sabato 29 marzo 2014

STRi - A T O M (Recensione)

Due anni fa avevamo recensito "Canyon", l'album di debutto degli STRì, come qualcosa che non ci aveva fatto gridare al miracolo, ma di cui avevamo apprezzato alcune buone idee in quanto capaci di creare situazioni stilistiche di buon livello.  

Se nel primo tentativo gli STRì avevano calcato la mano in variegati ritmi con sonorità più aggressive, senza dubbio questa nuova prova risulta di gran lunga superiore, per aver rimaneggiato il sound iniettando tratti melodici maggiormente orecchiabili che hanno reso il nuovo A T O M un album insolito.

Il duo fanese nel frattempo si è stabilito a Berlino, dove avrà di certo trovato nuove ispirazioni per questi dieci brani, che presentano una personale miscela di elettronica leggera, chillout ed IDM più calcata, a tratti ballabile ma anche d'ascolto spensierato in assetto domestico.

Il disco ci relega in una dimensione non propriamente definita, che ci trascina a considerare i primi quattro brani come un perfetto connubio tra il minimalismo synthpop dei Junior Boys, quasi sempre contornati da chitarra elettrica scabra e tagliente vicina ai territori new wave, arricchiti da vocalismi in parte malinconici in cui si avvicinano alla chillwave di Washed Out. La particolarità di A T O M è quella di riuscire a strizzare l'occhio verso diverse tipologie: sia di nuove realtà elcectropop-oriented, oppure andare oltre laddove, soprattutto a partire del quinto brano "Acqua & Cenere" avviene una sterzata verso la minimal techno nei brani "Saliva" e "Denti" di stampo kalkbrenneriano, fino a terminare in sonorità esotiche con ukulele e flauto traverso nel brano conclusivo dal titolo "Opa".

Considerando che siamo dinanzi al secondo atto di una giovane proposta musicale, non scontata e in procinto di regalarci fresche sorprese fuori dai territori italiani, non ci resta di essere felici per la loro crescita, continuando nuovamente a non gridare al miracolo, consapevoli che questo nostro procrastinare potrà regalarci in futuro una band di culto e tanti capolavori sensazionali.

Voto: ◆◆◆
Label: Synthemesc Records



venerdì 28 marzo 2014

Hartal! – S/t (Recensione)

La dichiarazione d’intenti chiama in causa psichedelia e punk: quale il comune denominatore, a parte la predilezione per le sostanze tossiche? Sempre che l’inclinazione all’essenzialità ossessiva sia realizzabile senza droghe sistematicamente e smisuratamente assunte.
La complessità non è ottenuta tramite l’accumulo di elementi diversi, ma in virtù della reiterazione di un reticolo sonoro essenziale, nell’eterno presente di una ciclicità naturale, che fluisce costante come le stagioni che si susseguono immutate. Gli Hartal! al loro esordio non temono di erigersi sulla ripetizione di un accordo, che è fondamentalmente un gesto, né di estinguerla dal primo brano "Uno" a "Barefoot Empire": lo sforzo di sintesi non è depotenziato dalle percussioni ancestrali né dal salmodiare della voce, che si scava uno spazio nella progressione del rituale, per poi indietreggiare senza abbandonare la qualità onirica. Dal cupo lirismo dei Drowning Pool alla lugubre messa esoterica dei Dead Skeletons, attraversando il purgatorio delle suite dei Godspeed You! Black Emperor, scarnificate e spogliate di ogni epicità, questa catabasi laica svela il nichilismo sotteso alla psichedelia, quale possibile autentico nesso con il punk: il deragliamento programmato di tutti i sensi. Old "Chicken Makes Good Broth", al di là della primitiva saggezza del titolo, si struttura su un basso rotondo che richiama gli apocalittici albori degli anni ’80 nei primissimi Killing Joke; la melodia, reduplicata dalla sovrapposizione strumentale e più articolata dello scarno e dilatato recitato della voce, nel finale mantiene la promessa di controllato abbandono. Il comizio annichilito di "Megaloo V" estende una declamazione decadente su indigeni suburbani, chiamando all’adunata di massa sull’oscillazione della chitarra e su disturbanti, lontani allarmi. "Chasing the Beaver" riaccende l’innesco della deflagrazione Killing Joke, con il suo ansiogeno percuotere e la destrutturata cacofonia indistinta degli ultimi secondi; ma l’episodio più stupefacente, e probabilmente stupe-fatto, è la magnifica e struggente suggestione esotica di "Ogoniland", affollata di tamburi e fiumane di chitarre e stravolta dalla voce in un’esasperazione cannibale; la galassia centrale di ispirazione Spacemen 3 disorienta, prima che il sax free inietti quell’isteria irresistibile che ti respinge fuori dalla stanza eppure, al tempo stesso, ti inchioda, con la tua nausea latente in fondo allo stomaco in fiamme. Il punk in 11 minuti e 51 secondi.

Voto: ◆◆◆
Label: diNotte Records/V4V Records/Indastria Records

giovedì 27 marzo 2014

Allan Glass - Magikarp (Recensione)

Uscito il 27 Marzo per l'etichetta abruzzese Nova Feedback Records, Magikarp è il primo album del duo psychedelic/punk Allan Glass: un nome che cela le identità dei due musicisti Marco Matti e Jacopo Viale, direttamente from Pontecurone (104 m slm, 3867 abitanti, provincia di Alessandria). 

Tralasciando le divagazioni geografiche che possono essere interessanti (o meno), ho tra le mani un album dalla copertina tanto carina e un nome che forse dirà qualcosa ai più giovani (come me d'altronde, eheh): Magikarp è il nome di quel grazioso pokemon pesciforme rosso corallo e coronamunito. Cosa passava per la testa di questi ragazzi quando l'hanno scelto? "Ci piace l'immaginario di questi cartoni animati, grossi, caramellosi e teneri" ma "ci affascina anche il riferimento alla magia, che ci fa pensare alla psichedelia." è la risposta dei due. Non avendo nulla da controbattere, dieci punti solo per il coraggio e l'originalità!

