venerdì 29 giugno 2012

Ilenia Volpe - Radical Chic un Cazzo (Recensione)


La rivoluzione è donna. Issata sui tacchi o dentro un paio di anfibi che sfidano il cemento, poco importa: è nella volontà di sintesi tra immagini contrastanti in cui la tradizione ha costretto madri, sante o puttane. E risponde a un nome: quello di Ilenia Volpe, con il suo grido di battaglia nonché album di debutto “Radical chic un cazzo”. Sotto lo sguardo lungimirante di un Giorgio Canali perfettamente a suo agio nel ruolo di produttore, la cantautrice romana propone undici tracce che alternano esplosioni di rabbia a momenti di dolcezza, che non restano scissi e indipendenti gli uni dagli altri ma che dimostrano di essere parte di un lucido e consapevole progetto. L'ambito di appartenenza è un rock all'italiana senza mezzi termini: lo dimostrano l'iniziale e disfattista “Gli incubi di un tubetto di crema arancione”, chitarre pesanti e batteria possente e pestata. Ridenti distorsioni attanagliano il suono della splendida “Preghiera”. Barlumi di punk condiscono un consueto e irriverente attacco al potere costituito in ogni sua forma (“La mia professoressa d'italiano”), al consumismo imperante rispondono le fruste sferzanti dei bassi in “Indicazioni per il centro commerciale”. Ci sono poi virate più soft in cui la chitarra e la voce di Ilaria diventano delicatezza e incanto senza alcuna perdita di energia: “Direzioni diverse” in una versione languida e incazzata al tempo stesso è un'avvincente sorpresa, “La crocifinzione” vomita sulle ipocrisie con un'eleganza insolita nutrita da un cantautorato scarno e da esplosioni violente, “Il giorno della neve” è ipnotica meraviglia strumentale.

L'accusa più grande che viene rivolta ai radical chic è paradossalmente implicita: quest'album è il rifiuto totale, rabbioso e pieno di gioia, di ogni mancanza di onestà emotiva, di ogni possibile “Fiction” - la scelta della cover del Santo Niente non stupisce affatto -, e il messaggio viene veicolato ancor più che nei contenuti, già di per sé espliciti attraverso una forma diretta come un pugno in faccia, come un bacio passionale che prende alla sprovvista. Una forma che pur non piegandosi ai dettami dello sperimentalismo e pur rimanendo ancorata alla vecchia guardia si dimostra agile e attuale in quanto espressione di disagi e gioie che mai potranno passare di moda. Nel dilagante autismo emotivo, Ilenia Volpe ci ricorda quanto sia splendidamente anacronistico assumerci la responsabilità delle nostre sensazioni. E di quanto sia lecito, poi, urlarle al vento, o farne un disco bellissimo.

Label: Disco Dada
Voto: ◆◆◆◆◇

giovedì 28 giugno 2012

L’Alba Di Nuovo - La Nuova Razza (Recensione)

Torna a scorticare la pelle il combo ternano dei L’Alba Di Nuovo, una vera scossa elettrica che ha come epicentro la destabilizzante Bay Area Californiana del punk HC melodico con gli apici dell’OI e della schiettezza espressiva, fradici di quell’urgenza sonica che fa scoppiare tutto, animi, teste fuse e coscienze sporche in un album nuovo di zecca, una scheggia che colpisce dove colpisce, che non da pace a complicità e dove anche tenersi alla larga non giova, ti raggiunge comunque.

“La nuova razza” è un contenitore nevrotico e giustiziero, pogo e scalmane da grandi occasioni e portatore di istanze sociali e urbane che lottano tra watt e cori accaniti, un disco, undici tracce - compresi lIntro e l’Outro - cha trasmettono carica e voglia di spaccare tutto, una giovane forma di ribellione già molto apprezzata in un “passato vicino” per la precisione compatta in cui detonano il loro essere musicisti, artisti senza compromessi che cronacano puntualmente quello che non va e quello che dovrebbe essere, piccoli grandi “esaltati” che incendiano al loro passaggio coni e membrane dei woofer.

E anche questa volta le cose non sono andate differentemente, propongono un grido di battaglia che sobilla letteralmente la sensibilità di orde di ascoltatori, quella tradizione a sconquassare il silenzio dell’essere qualunque, quella virtù che spara proiettili sonori e parole taglienti verso il silenzio, i silenzi che attanagliano l’aria che ci circonda, forti delle loro spinte propulsive che spaziano dai Good Riddance, Rise Again passando per gli Ignite, tutte band “poco raccomandabili” per benpensanti e falsi ladri di poteri; una stupenda minaccia elettrica che incede e che inquieta di verità “Il tempo”, che scatena la rabbia sugli interrogativi della storia “La nuova razza”, la voglia di pensare fitto “Il mattino” , la disillusione al quadrato “Virus” e poi se volete non definirlo un album che non le manda a dire, premete il repeat e sintonizzatevi con più attenzione.

L’Alba Di Nuovo è di nuovo in giro per far tremare l’ascolto, una delizia prepotente e liberatoria che – oltre a mostrare la forza della ragione – sbatte sul muso di tanti un talento davvero luminoso. Ed è solo l’inizio…


Voto: ◆◆◆◆◇
Label: GB Sound Records 2012






mercoledì 27 giugno 2012

Karl Marx Was A Broker - Alpha to Omega (Recensione)


Esercitando un’abile mossa di marketing d’altri tempi, il duo pistoiese che risponde al profetico nome di Karl Marx Was A Broker esordisce ufficialmente con “Alpha To Omega”, impasto orgiastico di spigolose angolature rock matematiche alternate ad impervie cavalcate post-core muscolose.
Che cosa significa tutto ciò che avete letto fino ad ora?
Che la band toscana (ri)prende a menadito l’esempio pesante delle band madri (Don Caballero e Zu su tutti) esercitandone quella che, specialmente in alcuni tratti (l’enigmatico quadrumvirato “Marx2.1”, “Marx IX”, “Marx8”, “Marx7” in cui è racchiuso l’acme di “Alpha To Omega”), appare chiaramente come una mera celebrazione o un esercizio stilistico “alla maniera di”, senza aggiungere, né sottrarre, all’equazione inestricabile generata dal finire degli anni ’80, e che ad oggi, non ha ancora trova lo sviluppo della propria incognita.
Avventurandosi alla ricerca del valore x, i Karl Marx Was A Broker cadono nel facile baratro dell’eccessiva ridondanza strumentale, in cui i testi e voci sono inseriti a margine del booklet - con l'esortazione verso l'ascoltatore ad inserirli e cantarli nel bel mezzo degli intrecci strumentali - per (im)proprio uso e consumo, lasciando l'eloquio alle muscolose incursioni di basso&batteria, con una tecnica secca ed ineccepibile, ma fin troppo ortodossa e legata al mero esercizio stilistico, asettico nel trasmettere il benché minimo afflato umano.

