martedì 31 gennaio 2012

May Day – Eppì (Recensione)

May Day – EppìC’è subito da apprezzare in questo “Eppì” della band italiota My Day lo scatto, la poliedricità e la profondità dei fendenti elettrici che si assumono in primis tutta la responsabilità di tener sveglio l’interesse di chi si trovasse davanti agli ampli stereo durante il loro “nervoso passaggio”; in bilico tra indie irsuto e rock intransigente, il trio sì da da fare adattando soluzioni amplificate, convincenti nell’aggressività, nell’impatto e nella botta di vita che le pedaliere, unite ad un’impellente necessità di “sputare fuori” un veleno vitale per il rock dei nostri giorni, procura. Cinque fucilate che attraversano lo stereo con la fumigazione della fretta espressiva, cinque sforbiciate che balzellano le vituperie dei Mistonocivo, certi Malfunk e Ovo incazzati e le ombre nere di lontani Movida che tanti palcoscenici hanno arroventato su e giù per lo stivale, un insieme di forza e poesia malata che spaccano e ricuciono alla bell’e meglio ferite e spasmi desertici, stoner “Si Signore”; sicuramente una formazione sonica sopra la media, mai un blackout od una falla tra le trame della tracklist, un flusso amperico che mette soggezione, fa arrotare i denti a chi nel rock cerca dolcezza acuminata e intransigenza sparata a mille nello stesso momento. Bella la commistione “combact” alla Clash “Supermario”, il grunge mammouth che bastona “Vedo doppio”, l’epilettico viatico mid-punk che fa fibrillare la stesura completa di “Vecchio” e gli anni novanta che sferragliano tutta la loro maestà prepotente vitalità innocente tra le costole di “Intro” e bella anche la complicità stilistica che i May Day introducono – come un’iniezione d’anfetamina industriale – nel mezzo di una direzione precisa, dritta e autentica, quel fantastico sabotare consunte linee guida del solito bailamme elettrico nelle quali la band intelligentemente non si riconosce. Eppì, questo cinque tracce veloce come un fulmine non è la solita meteora che illumina, fa scia e scompare lasciando solo l’innocuo risentimento per un tempo sonoro risicato, ma una cometa energetica che arriva a manetta per creare stupore vero e per saziare la fame di buon rock, che arriva non solo per fare pulizia da ipocrisie, ma per dar fuoco ai “falsi comandamenti” delle tantissime falangi brit-pop inconcludenti che ammorbano intorno. My Day, My Day, si avvistano serie perturbazioni in arrivo.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Autoproduzione

lunedì 30 gennaio 2012

The Maccabees - Given to the wild (Recensione)

The Maccabees - Given to the wild (Recensione)Si sono guadagnati l'epiteto di "salvatori dell'Indie-Rock inglese" con i loro precedenti lavori, "Colour it in" (2007) e "Wall of arms" (2009), creando i presupposti per l'onda perfetta.
Il singolo rilasciato il 15 novembre 2011, "Pelican", è in puro stile Indie-Rock, ma si trattava solo di pastura: quando vai a pesca di tonni per pasturare butti delle sarde in mare, così i grandi pesci abboccano all'inganno, loro hanno optato per un pellicano, animale oltremodo più fine.
Il singolo è un bel brano, perfetta hit radio, in sintonia con ciò che di buono hanno fatto in passato, ma l'immagine è a solo scopo illustrativo, e più scavi nel disco e più "Pelican" appare come una nostalgica epifania alla Dubliners.

"Sarà un disco qualitativamente simile ad una colonna sonora". Orlando Weeks, voce e chitarra del gruppo inglese. Si scopre che alla produzione c'è di mezzo Bruno Ellingham (Massive Attack e LCD Soundsystem), e l'affermazione di Weeks inizia a prendere forma.
L'intro di "Given To The Wild", che porta il nome del disco, spinge l'ascoltatore verso la dimensione onirica, sulle soglie del sogno lucido, poi parte "Child", vicina ai Foals, che ben racchiude, a differenza del singolo "Pelican" tanto citato, l'essenza del disco, ossia: un suono denso e soffuso che abbraccia quasi ogni traccia, che funge da trampolino di lancio per picchi di intensità notevoli ( "Ayla", "Grew Up At Midnight" e "Went Away" ).
Si prestano bene anche i fiati, facendo la loro comparsa in alcuni crescendi qua e là. In questa evoluzione stilistica si tira fuori dall'armadio il mood sintetico in cui trova spazio anche un filo di elettronica ("Go"). Nel suo insieme, "Given to the wild" rappresenta un ricercato lavoro, mirato ad un'evoluzione dal sound che li aveva caratterizzati fin dall'esordio, sul quale avrebbero potuto speculare per ancora qualche anno buono, e il risultato sono atmosfere e suoni capaci fin da subito di farsi intime e personali ("Slowly One" e "Forever I've Known").