Passando invece all'ascolto delle otto tracce noto subito la somiglianza con un'altra celebre band della scena indie italiana.. ma non voglio farmi influenzare subito. Si apre con "La Tua". Ritmo di batteria ipnotico e voci a mo' di coro con tanto di terze e quinte, impastate col resto del suono e (volutamente) non distinguibili. Mi sembra una versione più breve e soft di "Was?" dei Verdena. Ops l'ho detto. Vabbè. Andiamo avanti con "E' difficile": l'inizio promette bene, riff di chitarra grezzo, sporco, lo-fi che è una meraviglia, arpeggio che si apre come un tramonto in riva al mare e poi una vocetta che si trasforma sempre più in una cantilena circolare di divagazioni rock noise e un pizzico, perchè no, di post-rock. "Palloncini e pavoni" si presenta invece più solare, tipo punk adolescenziale/quattroaccordi ma con la voce tirata indietro e le consuete fughe strumentali psichedeliche. Su "Betulle" c'è una momentanea resurrezione di un lercio Kurt Cobain mentre "L'estate non conta part. 1 e 2" è un lunghissimo viaggio in cui la batteria ti guida tra suoni di chitarra rocciosi ma su cui è facile sussurrare, dove le voci sussurrano e i testi non significano niente. Il piglio diventa quasi blues ed hendrixiano in "Plastic bubble in the mystic place", ma la situazione cambia subito e il brano diventa un delirio allucinogeno di stop, crescendo, dolce psichedelia e violenza di distorsioni zanzarose. Il disco si chiude con "Nell'ora della nostra morte", un requiem pschidelico di tastiere semimetalliche ed elettronica per principianti. 

Nel complesso ho trovato questo disco abbastanza bello: interessante, molto ben suonato. Il neo fondamentale è che ascoltandolo mi sembra di risentire una versione moderna di Solo un grande sasso mista a qualche riff preso direttamente da Requiem. Si percepiscono tante energie, desiderose di esplodere ed essere messe in musica e rumore.. ma forse i canali non sono stati quelli giusti. Attendiamo per il prossimo!

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Nova Feedback Records



mercoledì 26 marzo 2014

Enrico Ruggeri - Ius (Recensione)

Professore: “Allora ragazzi oggi riprendiamo la lezione dell'altra volta su Kant. Eravamo arrivati alla sua idea dell'arte, qualcuno si ricorda che idea ne aveva?”
Classe: “Eeeeeehhhh....mmmmmmhhhh”
P: “Coraggio dai, nessuno che vuol farsi avanti? Dai Enrichetto dimmi cosa ti ricordi tu! Cosa diceva Kant sull'arte?”
Enrichetto: “Ma perchè cazzo mi sono messo davanti oggi...”
P: “Come Enrichetto?”
E: “No dicevo che Kant...beh sì lui diceva...sì, tipo che di fronte all'arte, specie quella lontana dalle forme che conosciamo...noi in pratica proviamo un piacere che non può essere spiegato razionalmente? Che l'arte ci fa tipo violenza?”
P: “E' una domanda o un'affermazione?”
E: “Eeeeeehhhhh...un'affermazione?”
P: “Seee buonanotte. Comunque io sono un professore ignorante che aspetta solo di andare in pensione e Kant me lo ricordo a spizzichi e bocconi, quindi la tua risposta mi va bene. L'arte moderna perciò si fa fatica ad incasellarla e spiegarla, qualcuno mi sa fare un esempio? Magari tu Ramona, che continui a farti i cazzi tuoi e giochi col cellulare?”
Ramona: “Mmmmmmhhhh...l'ultimo album di Enrico Ruggeri?”
E: “Ma chi, quello che ha vinto Sanremo?”
P: “No brutto ignorante, quello non esce di casa da quando Dario Perissutti gli ha fatto fare una figura di merda ad una premiazione dicendogli 'E poi mi dicono che Ruggeri ha inventato il punk, mavaffanculo!'. Non te la ricordi la lezione di storia della musica? Questo è l'ex voce e chitarra degli Hogwash, e il suo album si chiama Ius.”
E: “Scusi ho fatto confusione.”
P: “Ok ma ora stai zitto. E dimmi Ramona, che sensazioni ti ha lasciato il disco?”
R: “Beh è difficile da spiegare...la seconda e la quinta traccia sono molto emozionanti, quasi barocche. "Printania Dust" particolarmente crea un effetto davvero coinvolgente, fra synth avvolgenti, vocalizzi eterei e qualche rada nota di piano che acuisce il generale senso di malinconia che si respira per tutti gli abbondanti 6 minuti della canzone. "Succo", la quinta e ultima traccia, comincia a delinearsi compiutamente solo a metà dei suoi 4 minuti di durata, quando ai rumorismi di sottofondo si unisce un piano struggente che viene però piano piano fagocitato dalla parte elettronica, sempre più invadente: viene concesso uno spazio solitario al piano solo negli ultimi secondi, quando va a sfumare nel silenzio.”
P: “Brava Ramona, bella disamina. Mi piacerebbe sentire anche qualcun altro però. Tu Asdrubale l'hai ascoltato?”
Asdrubale: “Sì prof, l'ho ascoltato. E a me non ha detto un cazzo.”
P: “Oh un bel dibattito! E dicci Asdrubale, perchè non ti è piaciuto?”
A: “Prof io ce l'ho messa tutta. Mi sono riascoltato la traccia iniziale, "Adiosu", un sacco di volte, e alla fine sono anche sceso a patti col suo lento incedere ed affastellarsi di elementi. Perchè effettivamente quando una timida melodia d'archi si fa strada oltre i synth monocordici, e ai radissimi colpi di cassa in sottofondo si aggiunge un ritmo quasi di battiti, lì il brano riesce a sprigionare un potenziale che si intuisce solo in precedenza. Quasi 9 minuti per sviluppare tutto sto ambaradan però son pesanti eh! Ma sono le tracce "Errore n.11" ed "Errore n.12che proprio non mi sono andate giù. Voglio dire, capisco sperimentare, ma la prima consta in 7 minuti di liquidi suoni cacofonici che non danno mai la sensazione di avere un senso od uno sviluppo concreto, e la seconda è fatta di rasoiate elettroniche a volume crescente che dan fastidio e basta: mio papà l'ha sentita per sbaglio e m'ha detto di piantarla con quel casino che il tornio a lavoro era più melodioso. Mi sembra che queste due hanno un titolo adeguato, sono errori e basta.”
P: “Bravo Asdrubale, breve ma affossante come diceva Egon in Ghostbusters 2. Voi avete cercato di dare una spiegazione ad un qualcosa a cui è difficile darla: l'elettronica sperimentale è un po' come l'astrattismo, ti può piacere a pelle oppure no ma per quanto tu ti ci metta qualunque spiegazione darai al motivo per cui ti fa stare bene o ti fa ribrezzo non riuscirà mai a spiegare esattamente quella sensazione. E' come se si sviluppasse una forma di legame, totalmente al di fuori del conoscibile, fra te e l'artista, e probabilmente è questo che intendeva Kant. Ius l'ho ascoltato anche io, e se dovessi farvene una disamina sarei d'accordo con le vostre opinioni: ha dei momenti melodici che, uniti alle invenzioni elettroniche, creano un bel tappeto sonoro, ma Ruggeri perde spesso la bussola e per troppi minuti mi sono sentito le orecchie violentate o sfinite da quelli che mi sono sembrati esercizi di stile fini a sé stessi. Ma forse è anche questo il compito dell'arte, blandirci per poi infastidirci...Enrichetto, vorrei una tua opinione al riguardo. Per la prossima settimana devi farmi una recensione del disco e dirmi se, secondo te, a Kant sarebbe piaciuto.”
E: “Ma prof io ascolto le Pornoriviste, cazzo ne capisco di elettronica sperimentale!”