“Alpha To Omega” è un disco strettamente consigliato a chi – nei labirinti concavi del math rock – è ormai avvezzo e saldamente racchiuso tra le sue parentesi quadre.
Per tutti gli altri esseri umani, non è questo il punto di partenza (e tantomeno quello di arrivo).
In fondo, prendendo ispirazione quel “tizio” da cui il duo trae (sarcasticamente) la propria ragione sociale, non siamo mica delle macchine.


VOTO: ◆◆◆◇◇
Label: Escape From Today

martedì 26 giugno 2012

Garden of Alibis - Colours (Recensione)

Ci sono moltissimi dischi canaglia in circolazione, quelli che strizzano occhietti qua e la, infinocchiano il rimorchio istantaneo di girls  svagate e tormentano per mesi le membrane woofer di apparecchi stereo e palinsesti radiofonici senza poi definitivamente e musicalmente dire nulla se non i soliti quattro accordi e durare nel tempo come un fuoco di paglia; ascoltando questo “Colours” del quartetto torinese dei Garden of Alibis, ci si sente combattuti fino alla fine e viene da pensare due cose: grande truffa del pop-rock travisando il verbo di Glen Mathlock oppure un ambizioso e fresco rigurgito della spensieratezza poppyes  da classici ragazzi del muretto? Si sta nel mezzo del guado, occorrono vari giri di stereo per andare a trovare quella estremizzazione di pensiero per cronacare anche il più stupido dei difetti, ma poi gira e rigira queste undici tracce finiscono per piacerti e tenerti compagnia, canzoni che ti fanno passare bene un pomeriggio ovunque si stia.
Nulla che possa stravolgere l’underground nostrano, ma un ulteriore contributo alla piacevolezza del teen-pop su sembianze indie senza pretese e senza controindicazioni di sorta, quella passione sonica a cavallo tra MGMT e Of  Montreal, qualcosa alla lontana di Coldplay che si alterna, fissa e si dilegua con una velocità melodica e leggermente sfumata di elettronica per poi continuare in un continuo airplay; a parte il remix della traccia “Wicayo” da parte dei Motel Connection, tutto il resto della giostra sonica è un ascolto suggerito per I-pod durante afose giornate in piscina, la colonna sonora ideale per un estate senza fine, ritmi baldanzosi “Flower power”, il beat scanzonato “Colours”, lo shuffle di “Goa” e “Overplastic” fino all’immolazione di un accendino Bic da tenere acceso mentre passa la dondolante e tenerona “Winter lullabies”, praticamente un esordio “normale”, come ce ne sono tantissimi, forse con qualche sprint in più, ma è prestissimo per stilare un  parere completo.
Molti hanno rassettato malignamente – dato che il disco è distribuito da XL di Repubblica – che siano i soliti noti raccomandati, ma questo credo che non sia vero, tanto è il destino che parlerà, c’è un detto che dice che con la lunga sofferenza si ottiene un futuro mentre con il tutto e subito si rimane – se si rimane – un punto nero nel buio del nero.
Comunque da ascoltare senza impegno.       

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Hertzbrigade  Records  




domenica 24 giugno 2012

The Zen Circus - Metal Arcade Vol. 1 (Recensione)

Dando una sbirciatina sul bugiardino leggo: “...il primo volume di follie punk per una serie di Ep a scadenza casuale e giocosa...”, e credetemi non è una parabola o una affermazione così, tanto per dire o scrivere qualcosa, è una pura verità rimbombante che il trio pisano degli The Zen Circus “urlano” a tambur battente dentro questo “Metal Arcade Vol.1”, un sei tracce (e terza uscita) per Black Candy che fa scoprire – ma poi non tanto – la vera natura ribelle della band, la carica distorta e trascinante di un ipotetico percorso - a lato della loro arte primaria - visionario quanto imperdibile.


Punk da tutte le angolazioni, rivisitazioni di brani di repertorio personale, un inedito tutto sudore e pogo “Punk-oi-puppy” e “reinterpretazioni” di scariche elettriche passate alla storia come “Polisii pamputataas” (cantata in lingua) dei finlandesi Eppu Normaali, e l’energetica adrenalina dell’horror punk targato Misfits “Where eagles dare”, tracce sulle quali Appino, Karim Qqru e Ufo sfogano e assaltano l’imprevedibilità e l’urgenza con una frenesia senza uguali.


Un disco che guarda all’indipendenza con il ghigno doppio dell’indipendenza, fiero dell’unicità della proposta che seguita a stimolare in tutto e per tutto la passionalità e l’imbarazzo di chi delle proprie idee non ne fa mercanzia da svendere o pezze da ricucire per andare avanti, una “rivincita di cattivi ragazzacci punkers” che assestano mazzate soniche con la coralità di “Mexican requiem”, attraverso le corde di un basso imbestialito “Hillybilly cabdriver” e con l’italianissima “Vent'anni”, inno alla gioventù passata, a come si viveva dentro quando si voleva spaccare il culo al mondo intero.


Gli Zen Circus ancora una volta stupiscono per l’anarchia e la corrente alternata con le quali rinvigoriscono una monotonia underground che non accenna a riaprire i battenti. Così sia!

Voto: ◆◆◆◆
Label: Black Candy 2012








venerdì 22 giugno 2012

Davide Tosches - Il lento disgelo (Recensione)

C'è stato un tempo lontanissimo in cui uomini e donne se ne andavano in giro nudi, calpestando il terreno coi calli dei piedi. Tacchi dodici e cravatte non esistevano, il sole era una lampada che dettava legge e il miracolo più grande era sopravvivere a neve, bestie e volgari raffreddori. Allora, senza sovrastrutture sociali sistematiche, l'essenza della magia del Creato era qualcosa di concretamente godibile. "Il lento disgelo" ha molto a che spartire con la remotezza primitiva di quelle esperienze e con la necessarietà degli elementi che ne sono fondamento. Davide Tosches beve acqua con le mani e canta la sostanza più intima delle cose in un album che celebra la vita, affondandoci dentro con pathos e sete.