Premetto che la locuzione "nel suo insieme" tende solitamente a sminuire la portanza dell'oggetto in questione, e in questo caso non fa eccezione. Qualche chiacchierata con Chris Martin deve esserci scappata (vedi "Heave"), e come controprova anche l'etichetta genere di iTunes è passata da Indie-Rock per i brani dei precedenti due dischi, ad un più cautelativo Indie-Pop, definizione che si presta discretamente bene per descrivere in che genere collocare, o accostare, quest'ultima fatica del quintetto di londra.
In conclusione, abboccato alla pastura pellicano ed affascinato dall'intro, i presupposti per uscirne entusiasti da questa maratona di 50 minuti c'erano tutti, però queste tredici tracce - facendo un parallelo sportivo - suonano come una discreta squadra con qualche talento ed una buona coesione, ma ci vuole tempo per sviluppare un gran gioco. Il cambio di rotta è iniziato, si dice che ad andar piano si vada più lontano, e le premesse possono anche starci, ma per ora del presupposto onirico paventato nell'intro, resta ben poco.

Una piacevole colonna sonora per guardare dietro un vetro, traffico e passanti, muoversi sotto una pioggia leggera, il più delle volte, in slow-motion.

Voto: ◆◆◆
Label: Fiction

Walking the Cow – Monster are easy to draw (Recensione)

Walking the Cow – Monster are easy to drawLa giovane Label White Birch Records con questo primo lavoro discografico “Monster are easy to draw” dei fiorentini Walking the Cow potrebbe diventare un albergo di lusso, un bel refugium a cinque stelle per tutti gli straniamenti eccentrici, magari anche rei e peccatori, di cose musicali straordinarie che nell’underground che ci circonda sgomitano per un posto al sole; questi fieri cosmogonici musicisti inseguono bizzarre, allucinate direttrici e visioni pop rock che continuamente fanno capriole di tutto rispetto in abluzioni folk, pulviscoli alt-South e lisergie cantautorati, un inseguimento ora tattile ora inafferrabile che percorre tutta la tracklist come una febbre birichina, innocente che arriva a fare tenerezza.
I WTC disegnano un bel disco spaiato, fuori schema e bolla, costantemente sulla scia “lunaire” paradossale che tanto ci cattura e ci fa girare la testa perché all’ascolto il salto di qualità – rispetto a tantissime altre proposte - è netto al punto di disorientare anche i grandi caproni della critica barbina, di quelli che godono maciullare carne fresca sulle astanterie asettiche del falso bon ton di note; la voce di Michelle Davis che guida alternando un “vissuto timbrico” paragonabile alle starlett dell’R&B a sofficismi dream-pop l’ottimo caracollare dell’album non fa altro che alzare le quotazioni di tutto dentro un perfetto zig zagare tra liquidità tween “River P.”, nella circonferenza languida e beat “Movin’ things”, dietro l’angolo della provincia Americana della Osbourne fluttuante “Jesus (buy some porn)” o nelle chicche folk-ancient che circondano “Barry”.
Tracce che hanno la bellezza di parlare direttamente all’immaginazione, senza usare sfacciataggine o grossolanità, dirette moltiplicatrici di sogni e listening come l’odore di mais e watermelon succosissimi che si captano tra il banjo nella dolcissima atmosfera field “Nightknoking” e più in la nello spampazzante indie-rock che in “Grandchildren are weired” esplode come quelle scatole col jolly a molle che viene fuori e batte quattro tra malinconie e sangue caldo
Senza ombra di dubbio, un “felice acquisto” questi toscanacci sonici, che in quattro e quattr’otto tirano fuori un disco in cui voi all’ascolto potreste trovare – e le troverete – meraviglie sottosopra che al terzo o quarto giro di giostra vi farà divorare con piacere anche la plastica di cui è fatto.