E chissà se Enrichetto ne uscirà vivo. Perchè Ius è impegnativo, difficile, a volte ti dà soddisfazioni ma più spesso si fa odiare col suo chiudersi ermeticamente nei territori della sperimentazione estrema. Tanto estrema che io non riesco a capirne il senso, e se non sono riuscito pienamente a spiegarne il perchè vorrà dire che Kant aveva ragione. Ora vado a riposarmi.

Voto: ◆◆◇◇
Label: Neverlab Avant



venerdì 21 marzo 2014

Maria Antonietta - Sassi (Recensione)

Il ciuffo rosso e spettinato, la chitarra appesa al collo e una voce che è soul capriccioso e un po' acerbo. 
Per chi non la conoscesse lei è Maria Antonietta (nome d'arte di Letizia Cesarini), che da Pesaro con amore sta scatenando una piccola rivoluzione che sa di biscotti, tramonti rosa, lacrime non piante e sigarette. L'avevamo lasciata che cantava di amori già finiti e mai iniziati, realtà troppo difficili da penetrare e aspirine per il mal di testa che è un mal di vivere mascherato bene, la ritroviamo ora più adulta, più sicura nel suo secondo album Sassi

Non si tratta di passi da gigante o salti eccezionali, ma la ragazzina con gli occhiali da sole (a colazione) sembra aver trovato una nicchia sua: arrangiamenti più fini da contorno a un universo a cui non ancora si è adattata ma che sorride di più e offre terra su cui piantar radici e mettere al mondo splendidi fiori. Dieci tracce che esplorano l'intimità della cantautrice senza perdere il piglio punk e ribelle: una ribellione dell'amore, ecco come la definirei. Che piega con dolcezza e un po' di fragilità questo cosmo criptico e multiforme. Si apre con "Galassie": pianoforte timido, una chitarra acustica e parole sussurrate come una preghiera che cresce come "l'erba sopra le sepolture, come crescono le radici delle piante, come crescono tutte le galassie": c'è sfiducia tramutata in poesia e speranza di espandersi all'infinito. La seconda è invece la title track Sassi. La malinconia velata non abbandona la nave ma troviamo un po' di sana rabbia e rock'n'roll, che crea un bellissimo contrasto col ritornello che è invece una citazione biblica: "c'è un tempo per lanciare i sassi, un tempo per raccoglierli, c'è un tempo per astenersi dagli abbracci, un tempo per gli abbracci". La nuova maturità di Maria Antonietta la colgo ancor di più però in "Tra me e tutte le cose e Giardino comunale": la prima una canzone d'amore, che è ancora di salvezza nei momenti di sfiducia, quando vorresti che "ci fossero milioni di chilometri tra me e tutte le cose", la seconda una dichiarazione d'indipendenza nella guerra mondiale tra se stessi e il resto del pianeta. I testi sono profondi e più maturi: non feste e serate chiuse in casa ma verità dette ad alta voce, o "al limite sto zitta". "Ossa" è invece un inno punk, vagamente femminista e persino danzereccio: indubbiamente uno dei pezzi più belli dell'album. è veloce, tirato e dipinge una donna che si sente bella e intelligente per davvero, e forte perché tanto "Dio ha creato l'Universo infinito dev'essere che calcolava anche lo spazio che serve a quelli come te". Proseguiamo con "Ombra e Decido per sempre": atmosfere romantiche e tristi, e la meravigliosa "Animali" (uscita a maggio 2013 come singolo): una dolcissima dichiarazione d'amore che cela qualche dubbio naturale, conseguenza dell'evoluzione della specie o della perfezione dei risvegli insieme ogni mattina. Nona traccia è "Il diavolo", che è un pensiero fastidioso forse, un episodio passato che continua a insinuarsi nella realtà odierna, da esorcizzare cantando sulle note di un requiem voce e chitarra. Chiusura in bellezza con "Fino a consumarmi gli occhi", dove riemerge prepotente quella fragilità di ragazzina indomabile e insicura di fronte agli ostacoli, che si addormenta sulle note di un arpeggio semplicissimo, scarno ma perfettamente inserito nel contesto come un neo sulla pelle bianca o l'aritmia improvvisa di un cuore che batte. Album promosso dunque a pieni voti, ricco di spunti ed emozioni, e sogni di ragazze. Che ci sembrano facili e quasi stupidi. Ma i fiori spuntano pure in guerra e dopo i temporali ci sono gli arcobaleni. E poi, chi ci dice che è vietato sognare?