Così alla ''Terra'', madre e insieme matrigna impietosa e inospitale ''nel freddo bianco di neve'', flicorno e campane rivolgono un monito ancestrale che recita: ''Tieni lontano il tuo sguardo di morte, tieni distante la tua ombra e il veleno''. La necessità di conoscenza del mondo e la valenza che tale istinto ha nell'edificazione personale sono temi preziosi: ''Ali'' canta sotto voce l'insofferenza invincibile legata a ogni percorso di ricerca (''Quale segreto nasconde il bisogno di guardare dall'alto, accogliere il vuoto, sentire il distacco, calmare l'anima tremante? Come fare a spiegare il desiderio di aprire le ali?''), mentre ''Dove andiamo'' - preceduta da ottoni e organo nella strumentale e sognante ''22:47'' - riconcilia le ansie precedenti nell'amore, punto di contatto armonico fra microcosmo personale e macrocosmo (''Dove siamo quando il sole muore? Dove ritroviamo l'entusiasmo per il giorno nuovo? Ma ti ricordi dove ti ho incontrata e ti ho chiesto di essere la luce delle mie giornate per tutto il tempo che rimane?''), toccando uno dei momenti più intensi e coinvolgenti del disco, a suon di banjo e anarchico sax jazzato. Il ritmo cosmico e l'umano abbandono alla sua ricreazione eterna si riconoscono ancora nell'amore romantico della title track (''Io conosco il nome di ogni istante dei tuoi giorni che passano, e nessuno che cambia le stagioni. Come è forte il cuore, come è stanco l'inverno, dell'attesa del lento disgelo''), per poi prendere le sembianze di un dolcissimo inno sincretico in ''Poco alla volta'' (supportato dalla voce di Laura Caré, qui come altrove nell'album): ''Vita che splende di gratitudine, il cuore negli occhi di ogni creatura nascosta da alberi e sassi, così distante dal folle umano declino''. I due brani a seguire virano verso una prospettiva politica che conserva memoria e coscienza del respiro dell'universo (''Sono nato, e qualcuno mi aveva già imposto ogni legge delimitando la mia vita, i miei confini, le mie paure. Ma il coraggio di guardare e camminare sulla terra non è scritto dalle persone, ma dal vento, da alberi e cani nel respiro dell'universo'', ''Patriota'') e delle possibilità che stanno aldilà dei percorsi già battuti (''Chi ha paura del coraggio tiene stretta la sua rovina, chi mi teme, chi ha provato a capire la mia visione, chi è legato non ha dubbi; ogni cane ha il suo padrone'', ''Ogni uomo'').

Chiude (e realizza compiutamente ciò che era anticipato timidamente in un verso di ''Dove andiamo'': ''Dove respiriamo nella polvere delle parole, che oggi sono perle e domani ombre sulla strada?'') ''Scintille'', che sancisce il mistero segreto dei suoni dell'universo e della parola, ovvero la convenzione umana più naturale e potente: ''E ogni cosa che vive e respira e ogni stella è un suono, un suono, una frase inespressa, un istante nel lento cammino del genere umano che teme, allontana e confonde ogni ombra, ogni nebbia e ogni lacrima. E ora ascolto commosso con vago terrore ogni voce nel forte contrasto di frasi e scintille, e oggi tremo, gioisco, mi stanco, piango, sorrido, guardando e ascoltando ogni voce del grande caotico coro umano notturno''. In principio era il Verbo, e il Verbo era con Dio, e il Verbo era Dio. Senza voler fare i blasfemi a tutti i costi e scomodare personaggi vari dal calendario (verso il 25 dicembre circa), "Il lento disgelo" è un album solenne e umanissimo insieme, pulsante di passione, liricamente ispirato, onesto. Davide Tosches lo dedica al padre, ''nonostante tutto'' (dall'interno di un packaging curatissimo - è cosa buona e giusta menzionarlo - contenente foto e testi dei brani).

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Controrecords

giovedì 21 giugno 2012

Coffee & Tv - Poptimisti (Recensione)


Stanchi della solita tiritera e magari anche un pò giù di corda? Spappolati di tanti ripescaggi “post”? Dal momento che cambiare vita risulta ostico provate almeno a cambiare per il momento musica. Non vi sembra facile? Provate a schiarirvi le idee mettendo le vostre “antenne” nella tracklist di “Poptimisti” del quartetto napoletano dei Coffee & Tv, e una certa cognizione di arte dell’intrattenimento sonoro prenderà forma nella vostra ingombrata “stanza del pensiero”.

Pop indigeno che guarda oltre cortina, lisco e gassato come un drink estivo, un insieme di fragranze “cantautorali” che hanno il vezzo – ogni tanto – di accorciare le distanze col cosmo brit mantenendo la parola italiana, un giovane apparentamento con le pulsioni di Damon AlbarnLa mia ragazza” e un qualcosina di Arctic Monkeys che fanno tanto rifugio confortevole per ascolti stressati dal malessere sociale contingente; sei pezzi che costituiscono l’ossatura leggera e scorrevole di una tracklist interamente vaticinata per briosi palinsesti radiofonici, una forza simpatica e poppyes che prende e da confidenza sin dal primissimo giro di stereo.

 Potremmo dire che è la carica sempre accesa della immensa creatività di questa napolitaneità, di quel magnetismo artistico che da sempre proviene dal suo centro focale, fatto sta che questi giovani baldi fanno un disco che fa scoprire un sacco di cose con pochissimi accorgimenti, fuori delle pause di riflessione e alla larga dagli spazi compressi esistenzialisti, si certo circolano amori, storie, sfighe e accessori, ma tutte col piglio jumpers, come ad esorcizzare con la seduzione del loro caracollare adolescenziale, vizi e virtù di un presente da prendere in mano certamente, ma solo quando si ha voglia.

I C&T hanno l’espressione sonica dei giocatori di session che non ha nulla a che vedere con l’underground, sembrano reduci da anni di palchi e tour, ottima è la resa d’insieme, basta sintonizzarsi sui falsetti filo-ska di “Cosa resterà”, il dinoccolamento di gambe e chitarra Bluvertigo Style “Persone”, il momento clubbing fumoso dove un Bennato girovaga indisturbato “Il meglio che puoi fare”, traccia che vede Alessandro Laraspata ed il rock che in “Bella gente” ironizza sulla società ed i suoi affittacamere del potere, e potrete constatare che la musica che arriva da questo “dischetto” non male affatto vi avrà sorpreso, conquistato.

Che dire, un lavoro di poche pose modaiole e molta sostanza hit, promosso!