Voto: ◆◆◆
Label: White Birch Records

sabato 28 gennaio 2012

Cloud Nothings - Attack On Memory (Recensione)

Cloud Nothings - Attack On MemorySiamo nel 2012 eppure sembra il 1994. Almeno a giudicare dall’ascolto del secondo disco dei "nerd" per eccellenza Cloud Nothings. Melodie semplici, attacchi isterici e vagonate di malessere esistenziale sparate a velocità sostenuta, quanto basta per creare un disco che ha (e avrebbe avuto) tutte le carte in regola per essere annoverato tra gli esempi più lineari del rock indi(e)pendente di matrice americana ai tempi d’oro. In cabina di regia c’è un uomo occhialuto dal ciuffo strano che risponde al nome di Steve Albini. In giro dicono che come riesce lui a far suonare potenti e secchi gli strumenti, nessuno mai. Ha un tocco tutto suo, e lo infonde in ogni disco che produce. No, non stiamo parlando di In Utero, ma le affinità temporali e stilistiche sono presenti e pesanti, ed una manciata di canzoni che oscillano fra nenie tormentate (l’iniziale “No Future/No Past” corredata di angosciante video in calce) e rantoli ossessivi (“No Sentiment”) ne sono tributi dai confini labili del plagio. Non solo Nirvana, ma i Cloud Nothings fanno parte di quella schiera di band lo-fi (No Age, l’ultimo Wavves, e chi più ne ha più ne metta) che pescano a mani basse dai tempi in cui l’indie-rock era fiorente e soprattutto ancora detentore del proprio significato semantico. Senza girarci tanto intorno, “Attack On Memory” è un disco nostalgico, fatto da nostalgici per nostalgici, con cui Simon Reynolds potrebbe crogiolarsi alla grande. Si perché tutto, a partire dalla copertina fino al produttore, si rifà ad una tradizione tanto vecchia (sembra ieri, ma gli anni ‘80/’90 erano più di vent’anni fa) quanto fedele all’originale, quasi si trattasse di un recupero filologico. Se tra recto e verso di “Attack On Memory” cercate qualche nuovo afflato, vi state sbagliando di grosso. Nulla è più fedele e (ri)calcato dell’angst secca e potente a metà strada tra Husker Du e Pixies, di batterie prepotenti e veloci che rincorrono chitarre secche ed una voce a metà strada tra la noia e la depressione (o forse è meglio definirla apatia). Al di là di rimandi e giochini pedanti da storiografi rock da strapazzo, “Attack On Memory” rimane comunque un disco onesto, che riesce a tira fuori vortici (auto)distruttivi (la lunga cavalcata sonica “Attack On Memory”) o scorribande nostalgiche (ops, l’ho fatto di nuovo) dall’innegabile piglio trascinante (la finale “Cut You” coperta da una sottile rugiada wave). Come cantava il buon Pezzali, “Attack On Memory” è il “ricordo che mi bussa”, e se volete aprire non abbiate timore di gettarvi nella “Retromania” deliziosa di questo disco. Tanto la vita rimarrà comunque la noia di sempre.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Carpark

Kutin – Ivory (Recensione)