Voto: ◆◆◆
Label: La Tempesta Dischi



mercoledì 19 marzo 2014

Kairo - 13 (Recensione)

Tre anni dopo il debutto con l'omonimo album, i Kairo tornano in scena pubblicando "13", un disco di pancia e pieno di quell'emotività che ci si metteva un tempo, tanto da non farlo nemmeno suonare come un lavoro di questi bui anni '10. Il trio si ispira chiaramente al sound che ha caratterizzato la scena internazionale, quella americana sopratutto, a cavallo tra gli ultimi anni novanta e i primi crepuscoli del duemila. Nove tracce che scorrono rapide attraverso i battiti cardiaci, tanto brevi quanto intense di passione almeno nelle parti strumentali, che sono un tappeto tessuto a mano, con le filamenta incastrate bene e assolutamente compatte. L'omogeneità dei Kairo non si sfalda mai, sin dalle prime tracce, da "Estate", passando per l'apice "Caracolla", fino a "Medusa", l'intensità di passione malinconica e rabbia adolescenziale non subisce cali, prima dello spartiacque "13". Il ritmo ritorna ad essere costante e immediato, l'impatto di "Tempesta" è molto convincente e trascina lentamente alla fine del disco che si chiude con due pezzi che possono essere sintetizzati in uno solo ( "Una vecchia lettera..." "...e una promessa" ). I Kairo ci regalano circa una mezzoretta di piacevolissima intensità sonora, ovviamente con le dovute cautele, mi sento di affermare che i tre hanno ottime potenzialità che vanno ricercate e coltivate. "13" è un disco che agli amanti del genere non dispiacerà, ma il salto di qualità deve essere imminente.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: FalloDischi/ La Fine/ Upwind

martedì 18 marzo 2014

Management del Dolore Post-Operatorio - McMao (Recensione)

Innanzitutto, dovete sapere che le ragazze di Venere hanno le malattie veneree e che siamo così piccoli che quando cadiamo non ci sente nessuno. Me lo hanno detto quattro ragazzi lancianesi, due annetti or sono.

"Auff!", ovvero un saggio di sporcizia punk (in senso buono), urgenza lirica e disincanto, è piombato sulla scena musicale italiana come un fulmine a ciel sereno. Se poi mischiamo il tutto con una presenza scenica indubbiamente esclamativa il risultato è ancor più esplosivo. Molto (anzi, troppo) spesso ho sentito dire: "O li ami o li odi". E' falso. E' una frase fatta, dettata dalla superficialità e da un corroborante "diritto di soggettività", che spesso sfocia in svariate forme di estremismo a discapito di un più sano ed opportuno "dovere di oggettività".

"McMao" è, oggettivamente, un disco di crescita e rinnovamento. Viene attuata una vera e propria opera di aggiornamento del sound (levigato nelle sue vette più aspre e brulle) e dei registri stilistici, senza però rinnegare le proprie radici. Non bisogna aver paura, quindi, di usare la parola "pop", dato che in molti casi è d'uopo ("Hanno Ucciso Un Drogato", "Oggi Chi Sono").

Intanto "La scuola Cimiteriale" potrebbe smentirmi immediatamente: il brano forma un ponte di trasporto attivo tra le spigolature del passato e il synth-fantasma del presente, creando una sorta di continuità che riesce a far accomodare in sala anche gli spettatori più scettici. Le procedure di stesura dei testi permangono fiere e piccanti, assieme alle linee vocali tipicamente scanzonate e sempre più marchio di fabbrica. "Coccodè" si fa notare per il suo bridge orientale/spettrale e per l'interessante punto di vista sul confronto di pericolosità fra una bomba ed una subdola chiazza di fredda urina infestata da una proliferazione batterica di Staphylococcus stupiditatis.

Dopo il loop ipnotico del "Cantico Delle Fotografie", ecco arrivare "La Pasticca Blu", e c'è subito aria di hit. Basta un solo ascolto per capire che è pronta a far strage di cuori nei futuri live con indosso il suo sgargiante vestito da sera in pura stoffa punk, cucito su misura. "Requiem per una madre" riesce a fare anche meglio con la sua atmosfera cupa e disperata, con i suoi ruggiti di chitarra che risuonano nel sottobosco di una jungla buia riscaldata esclusivamente dal calore di una sottilissima trapunta electro-pop.

Quei pochi passaggi a vuoto che (fisiologicamente) sono presenti all'interno del lavoro sembrano sparire o, se volete, diventano sempre più insignificanti con il passare degli ascolti, sintomo della grande genuinità che si cela dietro le quinte e del valore collettivo che ha raggiunto il progetto. Sintomo della loro immensa forza d'inerzia.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Color Sound Indie/MArteLabel


lunedì 17 marzo 2014

Il Cristo Fluorescente - HAAS (Recensione)

Sebbene una percentuale consistente dei miei ascolti sia dedicata a un certo tipo di elettronica, dimessa e dalle sfumature antiquate, non ho le competenze di settore che mi consentirebbero di argomentare con piglio tecnico la mia attrazione; anzi è forse proprio la fondamentale ignoranza, persino delle nozioni più rudimentali, ad alimentare anni di ricerca nei territori della sperimentazione low-profile. Ed è appunto il lato B del masterpiece bowieano uno dei precedenti che ho più a lungo frequentato: il titolo Low campeggia sull’algido e impassibile profilo dell’uomo che cadde sulla terra, in un arguto pun visivo che enuncia, sin dalla copertina, l’intento di contravvenire a ogni presunzione di perfezione, compiutezza o magniloquenza.
Gli angoscianti paesaggi strumentali stratificati sui solchi appresero la lezione di raggelante sobrietà e eremitica ricerca di Neu! e Faust, che oggi sopravvive nelle dieci tracce di HAAS, nuovo lavoro di Simone Greco sotto le spoglie de Il Cristo Fluorescente. L’elettronica scarna, scandita con serialità d’automa in gocciolii asettici, sin dal primo brano "Hauntitled" indossa l’irresistibile patina demodè che già avevano i pionieristici Silver Apples; desolate distese nebbiose intervallate da un handclapping androide si dispiegano in "Wake Up", per dissolversi negli ultimi secondi in dissonanze discrete; il salto al refrain radioattivo di "Satan is Your Friend" è sulle prime impercettibile, ma è poi capace di determinare una diversa atmosfera sonora di rigore ossessivo. Le percussioni sintentiche in "Li Mortacci Vostra" martellano i campionamenti di squarci quotidiani, di cui ci si appropria non per denuncia sociale ma per il puro suono straniante dello spoken; la post-dance di "Strip 666" e "Novantas" traccia un immaginario percorso a ritroso verso i capannoni industriali della Sheffield dei Cabaret Voltaire, dove il ritmo è più una minaccia che un sollievo, mentre in "Bringin’ in the Night" disturbi divergenti e scampanii chirurgici si defilano, per lasciar serpeggiare voci filtrate ai limiti della riconoscibilità. "Terracina Connection" esordisce apparentemente come l’episodio più destrutturato del disco, con clangori in lontananza e lampi da videogame, per poi aprirsi in melodie rarefatte; dopo il tetro rituale da alba post-atomica di "Black Sand", dapprima inquietante poi spietato, il lavoro sembra mirare alla cifra espressiva dell’annichilimento con "Tour de Trans", la cui trama sonora a grana grossa è trascinata da un lamento vocale straniato, che progressivamente si spegne in sussurri e sibili fino a estinguersi in segnali intergalattici.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Autoprodotto