Voto:◆◆◆◆◇
Label: Autoproduzione


mercoledì 20 giugno 2012

Bosio - L'abbrivio (Recensione)

E’ sicuramente con l’idea di volersi lasciare alle spalle la riva del “dietro le quinte”, che Pietro Bosio (ex bassista e arrangiatore di Laghi Secchi, Numero6 e Tarick1) e suo fratello Enrico (vocalist degli En Roco)  prendono il largo con “L’abbrivio”. Termine abbrivio che la dice lunga sul loro primo lavoro e in effetti questa nautica parola, cara a gente che come loro viene dal mare (Genova), è usata per cosa o persona che si muove con forza dalle rive.
Ed è proprio nella seconda canzone “Lontano” che sentiamo questa forza, accompagnata da una dolce chitarra ed un timido banjo, in un melodico ritornello di un viandante smarrito, silenzioso scatto che ricorda sicuramente una malinconica Genova.
Paesaggi, dolci melodie e banjo compaiono chiaramente anche in “Cimento”, ma non si può certo dire che il primo lavoro dei due fratelli Bosio , accompagnati da Giorgio Augerinos alla batteria, sia a senso unico.
Abbiamo infatti ben undici abbinamenti, varietà di temi, grande esperienza musicale e soprattutto genuinità di testi in questo disco.
Spazieremo  dall’ironica “No Vatican No Taliban” in cui il tema politico ed anticlericale si accompagna deliziosamente ad un sottilissima melodia che esploderà solo alla fine in un assolo di chitarra elettrica e synth, alla ben più introspettiva “Che fare?” che, con i suoi solo tre minuti, ci fa letteralmente cambiare umore. Il tutto ovviamente viene stravolto dalle successive tracce che con assoluta consapevolezza di contrasti e sperimentazioni ci portano “In auto” dove non si può non notare la comparsa del  violino o la dolcezza dell’immagine dei pesci che volano.
Ma parlare di canzoni forse è riduttivo, direi piccole perle quotidiane, e forse l’ultima,“Verrà la pioggia”, a non pochi suonerà come una vera e propria poesia, una di quelle che non riuscirà a scivolare via, ma pulserà dentro  tra synth, violoncello e battiti con un coro che continuerà a riecheggiare nella testa.
Cantautorato contraddistinto da filosofia e stile che riflette fedelmente un realismo naif che forse Pietro stesso ha vissuto negli anni d’attesa.
Attesa, concepita un po’ come Bukowski scriveva : “Aspetti, e se non succede niente, aspetti ancora un po’. E’ come un insetto in cima al muro. Aspetti che venga verso di te. Quando si avvicina abbastanza, lo raggiungi, lo schiacci e lo uccidi. O se ti piace il suo aspetto ne fai un animale domestico.” I Bosio hanno atteso e ciò che noi ascoltiamo è solo realtà “addomesticata” in musica, e che musica…

Voto: ◆◆◆
Label : The Prisoner Records



sabato 16 giugno 2012

Michele Di Toro Piano Solo - Echolocation (Recensione)

I tasti di un pianoforte come perpetua guerra dolce contro il tempo, il lusso della melodia apice di questo scontro e punto di non ritorno per la diffusione extra-sensoriale della musica e per la liberalizzazione delle contaminazioni; si effettivamente la poliedria è nei cromosomi di Michele Di Toro, musicista e pianista di eleganza unica, e a conferma di tale assioma arriva questa sua opera prima “Echolocation”, opera dove l’artista stila ed impianta tutta la sua pregevole caratura armonica, tutta la sua indulgenza al bello.
Un lavoro che mischia le proprie carte sonore, classica, jazz, idiomi popolari, atmosfere e commenti improvvisati, la summa di un suono mitteleuropeo che affascina di elasticità e estaticità l’emozione che gli gira intorno ed un ascolto che, rapito dalle meccaniche dolci delle dita, sogna, schizza, trema e torna a sognare come in un carosello di note e arcadie inaspettate; tredici pièce strumentali in cui l’artista abruzzese non solo mette in mostra la straordinaria sensibilità di un animo spalancato e teso alla notte “15 Luglio”, “Il giardino segreto”, “Senza te” o la titletrack, ma vola, si fa Pindaro in ascese incontrollate sperimentali “Dr. Jekyl & Mr Hide”, sghiribizza sui tasti impazziti “L’arrogante Bartok”, fa il gattone esistenziale in “Prokofiev il visionario” per lasciare poi, definitivamente il suolo di una gravità terrestre stretta, e arrampicarsi sui cromatismi di un honky-tonky swingatamente boppato “Distinti saluti” e amen.
 Tra un Francis Poluenc ed un estetico Erik Satie, passando per le architetture ritmiche di un Bollani personalissimo, Michele Di Toro distribuisce un agio espressionista di livello “sommo”, proiettato verso quelle frontiere color blù che respirano l’aria di ieri, quella eterna, e inspira gli interplay di una costante timbrica super, tanto da lasciarci capire che la ricchezza della musica passa tassativamente tra la pelle e le piastrine del sangue di chi la “fabbrica”, fino ad esondare negli spiriti di chi l’accoglie.
Se l’estetica e la bravura sono eternamente in cammino, in questo disco di certo hanno fatto una sosta.    

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Volume! Cramps Edel 

giovedì 14 giugno 2012

Japandroids - Celebration Rock (Recensione)


31 dicembre, ore 23.50.
Il nuovo disco dei Japandroids inizia così, con una sinfonia distante di raudi e minicciccioli a preavviso di un imminente festeggiamento. Questa volta però le micce non si accendono a salutare l'arrivo di un nuovo anno, ma a celebrare una manciata di canzoni, anch'esse nuove, confezionate dal duo canadese al termine di un estenuante tour durato quasi due anni. 
"Celebration Rock" (Polyvinyl, 2012) porta avanti egregiamente e coerentemente quanto affermato al debutto ("Post-Nothing" - Polyvinyl, 2009), presentando un mix caustico di rumore e urgenza punk; questa volta però, imparata alla lettera la lezione di Bob Mould sul rapporto tra noise e melodia, fanno un piccolo passo avanti abbandonando parzialmente la grezza spensieratezza dell'esordio a favore di una produzione più curata e timidamente più adulta.
Gli echi di Husker Du e Sugar fanno capolino tra i leggeri, sporchi reverberi di Fire's Highway e Evil's Sway, mentre la frenetica Adrenaline Nightshift fa da ponte tra suggestioni eighties e scenari "indie-punk" più attuali, chiamando in causa formazioni dalla storia più recente come No Age o i conterranei Fucked Up (ritrovabili anche in The Nigts of Wine and Roses, Younger Us e nella hit-singalong The House That Heaven Built).
Unica nota dolente del disco l'evitabile reinterpretazione di For The Love Of Ivy di The Gun Club ad intaccare parzialmente, a mio avviso, la freschezza dell'insieme.
Il mid-tempo di Continuous Thunder ci accompagna verso la dissolvente conclusione del disco, in un ritrovato trionfo di botti pirotecnici che ricordano i fuochi d'artificio del vicino di casa, in un primo momento dimenticati, poi riscoperti e fatti brillare alle dieci del mattino seguente, ovattati, lontani, percepiti in un dormiveglia che odora di un capodanno speso a stage-diving e singalong.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Polyvinyl

mercoledì 13 giugno 2012

Hell’s Island - Black Painted Circle (Recensione)

Non è poi così traumatico dal punto di vista sonoro il secondo Ep dei bresciani Hell’s Island, “Black Painted Circle”, ma comunque vistose ecchimosi te le lascia eccome; è un disco buio, nero, oscuro come le maledizioni del grunge quello dalla parte delle malattie interiori, del disagio del vivere, incazzatissimo davanti agli interrogativi umani, divini e le relazioni di mezzo, la frustrazione come acconto sul resto.

