino ed anche Juliette Lewis.
In definitiva, nessuna "In The Sun" o "Honey And The Moon" o ancora "Devil's Broom" da queste parti, ma pur non raggiungendo le vette citate precedentemente, un ottimo disco che potremo alternare nel nostro lettore con le sue opere migliori.
Ed ora aspettiamo gli altri "atti" e, soprattutto, gustiamoci le versioni live di queste canzoni visto che Joseph sarà in tournee in Italia nel periodo di Halloween per 3 date (30 ottobre San Benedetto Del Tronto, 31 Fontanellato, Parma e 1 Novembre Brescia).


Voto: ◆◆◆◇◇
Etichetta: Real World/Lonely Astronaut Records

giovedì 5 settembre 2013

Alteranima - Stereograms (Recensione)

L'altra anima dell'abruzzo, distante anni luce dalle spiagge e dai circuiti indipendenti ufficiali si trova sui solchi dei conterranei Alteranima. Musica celebrale sintonizzata sulle frequenze di un'elettronica ricercata, intelligente, idm nella sua accezione migliore, che in sette brani (più remix) riassume una ricerca che trova compimento nel primo full length rilasciato per la Raumklang music del talent (scout, e non solo) Dirk Geiger. Qui risiedono idee, suoni e ritmi che affondano nella psiche del viaggiatore che, non trovando sfogo negli ambienti circostanti, fa della ri-costruzione la sua materia prima. Musica che esula dalla realtà e che, in una formula duchampiana, personifica il terzo occhio burroughsiano e le derive post-duchampiane. Questa elettronica ricerca, in The third tone, l'apoteosi del concetto di detournèment così chiaro a più generazioni di artisti e musicisti che, a partire dalla ruota, costruiscono il loro mondo. E il mondo di Elda Di Matteo, Matteo Di Giovanni e Danilo Di Giulio è un mondo fittizio, fatto di ritmi talvolta sincopati, tal'altra distesi, di sampling, di atmosfere surreali, che talvolta richiamano alla memoria, attraverso l'utilizzo di certe soluzioni, alcuni dei mostri sacri del suono post-industrial e non solo. Un disco non semplice da raccontare all'interno di un universo musicale che va sempre più semplificandosi, riducendosi al beat, ai mid-tempo. Alteranima si pongono come un perfetto antidoto a questa crisi di idee, presentandosi, più che come meri musicisti, come degli artisti nel reale senso della parola che creano qualcosa che è altro da sè. Questa, riassumendo, è un pò una delle idee possibili a partire dalle quali sviluppare il concetto di elettronica intelligente. A dimostrazione della bontà del lavoro bastano sette brani per suggellare, attraverso gli echi melodici della title-track, attraverso gli interessanti giochi ritmici di Lucid dream e, ancor più, di Inner silence, attraverso la ricchezza di idee che sembrano però sempre svilupparsi in vie concrete, non tralasciando gli altri episodi, mai banali, mai scontati, mai riempitivi (e questo è un grande punto di forza), una musica senz'altro interessante. I remix sono a loro volta molto autorevoli e attraverso la presenza di nomi importanti come Autoclav 1.1Access to Arasaka, Stendeck, Talvekoidik, testimoniano ulteriormente, qualora ce ne fosse ulteriore bisogno, la qualità di un lavoro che riesce a dare un senso al flusso artistico-musicale che spesso rimane lì, incompiuto, un how to, in altri act spesso più blasonati. Un nome, quello di questi conterranei, troppo poco noto in patria ma che comincerà ad avere un certo seguito altrove, laddove il suono si fa più rarefatto, laddove le frequenze si fanno meno chiare, laddove le certezze vengono a mancare e che invece non trova adeguato riscontro lì dove la certezza viene considerata la chiave di volta di una sopravvivenza. Il discorso è: vivere o sopravvivere? I nostri hanno scelto la prima via. Un disco senz'altro difficile, ma non impossibile, che richiede una certa attenzione per il dettaglio e per la ricerca. Una ottima prova.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Raumklang music

mercoledì 4 settembre 2013

Echo Bench - Echo Bench (Recensione)

Non sono io la prima a portare la buona novella: si enumerano nutrite le schiere di seguaci dediti all’ascolto di musica sconfortante e ansiogena, la cui qualità opprimente non è un deterrente né una caratteristica estrinseca, ma l’esatto requisito corroborante in grado di annientare il tedio della quotidianità dell’essere vivi. Il panico, a cui è concessa solo la melanconia quale sollievo, è evidentemente uno stato di trauma emotivo a cui ricorriamo volentieri per distinguere un istante dall’altro e isolare i giorni oltre la serialità.
Di questa sensibilità insieme familiare e straniante come mobilio demodè si alimenta il debutto delle Echo Bench, trio israeliano che allinea apocalissi domestiche e deflagrazioni sommesse, rivelando d’impatto l’eredità degli Wire di "Chairs Missing": il miagolio capriccioso e affranto della voce preme contro il pertugio incastrato tra lo scricchiolare melodico del basso e le litografie tracciate dalla chitarra sulla latta sorda della batteria. Mentre il moto perpetuo di "The Same Mistake" riproduce l’ostinata ossessività di una perversione morale, "Out Of The Blue" è sconquassata da striduli intermezzi acuminati; i seriali esotismi chitarristici di "High Noon" innescano in combustioni mediorientali gli infantilismi vocali di Noga Shatz, che si irrigidisce in un’isteria suadente in "High Roller", frenesia epilettica di scuola Circus Mort, strutturata su una partitura mutila di una progressione narrativa riconoscibile. Il basso minaccioso, insinuandosi attraverso la rada ragnatela degli arpeggi di "Broken", puntella il lamento fanciullesco del cantato, prima di lanciarsi in un severo precipitare percussivo in "Liquid Sky" e sferrare una rivendicazione di preminenza sul balbettio frustrato di "After Party". "24" esibisce un’accattivante e maliziosa filastrocca, rumorosamente e indolentemente altalenante su un dondolio ritmico invincibile, che si frammenta nella catastrofe sconsolata e claudicante di "French", affollata di sibili inquietanti e fragori istantanei che si disperdono sulla fluidità mercuriale del basso. 

L’epilogo, affidato al marciare sconfitto di "Flesh a Bone", è una scommessa a perdere che confessa lucidamente quanto si è disposti ad abbandonare: la posta in gioco è solo la vita, quindi alzati e rifiuta.

Voto: ◆◆◆
Label: V4V Records

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