Kutin – IvoryDa non credere, per smorzare di non poco l’arroventato ascolto quotidiano di tanto rock et simila, speravamo in qualcosa di sonoro che potesse favorire, che so, magari con un atmosferico ipnotico, quel momentaneo fabbisogno atroce di pace sensoriale e vibrazioni anestetizzanti; non è dato sapere quale sia il Santo intercessore, ma detto fatto, tutto si è avverato con l’arrivo di “Ivory” del musicista viennese Kutin , che attraverso il fluido placentare, l’amniotico sogno opaco che gravita dentro il suo album, ha costruito straordinari abissi sonori dove far immergere l’ascoltatore.
L’artista austriaco, sperimentatore di bollori, gorgoglii, flussi meccanici di profondità sonore e stati d’incoscienza programmata. pare voler instaurare un dialogo a distanza con le memorie del tempo attraverso dieci tracce che trasmettono rumors ed effetti galattici, submarini e astrali, propedeutici, immaginari e virtuali canti di balene in amore che cedono, nel raggio d’azione della tracklist, spore ed elementi vitali d’estatico stordimento; una continua tensione emotiva di field recordings e leggiadri drone cadenzati fanno da trainspotting tra realtà e subliminazione uditiva che certe paratie della psichedelia drogata ancora ne devono veder passare. Un registrato che si muove con aure notturne e del colore blu del ghiaccio, silenzi e viatici che inseguono con passo felino le asimmetrie di Dan Froberg, i sintetizzatori analogici degli Isan, i pianoforti accennati di Nono e l’ambient stellare che costituisce companatico per le ricette ambient di Oneohtrix Point Never compresi tutti gli altri cataloghi fumosi della Nija Tune; Kutin respira oltremodo quell’aria del Nord frosting che band come Sigur Ros, Labradford immettono nel circuito lamellare della ionosfera da tempo, ma qui appunto è la differenza tra il loro mainstream e questa propulsione schietta, e cioè a far sì che la visione “d’orecchio” prenda la gestione totale delle idee allo stato puro e non per mero calcolo “discografico”.
Detto questo il viaggio diventa tattile, liquido nelle sue lunghezze d’onda “White desert”, romanticato di sfioramenti chitarristici “After the plague”, pregno di echi ancestrali e vagamente asiatici “Storb”, riverberi, crepitii lunari, forze centripete che, nei dodici minuti e trentaquattro secondi della suite “Lonesome monster”, tagliano direttamente il collegamento con la gravità terrestre fino a che, all’improvviso, un temporale divino ti strappa dal sogno e ti riporta a terra, stropicciato.
Con la mente non ancora perfettamente in bolla dopo questo allucinato benessere uditivo, quello che ti viene in mente è Verne, Lynch, un morso ad un Peyote trafugato da un LdL e una botta di LSD legale che Kutin - questo nuovo “corriere cosmico” – spaccia alla luce della notte, tra un “ pensiero stupendo” e un sonoro vaffa minimalista ai damerini del “no-Age”
Ascoltatelo bene, ma non prima di aver detto bye-bye alla normalità.

Voto: ◆◆◆
Label: Valeot Records

venerdì 27 gennaio 2012

Dntel - Dustmite (Recensione)

Dntel - DustmiteNon avevo mai sentito parlare prima della figura di James Scott Tamborrello, mi ero perso un nome importante. Il primo approccio con questo personaggio appartenente alla categoria degli "architetti del suono post y2k" è stato direttamente quello musicale, e soltanto dopo ho provato a ricercare informazioni scoprendo che si tratta di un musicista, o per meglio dire alchimista, abbastanza noto nel circuito della musica "elettronica intelligente". Veniamo alla musica: quello propostoci da Dntel è un viaggio nella ricerca sonora degli ultimi dieci anni e più, ciascun pezzo affronta una problematica differente, tuttavia tutte condividono lo stesso filo logico. Il problema principale sviluppato da Tamborrello consiste nel chiedersi quali siano state le diramazioni più importanti della musica elettronica e, potenzialmente, quale sia il suo futuro, anche se il suo lavoro, pur nella sua intermittente genialità (e quando non è geniale è buon contenuto) non crea nulla di nuovo nè cerca l'invenzione, non è il suo scopo. Musicalmente parlando ogni brano è un capitolo. Nell'opener Colossal youth l'alchimista traccia una struttura fortemente crossover in cui i riff di chitarre, l'atmosfera chimica e sognante allo stesso tempo e sprazzi di chiptune riassumono quel percorso cominciato con la nascita della Warp, storica etichetta IDM, come filo conduttore e trasformatore di quel sound inglese degli anni '90 noto come Big Beat. La gioventù descritta da Tamborrello tuttavia denota il problema principale. La musica elettronica e in particolar modo l'IDM sono il simbolo di una rottura con il tempo e con lo spazio, una musica per il cyberspazio, per la postmodernità e oltre, perchè qui si perde il senso classico di logica ritmico-sonora. Tuttavia egli non ci offre spinti per uscire da questa crisi. Dustmites, title-track, nasce da una idea molto semplice ma viene sviluppata in modo molto "intelligente". C'è una ritmica che ricorda Dirk Ivens sotto la veste di Dive, il tutto reso in senso più freddo e chimico, e la posizione di un input, nel suo cambiamento, modella, trasforma e ritrasforma continuamente il senso del brano. Questo è un tappeto chimico per la generazione del post-summer of love, è una bozza di rhytmic noise, seppure in chiave minore e più leggera. Un ritmo ricco di marzialità accompagna anche la successiva The longest last, che sembra sempre ricollegarsi alla traccia precedente, sebbene qui l'uso della drum machine faccia finalmente capolino. Stavolta Dntel ci vuole offrire una lezione sulle mosse e le contromosse di una drum 'n bass isterica, veloce e incalzante, sempre più legata ai lidi post-Big Beat. Heart in bed smorza i toni e ci consegna un musicista più riflessivo e atmosferico, una parentesi di riposo. E' il passaggio della tempesta. Everyday prosegue verso questa direzione a partire dalla presentazione di un moto oscillante che guida l'ascoltatore verso un'atmosfera fredda e asettica in puro stile IDM ma molto lontano dal genere in sè stesso. Un breve dialogo irrompe, allo stesso modo di come avveniva nell'opener, ma non ha particolari messaggi, è una riflessione sospesa tra mondo chimico e mondo onirico, tra identità e alterità, realtà e virtualità. E' un'elettronica particolare, quella di Dntel. Ci fa ricordare il passato di chi ha vissuto la generazione della Voodoo people e allo stesso tempo ci proietta verso un futuro incerto. Cosa ci salverà? Come dicevano i Brooklyn Bounce, in fondo abbiamo soltanto bisogno di tre cose. The bass, the beats, and the melody.