Quattro tracce che si specchiano nel fondo dei nervi tesi degli AIC, micidiale nelle attitudini Tooliane ed intrigante nella qualità della cattiveria che emana, tracce intrise di melodie acciaiose, percorse anche dall’elettricità fondamentale del trash-metal e che in fondo lasciano - in tutto il loro splendore – quell’amarognolo sapore di sconfitta umanoide, quel meraviglioso sentore di “peste distorta” che ci assale per la gola, tempie e stomaco; il tratto fondamentale della band bresciana è che manipola perfettamente le sonorità dure con una buona dose di personalità senza cadere nella trappola infima dell’auto celebrativo copia in colla di tantissime altre formazioni del settore, un modo – il loro – di interpretare “l’ansia elettrificata” con una potenza immediata che ci catapulta nei Novanta come un robusto calcio nel culo dato con rabbia.

Senza mai arrivare ad un suono estremo, gli Hell’s Island, macellano di gusto, diretti e frontali come nel muro di porfido innalzato in “G.o.d (Guilty of Dyng)”, tra i fendenti lancinanti della titletrack, dentro i pruriti mid-tempos di un evanescente Layne Staley, angelo caduto da “Opaque solo” oppure nelle matrici misticheggianti che arrotano visioni ottenebrate di Godsmack e TaprootDown again”, una quaterna di tempeste amplificate che si fanno notare al loro passaggio, e lo fanno con prepotenza.


Ep che mette subito in “scuro” le sue intenzioni e che ci mette subito in attesa di un futuro sviluppo a disco completo, per il momento viviamone la paura ed il dolore che beatamente ci dona.


Voto:  ◆◆◆◆
Label: Autoproduzione

martedì 12 giugno 2012

Silvia Dainese - 11 (Recensione)

Il primo contatto sensoriale della sottoscritta con il mondo di Silvia Dainese avviene sottoforma di visione del videoclip della settima traccia di "11", "O la luna in gola", in cui la videocamera del telefonino della cantante, che si riprende da sé, indugia più che altro sul sotto gola della stessa - diciamo più giù di una decina di centimetri. Non mi accorgo che ho le cuffie stereo al minimo, così vedo solo le immagini di una bella brunetta muta che si diverte a fare la birichina - così mi pare - scarabocchiandosi la pelle. «Un'altra intellettuale che punta tutto sulle bocce», la bollo così. Poi mi rendo conto che non c'è audio, così alzo il volume, faccio ripartire il video, e inaspettatamente mi parte per le orecchie la canzone di un (ricco) EP che trasuda fascino, e la cosa delle bocce fa harakiri all'istante.

"11" è un ottimo lavoro di elettronica pop, prossimo per atmosfere alla migliore Antonella Ruggiero e agli Ustmamò ultima maniera, e in cui tutto sta in piedi con equilibrio elegantissimo. Nei testi Silvia ama giocare con le sinestesie, e le sette canzoni del disco - più gli "11 secondi" dell'ottava, che chiude il cerchio in completo silenzio - sono di fatto catene emozionali e matrioske che includono esperienze di percezioni multiformi. Così ''Pac-Man (Siamo soli)" esordisce con un insolito ''diventare grande è una cosa liquida: pianto, gioia, sudore, sangue'', in cui confluiscono il ricordo delle corse ansiogene del pallino giallo sole del videogioco, in fuga da spietati fantasmini zombie, e la corporeità più quotidiana, concreta e precaria dello stare al mondo. "Sono una sognatrice'' è un piccolo monologo interiore adagiato su un loop ipnotico e battente, in cui anima e corpo si divertono a scambiarsi d'abito e confondersi l'una nell'altro ("vivo sulla luna sopra un albero di cera che si scioglie a ogni ricordo triste' [...], mi consola la terra di poterla sentire sotto i piedi da sveglia con un bellissimo sole"). Ancora, la contaminazione dei sensi in "Sapore di zenzero", dolcissima ballata introspettiva, tenta di definire l'indefinibile completezza di un "giorno perfetto" come l'aroma dello zenzero: "se fosse un movimento potrebbe essere intenso; se fosse un ricordo, l'odore delle rose". "Baciami e odiami" propone uno dei topoi più triti e ritriti in materia di canzoni d'amore, quello dell'odi et amo catulliano, ma qui in una deliziosa chiave synth-pop britannico anni '80 che salva capra e cavoli aldilà della convenzionalità tematica ("almeno ama l'amore!"). Con Silvia duetta un ospite perfettamente in linea col progetto, Luca Urbani: "Non diciamolo a nessuno", che potrebbe benissimo essere spacciata per una canzone dei Soerba, è un'elucubrazione surrealista e paranoica in cui trionfa di nuovo il gusto per le commistioni sensoriali ("donna, illusione, senso e colpa e succo di sole, vorrei fidarmi di te"). Climax assoluto del disco, "Pelle come limone" è una sorta di manifesto descrittivo del mondo emotivo di Silvia Dainese, una che non si fa troppi problemi a riconoscersi in epiteti della serie stronza-duale-depressa-antipatica, una che "chiamami pure pazza se ti scrivo una poesia"; una colata di lava rovente che trabocca contraddizioni e fragilità sensualissime.

Chiude "O la luna in gola", settima canzone vera e propria, quella del video famoso di inizio recensione - video che, dopo sei brani capaci di catturarmi per intensità e forza evocativa, assume tutto un altro sapore, quello dell'intimità condivisa. "Ti odio, sono sull'autobus, un uomo scende...": si affaccia di nuovo l'amore deluso, e con esso piccoli gesti e immagini di quotidiano che si mescolano a associazioni di idee inusuali eppure efficacissime ("Chissà, sarò sola o il mio amore mi sorriderà ancora? E gli amanti partiranno e la coca-cola la berrò ancora, e la neve tornerà al suo posto come tanto tempo fa con sciroppo di menta").

