Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Autoproduzione
Dopo 6 anni passati tra ciucci e pannoloni, i coniugi MacKaye (il paladino del DIY Ian e la consorte Amy Farina, già sorella dell'anima dei Karate, Geoff) decidono di abbandonare gli strumenti neonatali per tornare ad imbracciare chitarra e batteria. Risultato: sei minuti e mezzo di tranquilla incisività post-punk, un'ulteriore conferma del popolare "squadra che vince non si cambia". Lo schema, infatti, è rimasto lo stesso degli esordi (The Evens, 2005 e Get Evens, 2006): Amy Farina dietro le pelli, MacKaye alla chitarra baritona, strumento che gli permette di coprire con facilità un'ampiezza tonale tale da non sentire la mancanza nè del basso nè della chitarra, e le immancabili doppie voci, a volte in simbiosi perfetta a volte in un altrettanto perfetta alternanza, modello che ricorda l'impianto vocale dei (compianti?) Fugazi.
Warble Factor, prima metà del disco, si presenta come un andante dominato in toto dalla voce femminile e interrotto, nel mezzo, da uno stacco brusco e quadrato che introduce al ritornello in cui compare un timido MacKaye a fare da tappeto vocale. Lo stesso Ian sarà invece protagonista del secondo pezzo (Timothy Wright) nel quale, avvolto da un'aurea pacifica e dilatata, decanterà la storia di un pianista di Brooklyn, Timothy Wright appunto, scomparso nel 2009 in seguito alle conseguenze di un tragico incidente. L'intenso crescendo finale a due voci mi risveglia parzialmente dalla pennichella e, nella semi-incoscienza del dormiveglia, immagino che in sala da pranzo, attorniati da panettoni DIY e polpettoni vegan, ci siano mamma Amy e papà Ian intenti a discutere pacificamente sull'uscita del nuovo full-length e su chi laverà la montagna di piatti e stoviglie. Con umiltà, lo zio Geoff, raggiunge il lavandino.
Detto questo, quello che ci rimane tra le mai e l’orecchio è un buon disco, cantautorale e da apprezzare per tutta la lunghezza della sua tracklist, è il frutto di una penna giovane che si lega anche alla filosofia della Grande Scuola Romana del Folkstudio e che si appende al sogno di diventare un punto di riferimento per tante altre a grandi salti e buoni intenti; l’artista Pari si giostra bene tra ballate pop e suggestioni vaporose, una leggera psichedelia che si mischia a storie, faccende, quotidianeità e intimità, e con lui una bella schiera di personaggi d’ambiente che vanno a caratterizzare un suono, più suoni che appassionano e impastano pezzi e crescendi molto variegati come fossero nuvole di passaggio e d’alta quota “Piume di drago”, “Sono ancora qui” che ricorda moltissimo Mio Fratello E’ Figlio Unico del mitico Rino Gaetano, “Solitudine: autoritratto”, per passare poi alla scioltezza rock-pop di “Con te”, all’amore bisbigliato “Canzone segreta”, al riflesso dentro accompagnato da un’armonica “Passo dopo passo”.
La sfida di rendere poesia sottoforma di versi e note è vinta da un pezzo, e l’autore romano – già un nome nell’underground italico – rilascia un nuovo atmosferico disco languido e a suo modo cinematografico, come fosse una colonna sonora per una giornata che volge al termine o per incamminarsi verso un amore da prendere o lasciare; sta passando sotto il lettore ottico il brivido blues urbano di “Quando ritorno da te” svisato come un’eiaculazione nel finale, e allora a dirla tutta, la verità, è che poi di quella Battistitudine citata nell’openeir di rece non ce ne frega più nulla, lo prendiamo intero nella sua bellezza a scatola chiusa.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Gas Vintage Records
Siamo fuori dalle rotte indie e da naufragi post-industrial, siamo fortemente coesi alle radici della black music per un immenso salto di qualità stilistico che oltre che inventare il tutto non ha cedimenti di sorta, praticamente il Vangelo e la Bibbia della musica che non si sono mai chiusi in un ciclo; ami alla follia i Black Crowes? Questa band fa al caso tuo, e la straordinaria voce nera “tossicona” di Ty Taylor – unico nero certificato del quartetto – è un caldo invito a lasciarsi andare ai ritmi frenetici e alle pomiciate soul che quest’album distribuisce come un dispenser 24/24; grande blues rock che dalla cassa di risonanza della California, terra della band, arriva sugli scaffali di tutto il mondo terremotando con il sound dei sound, col fremito sex & soul dei tardi anni Cinquanta, i nostri impianti stereo.