giovedì 13 marzo 2014

Gouton Rouge - Carne (Recensione)

Come se non bastassero i precedenti, ecco che la V4V-Records, stavolta in collaborazione con la 3SX Netlabel, è pronta a presentare i suoi nuovi “gioiellini”. Ebbene si, questi quattro sono ancora nella più bella parte della vita.

Troppo acerbi nel 2008, troppo freschi nel 2014 per lasciarseli scappare.

I “Gouton Rouge” ( Dario, Eugenio, Francesco e Michele) nati nella Busto Arstizio “sonica” con l’obiettivo dello shoegaze, portano oggi sul palco un mix niente male di power pop, rock e la giusta dose di ciò a cui tanto ambivano.

“Carne” il titolo dell’album, attributo forte e autentico proprio come i sentimenti decantati in ventuno minuti circa.

Storie di passione, delusioni, amore e carne che increduli vediamo nascere dalla penna di fanciulli o poco più.
Testi taglienti e mirati che riescono a librarsi con estrema naturalezza e leggerezza sul velo dell’episodica inquietudine che pervade quasi l’intero album.
E se in passato la band era in balia di una certa indecisione stilistica, quella che ha ora è soprattutto una rivoluzione emotiva, che stravolge e contagia non solo i fruitori più attenti, ma anche gli ascoltatori per caso che di sicuro capteranno in questa preziosa manciata di minuti, ciò che hanno vissuto o che avrebbero voluto vivere sulla loro pelle.

E se di rivoluzione emotiva parliamo, non si può non partire dalla storia di due corpi “Attratti”: due persone rapite da quella strana forza, l’attrazione, alla base di ogni sentimento, a cui nessuno può resistere, neanche i più fedeli che, dominati da questa, non possono fare altro che imparare a vivere o meglio sopravvivere in attesa dell’altro.
Abbiamo poi il tiepido sole di novembre in “Immobile”, che sembra poter far poco dinanzi all’impeto del sentimento scandito in modo sofferto e illuso da chitarra , batteria e a tratti da una voce modulata, che finirà col sentenziarci il fatale odio.
La terza traccia nonché pezzo forte dell’album è “Sbiadire”, ed è qui che troviamo forse versi e musica più trasognanti dell’album, finalmente la speranza che prende voce su un ritmo che ha in sé tutto il carattere del lavoro.

Tocca al “rock” invece la traccia più carnale “Lamette” che con la sua forza, non solo strumentale, ci getterà dopo innumerevoli scosse in un angolo, quasi come se fossimo degli spettatori in attesa delle tre ultime scene finali di questo film.

Un album, un film, che non ha inizio e non ha fine, ha solo un’unica costante, la passione: giovane ma forte, capace di cibarci di un nuovo genere di spleen, quello degli anni duemila, in grado di donarci, nonostante tutto, la speranza di incontrarci con il nostro inviolato amore “…lassù nel posto della più implacabile rottura. Funzionerà.” ("Ancora")

Il disco si scarica e ascolta gratuitamente cliccando qui.

Voto : ◆◆◆◆◇
Label: V4V-Records / 3SX Netlabel


mercoledì 12 marzo 2014

STORM(O) - Sospesi Nel Vuoto Bruceremo In Un Attimo E Il Cerchio Sarà Chiuso (Recensione)

Un volo tutt’altro che planare. Perturbazioni alla partenza.

Dall’incipit capisci che sarà un viaggio lunghissimo, lungo vie impervie, ci aspettano solo salite, nessuna discesa. La pesantezza con cui si apre il nuovo disco degli Storm(o) è qualcosa di abbacinante,” Il Volo”, lo strumentale iniziale delinea la rotta e sublima il futuro, la violenza espressiva di “Supernova” colpisce allo stomaco, manca il respiro, ad un tratto.

"In fuga” è un concentrato di nichilismo disperato, evidenza del pensiero su cui si basa il disco, un’assenza di speranza, le note ripetute e sputate in faccia si attaccano ai testi “Come mille insetti affollati ad un lampione”. Il pezzo è l’attacco frontale di un solitario: “Ogni volta che vi vedo mi sforzo di aprire gli occhi sperando in un brutto sogno".

"Ma non c’è niente da fare, purtroppo esistete davvero” ogni spiegazione è superflua.

Il terzo disco degli Storm(o) è spiegato nei primi tre pezzi, le coordinate sono totalmente chiare, quasi sono un manifesto di “Sospesi Nel vuoto bruceremo in un attimo e il cerchio sarà chiuso” Lo screamo italiano di stoffa buona, post hardcore sanguinante, emoviolence. Ennesima rappresaglia sonora. Gli storm(o) attivi dal 2005 e provenienti da Belluno, si confrontano con se stessi e le massime autorità del genere, ponendosi come contraltare ideale allo scempio senza fine a cui è sacrificato questo inizio 2014 della musica italiana.