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: TdEproductionZ 

lunedì 11 giugno 2012

Patti Smith - Banga (Recensione)

Lo sconfinato amore per il nostro Paese ha portato la grande sacerdotessa del rock Patti Smith a fare un nuovo disco di inediti zeppo di riferimenti all’Italia, a otto anni da Trampin’ e Twelve, dischi che avevano suonato bene ma di routine; “Banga”è il nuovo fuoco discografico che la grande artista americana accende proprio in questi giorni e che aggiunge sostanza e magia al vero rock, quello inteso non solo come sound ma anche come portatore sano di poesia e umanità.


Un disco che innalza l’arte in tutti i suoi dettagli, denso, pacato, vibrante, luminescente, elegiaco per come maneggia la grazia e il soffio potente del rock, dieci canzoni – tra le quali un personalissima versione della Younghiana “After the gold rush” – pensate e scritte oltre che sul ponte della nave Costa Concordia (quella del naufragio del Giglio), durante una crociera solitaria mesi prima dell’incidente, e altre due concepite ad Arezzo insieme ai ragazzi della Casa Del Vento dove la visione di un dipinto di Piero della Francesca viene fissata per l’eternità nella stupenda suite de “Costantine’s dream”.


Disco che snobba le moderne tecnologie, solo chitarre e poco più, una tecnica sicura ed estroversa che sorregge il mito Smith negli anni e che fa sempre scuola, tracce che lasciano – sembra una gag – il solco ed il tenore della semplicità quasi geometrica, spazi e variazioni metriche lasciati nel cantuccio per riprendere in gioco il profumo della poesia come ornamento della bellezza e della sensibilità; molti gli omaggi sottoforma di storie tenere, “Maria” dedicata a Maria Schneider (Ultimo Tango a Parigi), “This is the girl” ad Amy Winehouse, “Seneca” omaggio al figlio di Steven Sebring (regista del film Dream Of Life) o “Nine” scritta per il compleanno di Johnny Deep e dove un riff di chitarra elettrico di Tom Verlaine (ospite) fa rabbrividire l’epidermide, ma anche un caldo pensiero tutto rock bollente alla tragedia giapponese di Fukushima “Fuji-sun” e limpidezze creative che abbracciano tra sguardi furtivi e aperture di cuore Bulgakov, San Francesco dei poverelli e Tarkovsky, tutti ornamenti aurati di una qualità umana inarrivabile e che Patti alberga tra le stanze dei suoi dolcissimi accoramenti.


Nel mezzo del cammin della vita, può venire in mente di guardarsi indietro e di voler tracciare delle riflessioni e sentire ancora suonare dischi così come fossero ulteriori suggestioni da incamerare nell’animo fa “pressione vitale” affinchè la simbologia del rock ancora possa immergersi tra mito e realtà, e tutto questo Lenny Kaye lo sa, non perché segue questo mito da sempre, ma anche perché è la realtà con cui deve fare i conti ogni giorno che sia giorno.


Inesauribile caleidoscopio sonante da ascoltare quando la sera si avvicina lascivamente alla notte.

Voto: ◆◆◆

LAbel: Columbia 2012



sabato 9 giugno 2012

Diquieted By - Lords Of Tagadà (Recensione)


Nel mio montuoso e sperduto paese d'origine la notizia dell'arrivo del luna park era generalmente accolta con fibrillante giubilo dalla fetta più giovane della popolazione locale, in particolar modo dagli amanti dei ritmi a cassa dritta, attirati da un ricchissimo piatto pomeridiano a base di dance e calcinculo. Tra le attrazioni offerte dal piccolo parco itinerante, il tagadà rappresentava senza dubbio uno stimolo ad affermare la propria superiorità in fatto di coraggio e stile, un'interminabile ed impavida sfilata al centro della scena sotto gli occhi di un pubblico rotante inerme, immobile di fronte a tanta superiorità gabber.
Ecco. I Disquieted By non hanno il cappellino appoggiato sulla nuca, il bomber con l'interno arancione e forse nemmeno il booster, ma di certo non restano indietro quando si parla di stile.
Questa settimana, a sette anni di distanza dal primo EP, ha visto finalmente la luce "Lords Of Tagadà", una bomba punk'n'roll che segna l'esordio in full-lenght della band toscana. Il marchio garante di qualità è quello della coppia To Lose La Track / Sons Of Vesta, accompagnate, per la parte grafica, dalle sapienti mani della "mai doma" Legno.
Arrivati al luna park, i nostri salgono prepotentemente al centro del disco rotante e ci rimangono per una buona mezz'ora, trenta minuti di energia dal dichiarato background punk e dai quali traspare un'ermetica maestria negli arrangiamenti figlia del miglior Gregg Ginn d'annata, senza mai trascurare la limpidezza delle chitarre rock'n'roll, a testimonianza che "energia" e "distorsione" possono correre liberamente su due binari ben distinti. 
"Pirates", "Join Us Cops", "Protogone", "Mamimami Corazon" portano ad immaginare uno scenario nel quale i Bronx e il cantante degli Every Time I Die vestono selvaggiamente i panni degli Hives; inni da cantare a squarciagola, cavalcando l'indecisione di puntare il dito verso il palco o in alternativa trasformarsi nel più scatenato Adriano Celentano da pista.
I Diquieted By entrano nel tuo luna park, ti insegnano il rock'n'roll, si rubano il tagadà e se lo portano sul palco ancora in funzione, dimostrando a tutti di essere dei veri signori di stile. Per questa volta i gabber si dovranno accontentare del calcinculo.


Scarica a questo link Lords of Tagadà

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: To Lose La Track / Sons Of Vesta

venerdì 8 giugno 2012

Serpenti - Serpenti (Recensione)