Prodotti dal mitico Doc McGhee (James Brown), il quartetto americano si scioglie in mille effusioni, decreta move-it a comando, e stordisce i sensi che si contorcono come anguille al passaggio di R’N’Blues da manuale “Still and always will”, “Jazzbella”, “Total strangers”, e i ricordi volano alti sulle atmosfere di Wilson Pickett, Marvin Gaye, Otis Redding, Jim Croce, ma per restare ai nostri giorni, altre similitudini possono raccordarsi con le coordinate rock di Kravitz “Nancy Lee”, tuffarsi nelle ambrosie folksoul di Ben Harper e Jeff Buckley “Not alright by me”, adombrarsi nei movimenti di bacino di Seal “Nobody told me”, fino ad inoltrarsi nelle sofferenze indie di un Jack White alla ricerca di una propria anima da guarire “Run outta you”.
Chiaramente un disco di radici più che fiori, ma un disco di vacuum esorbitante, esplosivo, che ancora una volta detta le regole della vera musica, quella che fece gioire e piangere molto prima del vagito arrogante del rock, ad ogni modo un prodotto sonico per intenditori e neofiti che vorrebbero avere “la pelle nera” come prima dotazione fisica, se avete colto il punto.
Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Vintage Trouble
Mi risveglio, stordito. La grigia e uggiosa mattinata milanese è il perfetto presagio di una giornata qualunque…
Potrebbe essere descritto così "Too Old To Die Young", esordio discografico dei perugini Cayman The Animal; un susseguirsi di percosse post-hardcore senza fine che, tra stordimento, incredulità e meraviglia, portano l'ascoltatore ad implorare di riceverne ancora e ancora. L'album segna inoltre il debutto della neonata Mother Ship Records, che grazie alla cura per packaging, stampa e grafiche (opera del buon Ratigher) pare proprio partire con il piede giusto.
Che i ragazzi non siano più degli sbarbatelli lo si capisce in un attimo, oltre che dal titolo, dalla convincente struttura dei pezzi e dalla fluida eterogeneità dell'album che si piazza senza fatica in cima alla lista delle migliori scoperte musicali del 2011. K.'S Rondo, traccia d'apertura del disco, è un' ossessiva e frenetica alternanza di stacchi, tempi veloci e decelerazioni mid-tempo, a richiamare quel florido periodo musicale compreso tra la fine degli anni '90 e l'inizio del nuovo secolo. Il tutto viene ampiamente sottolineato nello spassoso videoclip del pezzo, in rete ormai da qualche settimana. Altamente raccomandato. L'album prosegue con gli stacchi "refusediani" di Drinking & Shaving e le bizzarre aperture di banjo (sì, banjo) di It's up to you e The quarter-deck che arrivano ad ammorbidire in maniera mai banale l'aggressiva spigolosità strutturale dei pezzi. Cut you open, unico episodio di costanza ritmica all'interno dell'album, è una scalata a una parete ripidissima; lenta, faticosa, energicamente trascinata, contrae muscoli che nemmeno immaginavamo di avere. I testi, piacevolmente ben scritti, vengono decantati con maestria da una voce nervosa, impaziente, con un piglio costantemente melodico che in più di un'occasione richiama alla mente la duttilità vocale di Daryl Palumbo, sia quello di stampo Glassjaw (Here comes the end Part I, Message in the butthole) sia quello dell'esperienza più pop degli Head Automatica (Underneath the cover). I Cayman The Animal, dopo le strofe quadrate, i ritornelli aperti e la "guitar battle" conclusiva di Keelhauling, accantonano banjo e goliardia, e in poco meno di 2 minuti ci risbattono violentemente all'angolo con The Weirdest answer ever given, urlandoci dritto in faccia che non stanno scherzando. Finito il disco rimane chiara la volontà di porgere l'altra guancia infinite volte in attesa degli stessi undici schiaffi. Premo di nuovo "play" e realizzo di aver appena adottato un nuovo disco. Mi dispiace Roberto.
Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Mother Ship Records