Voto: ◆◆◆
Label: Not on label

giovedì 26 gennaio 2012

Allan Glass - Guzznag Ep (Recensione)

Allan Glass - Guzznag EpGuzznag è la seconda prova del duo piemontese Allan Glass. Figli dell'etica DIY, Marco Matti (voce, chitarra, synth) e Jacopo Viale (drum, drum machine, synth) sembrano dar sfogo in queste cinque tracce ad ogni recondito istinto tenuto a freno fin troppo. Un percorso lucido e allucinato allo stesso tempo, una nebulosa di stratificazioni sonore, l'incontro tra passato e presente, analogico e digitale, il calore delle valvole dell'ampli, suoni che si fondono come colori su una tela nel crearne altri. Distorsioni, psichedelia, prog ed elettronica minimale, gli ingredienti base per un Ep che, ascoltato in modo superficiale, potrebbe trarre in inganno, apparendo forse inconcludente se non mero acerbo esercizio di stile. Invece i due hanno le idee molto chiare sulla propria proposta musicale nella continua disgregazione della forma canzone in un flusso di coscienza onirico e multiforme. Ci sono le sensazioni e le scintille chitarristiche proto shoegaze a là Dinosaur Jr, i quali sarebbero da citare anche per il modo in cui vengono sezionati i brani, quella sorta di "coitus interruptus" scuola "You're Living All Over Me". C'è la ricerca testuale un pò approssimativa, un po' surreale, in bilico tra la mancanza contenutistica e la suggestione su libera interpretazione, a cui ci hanno abituato i Verdena, ai quali, si è debitori anche per determinati passaggi del lunghissimo post-rock di "5 Giorni Bugiardi" (piena ottica Requiem). La voce è una controparte adagiata sullo sfondo, mixata bassissima, sottomessa agli strumenti, ai quali si avvinghia nelle vorticanti evoluzioni atmosferiche. A far da padrone gli affondi lisergici, in bilico tra prog più o meno marcato ("Satellite Tra Le Dune", "A cena con Woland") o spinti all'interno di anticamere weird folk ("Marty's Swallow"). Non mancano episodi più diretti e trascinanti (la Cosmetichiana "Il Sergente") in un lavoro che, nonostante i richiami appena resi noti, appare interessante e dotato senz'ombra di dubbio di una sua certa personalità.