Era il 1982, anno in cui anche in Italia iniziava a farsi largo la new wave con le sue mille sfaccettature.
Molti ricordano i Decibel capitanati da Ruggeri, ma in pochi, pochissimi ricorderanno la meteora Diana Est con i suoi soli tre singoli. Il primo “Tenax” scritto da Ruggeri, inno alla notte con il suo “ Val la pena vivere solo dalle 11 ” viene oggi reinterpretato dai “Serpenti”.
Traccia che apre il loro secondo album, stesso testo a tratti reso incomprensibile da citazioni latine, ma di sicuro con una marcia in più.
Il “quid” presente in questo duo (Gianclaudia Franchini e Luca Serpenti entrambi già Ultraviolet), è la giusta fusione di musica rock e musica dance- elettronica, tanto giusta da riuscire a coinvolgere in tutti i live-set il pubblico. Ad arricchire, o forse caratterizzare il disco, è sicuramente la cattiva e carismatica voce di “Clou” che, già in “Senza dubbio”, a suon di synth e con un ritornello che ci mette davvero poco a contagiare, fa sentire le sue caratteristiche sensuali, per poi esplodere in irresistibile poesia erotica nel resto del lavoro.
Nove tracce che sicuramente ci porteranno con malizia alla scoperta del nostro corpo e delle nostre sensazioni.
Partendo da “Tocca la mia bocca” in cui non solo per il riff, ma anche per il synth-pop non può che ricordarci “Don’t you want me” dei pionieri Human League, si procede con la passionale e cadenzata “Io tu e noi” in cui riferimenti al piacere son così palesi da non lasciar spazio all’immaginazione.
Immaginazione che di sicuro verrà rapita lentamente da synth e batteria anche nel penultimo brano,“Scendo piano”, quasi come se una mano scivolasse su di noi chiedendoci di restar fermi perché al resto penseranno loro.
Finale lasciato alla crudele “Sei come sei”, in cui il duo pugliese ha ancora tanto da bruciare, un testo diretto, giusta energia, una elettro-ballad a tutti gli effetti si direbbe.
Insomma un po’ Human League un po' Krisma, ad altri sembrerà di percepire i Ladytron ma di certo l’uscita di “Serpenti” per gli amanti di questo genere è una ventata d’aria fresca , una voce che mancava, una musica che ha della qualità nei suoi virtuosismi (a volte un po’ eclissata), c’è di fatto che la gente cantando le loro canzoni avrà anche modo di ripetere: “La gente parla di una novità come noi” , e di novità si sa la musica ne ha sempre bisogno.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label : Universal





giovedì 7 giugno 2012

Vito Ranucci Ensemble - Dialects (Recensione)

Vito Ranucci, è come una libellula che ha il pandemonium dentro, artista che non conosce limiti o frontiere, sottotoni di colori o accenni di ventilazioni contro, ha la declinazione netta di essere un qualcosa sopra inteso come allineamento astratto di visioni sonore al posto della mera poetica declamata, un musiconauta sospeso tra chill out, ectoplasmicità lounge e passionali di lontani St.Germain “Dans le Regard”, Shazz comprensivi del french touch di Dimitri from Paris; un disco che fa galleggiare come un pallone gonfiato ad elio tra nebbie, derive, dream-things e sortilegi immaginifici che hanno come base preponderante il lessico onirico dell’house, il nu-jazz. e tutta la fresca acidità psichedelica che può scaturire da una inesausta ricerca di immaterialità fisica.


Dialects”è il nuovo album dell’artista campano, ed è una pregevole scaletta di voli e dinamiche che portano ovunque, tra suggestioni mediorientali, cumini mediterranei, analogie e atmosfere che si fa fatica a non prendere l’alto come forza gravitazionale libera, una tavolozza di colori e schizzi sopra una tela bianca come un gabbiano pronto a salire le cime della creatività, delle emozioni che non fanno mai mancare il loro appoggio durante l’ascolto di queste stupende dieci dimensioni registrate; un riuscito espressionismo fusion multiarts con arditi cambiamenti, mutamenti che portano l’ascolto in un unicum davvero semplice e sofisticato nell’insieme, dove l’effetto sulla pelle e sul cervello gioca di suo e regala una fruizione metafisica terragnola non indifferente, stupenda.


Vecchio e nuovo in un contemplarsi a vicenda, con gli occhi arrossati e la mente aperta, l’intimità friabile di “Poison”, il Sergio Bruni rivisitato in un vanishing rarefatto “Carmela”, gli echi e le risonanze liquide che bagnano e asciugano il soffio di “Impunity” o l’azzardo vincente di “Choral” che si insinua tra le pieghe della santità corale de “La Passione secondo Matteo” di J.S.Bach con una preghiera araba da brivido, oltre le divisioni e gli sguardi in tralice di una umanità atroce; ascoltare questo disco è stare molto su, è stare in una dimensione non canonica, ma un ricercare una certa spiritualità musicale che non ha compromessi di mercato o di scaffale, piuttosto un viatico esemplare in cui il respiro del sax e l’arte del compiuto sonoro di Ranucci crea, risolve e ricrea quelle stanze sonore e idiomi musicali come il down-beat dal sapore Caposselliano “Napoli hard”, tutte pulsazioni che confondono, vibrano e esaltano il nostro “piccolismo” umanoide indecifrabile.


La world music, le sue poliritmie e le sue sensazioni prendono ancora più forza, se questo lotto di cose belle viene ascoltato a loud dieci, poi la trasgressione di girare il corpo e la mente a ritmo di questi “dialetti” colorati vi sosterrà come sufi roteanti sotto la regia di questo musicista e del suo Ensemble, dopodiché più mondi daranno più albe è più dolci tramonti.


Voto: ◆◆◆◆
Label: MK Records 2012









martedì 5 giugno 2012

La Fine Del Mondo - Siamo Nati Lontano Ep (Recensione)

Più che un disco una performance, una scienza trasparente ed evolutiva di come dire certe cose in un mare di suoni e atmosfere questo “Siamo nati lontano” del combo dei La Fine Del Mondo, quattro tracce che fanno yo-yo  tra il metafisico e la provocazione scongelata di lontanissimi CCCP, una sorta di improbabile probabilità per raccontare – con grafiche sonore moderne – messaggistiche, approcci misterici, dei “porgersi” sperimentali che vanno subito ad agire in un ascolto sfizioso e intrigante.
Sguardi, visioni, fumisterie e deliri sulle invariazioni dell’esistenza, parole e poetiche sghimbesce di serietà che inanellano genetiche post-esistenziali ed inquietanti dintorni, quasi un voyager rock attraverso lo spirito oscuro di chitarre elettriche e tutta l’armeria di una rock band che s’imbeve – anche magari bevendoci su – di implacabile e materico, che non vuole reggere chissà che confronto e con chi, solamente vibra la sua dimensione lenta e lavica nella continua accensione di un pathos per tutti.
La poetica di Simone Molinaroli, la chitarra di Alessio Chiappelli, il basso di Simone Naviragni, la batteria di Matteo Parlanti e le sinuosità danzanti (nelle dimensioni live) di Valentina Innocenti, sono il contenuto autentico di tale musica, del romanticismo trasversale che riga “Forse un giorno/Fissammo l’orizzonte”, del flusso mariachi “contro” il disturbo vanesio ed inconcludente delle menti e dei corpi “Illuminazione Nr.1”, autore dello slow atmosferico che ri-disegna l’origine della specie non speciale per antonomasia “Siamo nati lontani” e dello scatto rock psichedelico, con veli sci-fi che “Tutti siamo morti” diffonde come un proclama Dada che ingloba bellezza remota; basta poco per dire no alle scemenze underground, basta passare attraverso il risveglio delle qualità migliori, e piccoli gioiellini come questo Ep bastano e avanzano per rimettere in azione l’anima al posto di un cervello vuoto.    
Della serie, le piccole eccellenze strampalate che potrebbero riaddrizzare grammature di mondo.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Salmone Rec  







lunedì 4 giugno 2012

New Candys - Stars Reach The Abyss (Recensione)