Una sofferenza che è redenzione e che ci eleva sia nello spirito che nella carne. La violenza hardcore di "D’istanti" sia monito, sembra non esserci soddisfazione nemmeno nell’amarsi, oggi, il tormento è claustrofobia “Diminuisce la distanza tra me e te, aumenta la distanza tra me e l’aria.” I frantumi d’amore si polverizzano in “Un coltello, Compassione o Comprensione” “Viviamo nella speranza di una causa morta in partenza”, urla Luca, e sono le urla di tutti quelli che sono stati dilaniati, “consumati dalle intemperie”.

Disco profondo, disperato, prostrato alla sofferenza emotiva e alla violenza espressiva “ nel vuoto bruceremo in un attimo e il cerchio sarà chiuso” è la carcassa di un’umanità crivellata dai colpi della vita, resa poltiglia l’unica possibilità è far trapassare lo spirito.

Un disco necessario, oggi, un disco necessario per la sopravvivenza dell’ecosistema alternativo, necessario per sopportare e sopportarsi in ogni ambito dell’umana esistenza. No, non ho esagerato, la violenza ci salverà tutti.

Di seguito streaming e free download dell'album:

Voto: ◆◆◆
Label: Fallo Dischi/Dischi Bervisti/Shove/La Fine/Apileptic Media/Here And Now! Records

martedì 11 marzo 2014

Verbal - Called War (Recensione)

Citando a sproposito i benemeriti Monty Python mi vien da dire “e ora qualcosa di completamente diverso”. Diversi dal resto i Verbal, e diversi anche da quel che di sé stessi avevano detto, musicalmente, col sorprendente disco d'esordio datato 2012. Miscela di math e post rock rigorosamente strumentale, leggiadra in alcuni punti ma capace di tirar fuori i muscoli spesso e volentieri, una personalità spiccata installata su un genere che, quando si hanno le idee, ha ancora tanto da dire. Ed è forse alla ricerca di cose da dire che i 5 bergamaschi decidono di fare un passo ulteriore, allargando lo spettro musicale a nuove influenze con queste 4 tracce che vogliono essere un gustoso antipasto di un già previsto seguito dell'omonimo esordio. Nuove sonorità, con tutti i rischi che la sperimentazione comporta.
MK”, terza traccia dell'Ep, è sicuramente quella in cui i reduci dal precedente disco si troveranno più a loro agio. Andamento ipnotico, fraseggi e feedback chitarristici che si inseriscono su un tappeto ritmico in cui tanto il basso quanto la batteria si dimostrano efficaci, il brano svolta delicatamente verso territori più inquieti accompagnato da arpeggi e rasoiate noise in un crescendo continuo che si esaurisce di botto lasciando alla batteria il compito di chiudere quasi in solitaria. Un modo placido per essere introdotti ai nuovi Verbal, in cui si inserisce anche la novità della voce: la band bergamasca non è più prettamente strumentale, e lo si capisce già dalla partenza adrenalinica affidata al brano che dà il titolo all'Ep.

Called War” è decisamente spiazzante. Vuoi per la batteria tarantolata, per le chitarre che si inseguono spesso in maniera “monoaccordica” quasi fossero sirene d'allarme, ma soprattutto per la voce urlata che unisce all'insolito collage sonoro una componente hardcore che si spegne a metà brano per fare spazio a deliri psichedelici, fra synth e riverberi dal mood rallentato e ipnotico. Il basso, ispirato, fa da collante in un delirio di suoni che sfocia, quasi naturalmente, nella rilassatezza in salsa elettronica di “Disarmer”. Ancora una volta è il giro di basso in sottofondo a prendersi carico di traghettare l'ascoltatore fra soffusi e a volte graffianti inserti elettronici e chitarre liquide, su cui una voce leggiadra e riverberata quanto in “MK” (ma qui ben più presente) crea un'atmosfera quasi chillout, spazzata via da un ruggito chitarristico a cui solo un suono troppo secco impedisce di essere più efficace.

L'atmosfera tranquilla che si respira in “Disarmer” è niente però rispetto alla pacatezza che traspira dalle rade note della conclusiva “Rearmer”, che a dispetto del titolo porta la pace dei sensi più che un'improbabile chiamata alle armi. I vagheggiamenti elettronici si fanno ancora più presenti, la batteria scompare, e mentre una chitarra continua imperterrita a proporre note riverberate in sottofondo è quasi esclusivamente ai synth che il brano si affida per accompagnarci soavemente alla porta. Un po' imbambolati, e senza ancora un'idea precisa di ciò che abbiamo attraversato lungo questo breve ma intenso percorso musicale.

E in effetti mi ci è voluto un bel po' per scendere a patti con la foga sperimentale di Called War. Se già di per sé il disco d'esordio non poteva dirsi certo l'album più accessibile uscito in Italia nel 2012, ora i Verbal cercano di alzare la metaforica asticella ancora più in alto, una volontà che si scontra con quella dell'ascoltatore. Perchè alla fine vincono loro, sia chiaro, ma il tempo per digerire questa nuova pietanza sonora è più lungo di quello necessario ad approcciarsi ai loro “vecchi” esperimenti: l'allargamento degli orizzonti ci restituisce un gruppo che osa solo apparentemente troppo, forse l'unico appunto da fargli è di non essere riusciti a sfoderare una carica emotiva degna di quel piccolo capolavoro che rispondeva al nome di Coronado. Ma c'è ancora tempo per stupire.