In definitiva si potrebbe dire che i margini di miglioramento sono molti e questo folletto malvagio, il Guzznag, è dimostrazione di idee, seppur ottime, non legate da un filo conduttore uniforme. Sarebbe molto interessante vedere una maturazione che porti gli Allan Glass a sviluppare le proprie attitudini sperimentali in episodi più coesi e meno persi in un libertinaggio sonoro che sembra, almeno per il momento, limitarne le potenzialità.

Leggi qui l'intervista agli Allan Glass

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: The Toilet Smokers Club Records



The Evens - 2 Songs (Recensione)

The Evens - 2 SongsLe esperienze culinarie, a volte estreme, del periodo festivo mi hanno sempre regalato quella piacevole sensazione di spaesamento, torpore e sonnolenza placabile solamente con una sana pennichella post-pranzo. Qualche giorno fa, per agevolare ulteriormente la caduta tra le braccia di Morfeo, ho deciso che la mia colonna sonora sarebbe stata "2 Songs", nuovo EP degli Evens uscito per Dischord a fine novembre.

Dopo 6 anni passati tra ciucci e pannoloni, i coniugi MacKaye (il paladino del DIY Ian e la consorte Amy Farina, già sorella dell'anima dei Karate, Geoff) decidono di abbandonare gli strumenti neonatali per tornare ad imbracciare chitarra e batteria. Risultato: sei minuti e mezzo di tranquilla incisività post-punk, un'ulteriore conferma del popolare "squadra che vince non si cambia". Lo schema, infatti, è rimasto lo stesso degli esordi (The Evens, 2005 e Get Evens, 2006): Amy Farina dietro le pelli, MacKaye alla chitarra baritona, strumento che gli permette di coprire con facilità un'ampiezza tonale tale da non sentire la mancanza nè del basso nè della chitarra, e le immancabili doppie voci, a volte in simbiosi perfetta a volte in un altrettanto perfetta alternanza, modello che ricorda l'impianto vocale dei (compianti?) Fugazi.

Warble Factor, prima metà del disco, si presenta come un andante dominato in toto dalla voce femminile e interrotto, nel mezzo, da uno stacco brusco e quadrato che introduce al ritornello in cui compare un timido MacKaye a fare da tappeto vocale. Lo stesso Ian sarà invece protagonista del secondo pezzo (Timothy Wright) nel quale, avvolto da un'aurea pacifica e dilatata, decanterà la storia di un pianista di Brooklyn, Timothy Wright appunto, scomparso nel 2009 in seguito alle conseguenze di un tragico incidente. L'intenso crescendo finale a due voci mi risveglia parzialmente dalla pennichella e, nella semi-incoscienza del dormiveglia, immagino che in sala da pranzo, attorniati da panettoni DIY e polpettoni vegan, ci siano mamma Amy e papà Ian intenti a discutere pacificamente sull'uscita del nuovo full-length e su chi laverà la montagna di piatti e stoviglie. Con umiltà, lo zio Geoff, raggiunge il lavandino.

Voto: ◆◆◆◆
Label:
Dischord Records


mercoledì 25 gennaio 2012

Fine Before You Came - Ormai (Recensione)

Fine Before You Came - Ormai Se qualcuno vi chiedesse con fare accusatorio dove eravate e cosa stavate facendo la sera di domenica 22 gennaio 2012 voi cosa rispondereste? Non serve spremersi le meningi più di tanto perchè probabilmente eravamo tutti incollati davanti ad uno schermo a prendere atto del ritorno improvviso dei Fine Before You Came mentre si osservavano foto di navi affondate, video di falsi profeti e risultati di un'anonima domenica sportiva. Ormai è qui, in frì daunlò, registrato, missato e pubblicato nel giro di un mese: dicasi urgenza, dicasi vavavuma, dicasi ciò che si vuole.

Ormai lo sanno anche i sassi e i pipistrelli.