Bisognava attendere il 23 marzo perché “le stelle raggiungessero l’abisso” e la Foolica le accogliesse, ma di sicuro aspettare ne è valsa la pena.
Un grande salto quello dei New Candys, che dura circa cinquanta minuti, tempo che vi sembrerà interminabile se lascerete alle spalle la realtà che vi circonda.
A darvi una mano per affrontare al meglio questo onirico “trip” ci penseranno loro, basterà premere play e vi ritroverete in uno “stridente”  vortice di psichedelia e garage, accompagnati da sitar, xilofono e percussioni.
Ad aprire l’album è “Hand Chain Dog”, forse la traccia più cupa, in cui l’alternarsi tra basso e sitar abitua l’ascoltatore al vero obiettivo dell’album : lasciarsi andare in un dualismo di buio e luce.
Dualismo e atmosfere mistiche che ritroviamo anche in “Sun is Gone (‘Till day returns)”, in cui non si può fare a meno di notare l’orientale intermittenza tra sitar e percussioni, ad evidenziare che il sole è andato, ma il giorno ritornerà.
Sembrano dunque arrivati dal buio i quattro ragazzi di Treviso, capaci di introdurti in atmosfere davvero lontane e surreali, ma anche di riportarti alla luce. Sono tracce come “Dry Air Everywhere” che cambiano decisamente marcia, che ti scuotono a suon di rock con acidissime chitarre, facendoti riflettere se sei davvero a tuo agio nel posto in cui ti trovi.
E ancora potreste venire accolti dal vuoto in “Welcome To The Void Temple”, ma titolo e sensazioni  sono ovviamente un dolce ossimoro, perché sin dalle prime note l’unica cosa che vi si presenterà sarà un’istantanea intrisa  dello stesso senso melodico e sognante, che solo lo shoegaze dei Jesus & Mary Chain sapeva evocare.
C’è spazio anche per dolci melodie da carillon, quelle di “Purple Turtle on Canvas”  e “Butterfly Net”, che quasi ci riportano indietro nel tempo, magari quello dei Velvet Underground di Venus in Furs , sogno dal quale non avremmo mai voluto svegliarci. Non è un caso che le due tracce siano le ultime dell’album, quasi a chiudere questo viaggio attraverso l’affascinante universo dell’onirico, a chiudere il cerchio del mistero e dell’inquietudine, sapientemente mixato da Ballarin e Moretti e masterizzato da Jon Astley .
Un universo in cui ti senti in trappola una volta dentro, da cui vorresti sì uscire, ma una volta fuori, non vedi l’ora di premere rewind e ricominciare a perderti.
Non è forse questo lo scopo dell’album? 

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Foolica Records









venerdì 1 giugno 2012

Veronica Marchi - La Guarigione (Recensione)

La “Bambina” del disco d' esordio è cresciuta e, dopo aver attraversato il mare, accorgendosi che la sua acqua non si può bere, approda, dopo un silenzio lungo 4 anni, al suo terzo album. Un approdo “purificatore”, visto che il titolo è La Guarigione”.
Veronica Marchi, giovane cantautrice veronese con all’attivo anche alcune prove con il gruppo MARYPOSH, ci propone con questa che è la sua 3ª opera, un disco composito, eterogeneo.
Accanto a canzoni più “convenzionali”, trovano spazio brani più sperimentali e forse di presa meno immediata ma che si insinuano e, ascolto dopo ascolto, non ti lasciano più.
Tutti i brani sono legati da un unico filo conduttore: liriche molto ispirate e mai banali (nemmeno nelle precedenti lo erano state, a dir la verità) e musica minimale, mai invadente sempre lì al servizio della voce e delle parole della dolce Veronica.
“La Guarigione” si apre con una tripletta da far invidia ai migliori centravanti; 3 colpi ben assestati che da soli giustificherebbero l’ascolto e, soprattutto, l’acquisto del disco.
Si parte con “Passanti Distratti” con il suo “catastrofismo” che culmina nella speranza del “coraggio”: “Gli aerei che cadono, le rockstar che muoiono/I treni deragliano, i palazzi che crollano/Le auto si incendiano, a Torino piove da lunedì/E piove coraggio”.
Il secondo “goal”, Veronica lo segna con “Così Come Mi Vedi”, che potrebbe essere il naturale singolo,  carico delle “confessioni” di Veronica: “Ho fatto le mie considerazioni/Ho preso le distanze da chi non si sa decidere/E ad essere sinceri non ci ho guadagnato niente/Solamente questa musica misera” si potrebbe dire che sia stata la musica a guadagnare un' eccellente cantautrice.
La “goaleada” si completa con la title-track “E poi le cose accadono nel mezzo di un percorso / lasciando dietro se quel gusto amaro del rimorso / di tutte quelle cose che volevi e non hai fatto / di tutte quelle cose che pensavi e non hai detto…e penso che ti aspetterò / e penso a te, non tornerò / e penso che pensando io non guarirò”.
Brano dolcissimo e bellissimo in cui Veronica tira le somme della sua (giovanissima) esistenza.
Il resto del disco scorre via che è un piacere, così come scorre il “Tempo” (“dimmi se c’è tempo, ancora tempo per un tempo giusto”) oppure l’ “Acqua” che “ipnotizza, è sempre uguale e mai la stessa”.
“Solo Un Incubo” con il suo incalzare retrò ci invita a riflettere; quanti di noi non hanno, almeno una volta nella vita, detto: “io non volevo, io non capivo, io non sapevo, svegliatemi e ditemi che è stato solo un incubo”, mentre con la successiva, Veronica ci avverte cheLa Simbiosi Ha Il Passo Di Un Gatto” (se ci fosse un premio per la canzone  con il titolo più originale - e criptico - se lo aggiudicherebbe senz’altro) ma anche che “la solitudine è una serpe silenziosa”.
Allora a “Piedi Nudi” “in questa terra senza nome” ci avviamo alla conclusione di quest’opera da incorniciare che trova compimento nella leggera spensieratezza pop de “La Passeggiata”, con tanto di (malinconica) ghost track.

In conclusione, continua l’evoluzione di Veronica la quale, oltre che avere una voce tra le migliori del panorama italiano, brava, testarda e coraggiosa cantautrice lo è da sempre e, a differenza di quanto canta nella canzone posta in apertura, non dovrà aspettare “un giorno” per diventare una grande scrittrice perché lo è già e, qualora ce ne fosse bisogno, questo album ce lo dimostra alla grande…


Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Cabezon Records



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