Voto: ◆◆◆
Label: #hashtag







lunedì 10 marzo 2014

Le Luci Della Centrale Elettrica - Costellazioni (Recensione)

La prima volta che ho ascoltato Vasco Brondi, le sue Canzoni da spiaggia deturpata, qualche anno fa, non avrei neanche minimamente immaginato che il ragazzo di Ferrara sarebbe diventato un'icona della scena musicale italiana. Pian piano, con il passare degli anni, mi sono fatto la mia idea e oggi, Costellazioni è la definitiva certezza che mi sbagliavo. Nel 2014, Le Luci Della Centrale Elettrica sono una delle realtà più importanti del nostro panorama musicale.
La capacità del Vasco di Ferrara di comunicare immagini, sensazioni, emozioni, in un modo tutto nuovo e personale, astratto e surreale, ha vinto la concorrenza di una maniera di fare canzoni d'autore ormai antiquato e superato. Costellazioni è la definitiva consacrazione di un progetto che sembrava nato per sperimentare e che invece è diventato un simbolo della canzone italiana a metà strada tra nicchia e mainstream. Lo stile è ormai inconfondibile, come l'abitudine ormai assodata di riesumare  i mostri sacri del passato. Dalle prime note di " La terra, l'Emilia, la luna", sembra che Vasco voglia resuscitare il Rino Gaetano più ricercato, abbandonando il sound grezzo dei garage a Milano Nord, per cimentarsi in melodie più azzeccate e in un sound decisamente più collaudato. I passi di " Macbeth nella nebbia", anticipano quello che secondo me è uno dei pezzi più belli mai scritti dal cantautore ferrarese, " Le ragazze stanno bene". Il primo singolo lanciato in rete " I destini generali", più si ascolta e più diventa orecchiabile, evento raro nei precedenti lavori. Vasco si lascia andare ad un ritmo decisamente più pompato quando lancia nel vuoto " Firmamento" e la passione per i CCCP  insieme all'esperienza artistica con Giorgio Canali sono entrambe ben presenti e riconoscibili in "Ti vendi bene", altro pezzo azzeccato del disco. La malinconica "I Sonic Youth" entra tra le mie preferite insieme a " Una cosa spirituale", dove oltre alle chiare sfumature del su citato Rino Gaetano possiamo trovare anche una citazione di De Andrè ( " Se ti tagliassero a pezzetti, il vento li disperderebbe " ). Il disco è abbastanza fluido, nonostante Brondi si sia dilungato abbastanza nella durata, con le azzardate 15 tracce che sono di sicuro una scelta coraggiosa e si destreggiano bene sopratutto negli ascolti successivi. Senza voler esagerare lo reputo forse il suo disco più completo, probabilmente c'è quel qualcosa in più che mancava nei precedenti lavori. Costellazioni non passerà inosservato, con il suo parlarci delle stelle, della Terra, della luna e della Via Lattea. Il tema dell'amore sempre in grande spolvero come i riferimenti al passato e al futuro, ai materiali fragili con cui costruire quello che verrà, dopo aver cancellato tutto come in un dopoguerra, badando sopratutto alle parole, che a volte valgono più dei nostri lunghi abbracci.

Voto: ◆◆◆
Label: La Tempesta Dischi

sabato 8 marzo 2014

Cloud Nothings - Here And Nowhere Else (Recensione)

Difficile, se non velleitario, tornare a parlar di Dylan Baldi e soci senza partire dal loro ultimo Attack On Memory. Lo diciamo subito: Here And Nowhere Else non è AOM. Non vi sono le riflessioni e  gli struggimenti cari al disco della consacrazione, nè strapiombi tra mente e cuore ma solo pizzicotti allo stomaco e sberle di genuinità. L'album nella sua interezza potrebbe tranquillamente passare per un'unica bordata di pezzi tiratissimi, singalong, catchy; ventose mnemoniche irritanti per la loro maniera di intrufolarsi nella tua persona. Produzione scarna ma efficacissima per gli intenti elargiti. I santini di Replacements e Husker Du sono ancora ben visibili come anche certo post punk (il lungo anthem di "Pattern Walks" messo a disposizione per i reduci della stoica "Wasted Days"). Non mancano i singoli eccitati ed eccitanti (la pre-release, qui ultima traccia del lavoro "Part of me") o opener fulminanti, ("Now Hear It") e frullati di batteria ("Psychic Trauma") che riescono ad inoltrarti in pochi secondi all'ascolto di qualcosa che ti prende da subito per poi premere il tasto sull' acceleratore senza che ve ne sia il bisogno e lasciarti inesorabilmente stordito.

Se in passato chi scrive concludeva con "sei tu il tuo nemico e dischi come questo i tuoi complici"(mi si perdoni l'autoreferenzialità e l'ingoio allo specchio), in questo caso non troverete amico più fidato di Here And Nowhere Else e in un mondo migliore tutti dovrebbero crescere con ascolti del genere. It's only Baldi and roll but we love it.

Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Carpark Records

giovedì 6 marzo 2014

Piers Faccini - Between Dogs And Wolves (Recensione)

Fin dalle prime note e dai primi versi di Black Rose si intuisce i territori che batteremo avventurandoci all’ascolto di Between Dogs And Dogs, quinto disco di Piers Faccini, cantautore nato in Inghilterra da padre italiano e madre inglese e vissuto praticamente da sempre in Francia, influenze "geografiche" che in questo Between Dogs And Wolves  risultano più che evidenti sia musicalmente che nei testi e non solo perchè c’è un brano cantato in francese ed uno in italiano.
Un disco intriso dallo spirito e la malinconia di Nick Drake che aleggia dappertutto, ma anche dalla liricità di Leonard Cohen e certe atmosfere care a Bonnie Prince Billy.
Ma poi, magari, ognuno di noi potrà trovarci anche qualche altra fonte di ispirazione.
Riferimenti importanti e Piers si assume questa responsabilità e la porta avanti in modo personale con pochi amici che lo aiutano.
Vengono accuratamente evitati strumenti elettrici e percussioni e la parte musicale viene sostenuta principalmente dalla chitarra acustica e dal piano suonati da Piers, insieme ad altri strumenti, quali dulcimer ed harmonium.
E mentre lui si cimenta in quasi tutti gli strumenti, ci sono pochi altri amici ad accompagnarlo: Jules Bikioko al double bass, Dom La Nena al violoncello, praticamente in tutte le canzoni, entrambi anche impegnati ai cori, ed il “nostro” Rodrigo D’Erasmo al violino in Pieces Of Ourselves che, forse più delle altre, sembra una canzone ritrovata in un cassetto dalle parti di Tanworth-in-Arden.
Musica scarna ma essenziale, discreta mai invadente, che lascia protagonisti la voce, a volte solo sussurrata di Piers, ed i testi in cui è l’amore, dolce, appassionato, quasi sempre, per certi versi disperato che ispira tutte le composizioni.
Quello per una Rosa Nera “I was the skin for your thorns, the pale light for your bloom”(Black Rose) oppure per la ragazza nell’angolo “come my girl in the corner, even wrapped up you’re bare, you move like wind on the water, when the weather is fair” (Girl In The Corner), o quello leggero come una piuma per  un cuore di pietra“if your heart should turn dead as stone, stop this fire consuming me alone”(Feather Light).

Canzoni dagli umori profondamente autunnali quindi, con riflessioni sulla (propria) vita “ricordo una volta ma non quando, il tempo sai ti lascia andare, perché il passato fa male, forse è il momento di partire” (Il Cammino), “pieces of me in word I spelt too late, now that the door is closed and I’m out on the street” (Pieces Of Ourselves), ma da ascoltare e fare proprie in qualsiasi momento, magari anche quando l’inverno cederà il posto ai primi tepori primaverili, visto che Piers ce le presenterà proprio in quel periodo, nella prossima tournee italiana dal 14 al 22 marzo.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Beating Drum



martedì 4 marzo 2014

The Plastic Man - EP (Recensione)

I Kinks sono allineati nell’ultima fila della libreria in salotto, schierati con Love, Tomorrow, 13th Floor Elevator, Zombies. In alto nel corridoio riposano momentaneamente Dream Syndicate, Milkshakes, Opal, mentre sul pavimento della mia stanza giacciono Spacemen 3, Ty Segall, Wooden Shjips e la cricca Sacred Bones, a guardare l’andirivieni di Oh Sees e Kula Shaker dalla record box. Evidentemente sono anch’io inconsapevolmente affetta da retromania cronica, da un virus passatista che dimostra la sua virulenza tra la popolazione a intervalli più o meno regolari di vent’anni.
Ma questa “ossessione del passato che sembra permeare la cultura pop contemporanea” non è solo l’esito prefigurato da Simon Reynolds del reiterato shuffle digitale o del collezionismo museale; è in questo caso l’affermazione di un’inguaribile monomania, una fascinazione irresistibile per un suono desueto e insieme l’ossessione fanatica – al limite della mono-tonia – per un immaginario circoscritto a una precisa temperie musicale e culturale. Così, tra nuggets, pebbles e detriti di varia natura, i Plastic Man da Firenze ammettono senza riserve il proprio debito, sin dal nome mutuato dalla band di Ray Davies. "He Didn’t Know" esordisce con un riff zuccheroso e insistente, che sa sospendersi in attese improvvise prive di tensione; l’acida "Trap", sebbene non eguagli la malvagità del cavernoso garage di John Dwyer, tuttavia inietta oscuri fluidi lisergici che serpeggiano sullo straniato dondolio ritmico. Il maleficio è stemperato dalla sghemba "Light and Dark", la cui asciutta melodia dirada gli incubi foschi per aprire fantasmagorie ben più caleidoscopiche; Atlantis chiude l’EP con un classico fluttuare piacevolmente innocuo.
In qualche misura condivido la diffidente lungimiranza di Reynolds, e inizio a sospettare che, prima o poi, verremo soffocati da questa coltre di distorsioni, echi, saturazioni e riff ipnotici; che insomma il mondo finirà not with a bang, but with a reverb. 

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Teen Sound Records

Vintage Violence - Senza Paura Delle Rovine (Recensione)

Si parte e si torna alle rovine. Come quelle che fanno bella mostra di sé nella cover dell'album, consapevoli che la verità ce la dobbiamo cercare lì in mezzo, senza averne paura mentre andiamo incontro alla fine. E' un percorso studiato quello dei Vintage Violence, che in 13 schegge veloci (quasi esclusivamente sotto i 3 minuti di durata) ci portano a spasso per le rovine del nostro paese, dipingendolo con sarcasmo ed intelligenza. E poesia, perchè no.
Non poesia altolocata però. I testi di Rocco Arienti sono ancora più piacevoli perchè ci fanno sentire eroici nella sconfitta, con quel piccolo barlume di speranza che si vede là in fondo e che ci fa andare avanti. Passando inverni a sigarette e Joy Division, “cantando canzoni per chi muore, come una bomba fatta esplodere nel sole”: la voce di Nico, ne “I Funerali”, ti invita a seguirla in quel canto, finchè non lascia spazio ad una marcetta funebre energica e da pelle d'oca, accompagnata dal sax di Enrico Gabrielli. Ci invitano ad essere neopagani e neodecadentisti fino in fondo, “perchè nel tramonto è il sol dell'avvenire” (“Neopaganesimo”), outsider come i non frequentanti di cui cantano nell'omonima canzone, condannati a file sul treno prima di farle fuori dall'Adecco perchè “la mobilità sociale è per chi non ne avrà bisogno”. Piccole istantanee di un disco in cui poche parole sono messe in modo sbagliato, e i suoni non sono da meno. I cambi di ritmo convulsi dell'iniziale “Primo Ostacolo”, in cui si apprezza in modo particolare la batteria tarantolata di Beniamino Cefalù, la carica quasi punk mischiata ad un finale da orchestra di liscio dello sfogo “S.I.A.E”, la forma contorta e mutevole di “Metereopatia”: i Vintage Violence sono il gruppo rock che ti aspetti che fa cose che non ti aspetti, non hanno sonorità così fuori dall'ordinario ma il loro suono è comunque riconoscibilissimo, a volte divagano troppo (“Capiscimi” si apre con tecnicismi male amalgamati col resto e si chiude in maniera poco efficace, la strumentale “Il Mare” coinvolge solo a tratti) o cadono in qualche stereotipo (“Abbronzarsi Il Culo”, sull'apparente inutilità di fare musica senza venderselo), ma ne escono comunque a testa rigorosamente alta.

Senza Paura Delle Rovine è un album per tutti: ha il potenziale per piacere a chi cerca qualcosa che sia d'impatto e ti si stampi in testa velocemente, come a chi cerca qualcosa di non banale e arrangiato con gusto. Un piccolo miracolo, ancora meglio di quei Piccoli Intrattenimenti Musicali con cui mi avevano stupito un paio d'anni fa all'incirca. Ho solo un rimpianto ascoltandolo: non vorrei che il miglior disco dell'anno me lo sia già bruciato a gennaio.

Leggi qui la loro intervista.

Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Maninalto

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