I Fine Before You Came si sono lasciati la sfortuna alle spalle, con essa i toni apocalittici, quello sfogo iperattivo, la rabbia contro sè stessi, artefici del proprio destino, dei propri insuccessi. Qui oggi rimangono, come alla fine di una tempesta, solo i sentori, le macerie del giorno dopo, arrendevolezza e non più frustrazione. I FBYC sono unici e riconoscibili dal primo secondo d'ascolto: la tristezza post-rock degli Slint, l'immediatezza dell'hardcore, il sentimento dell'emo e le urla dello screamo. Il sound di Ormai appare molto più pettinato rispetto alle prove precedenti, forse anche merito di Maurizio Borgna (alle manopole) e Francesco Burro Donadello (mastering a Berlino), le urla di Jacopo sono smorzate da quella sorta di temperamento razionale che caratterizza anche la scrittura, più diretta e feroce nel suo contatto emozionale. "In tutti questi anni abbiamo detto così tante cose / ne abbiam fatte così poche / programmato mille viaggi e poi rimasti sempre a casa..." ("Dublino") Ormai parla di esitazioni, di dilemmi, matasse che non si riescono più a sbrogliare, soluzioni a problemi che non sembrano più esistere (come le canzoni tristi quando fuori piove / come i pugni chiusi in tasca sui binari vuoti / se avrò forza a sufficienza mi vedrete invecchiare / e scoprire un pò alla volta che non basta il tempo e non basta il fiato..." Sasso") Ormai è come se le cose fossero andate in un determinato modo, con noi bambini troppo cresciuti che ci guardiamo alle spalle malinconici, tristi per ciò che siamo diventati e invece saremmo voluti essere -"vorrei che il magone fosse un grande mago che ti strappi un sorriso / perchè credimi, con quella faccia mi sembri un randagio"("Magone" e qui si sentono forse un po' i Crash of Rhinos) Non c'è spazio per sorrisi aperti, solo quelli di circostanza che ti solcano il viso triste, non si porta rancore solo un grande senso d' impotenza misto a realismo una volta giunti di fronte alla realtà dei fatti. Ormai è accettazione e insieme sofferenza, è oscurità ("Per Non Essere Pipistrelli") e luce di un mattino con poche ore di sonno alle spalle, i saluti del mondo circostante, quel giorno normale d'inizio autunno ("tutti quanti i bambini mi hanno sorriso stamani / tutti a parte te..." Capire Settembre)
I rapporti Ormai andati, continuare a sentirsi, cozzando l'uno contro l'altra, strattonarsi il cuore a vicenda, scaldarsi con parole e gesti "ma raccontare e perdonarsi a volte è imperdonabile ("Paese") e ci si lascia andare, giungendo al meglio per sè e chi si ama -io non me ne andrei / se non fosse che è arrivato il tempo in cui il tempo non c'è più / ormai il tempo non c'è più. ("La Domenica c'è Il Mercato").

Ormai è il seguito di Sfortuna nonchè la naturale evoluzione del messaggio lanciato dai FBYC con quello che è considerato uno degli album più empatici ed intensi degli ultimi anni. Ormai è un album che trascende il significato di bello o brutto, è come un codice aperto e decifrabile solo a coloro dotati di una certa sensibilità.
I Fine Before You Came sono e sempre saranno Jacopo, Marco, Filippo, Mauro, Marco, loro cinque e nessun altro, quasi impossibile parlare di progetto o di band, ma di amici, persone unite da un sentimento e un legame duraturo. Sfido oggi a trovare qualcosa di simile nel nostro paese.

V
oto: ◆◆◆◆◆
Label: Triste/La Tempesta Dischi

Zocaffè - Il piglio giusto (Recensione)

Zocaffè - Il piglio giustoProbabilmente qualche anno addietro avremmo usato la definizione “indie-tronics” per identificare a millimetro le belle e sgargianti “scatterie” contenute in “Il piglio giusto” opera prima della band toscana Zocaffe, ed ora, nonostante quelle ottime pagine sonore facciano parte del passato, rimangono progetti e buone cose proprio come queste dei nostri toscani, un disco e nove territori declinati ed oscillanti tra juke-box, anni cinquanta col ciuffo, shouter senza tempo e tante hit-wonder con le molle, pronte ad impossessarsi d’antenne FM e playlist fatte in casa. Un debutto che non si sente ostaggio delle infinite forme nostalgiche sul precipizio del kitsch, ma una vera evasione sonica sfavillante che contrassegna una capacità induttiva entusiastica e “altra” in uno spazio di riverbero ineffabile, fichissimo; frastuoni di suoni, rumori concreti ed un mash-up di psichedelia funk alla Family Stone “E’ solo sesso”, o il walzerino di rimbalzo anni sessanta “Se…” in trasformazione continua, che sembra di stare in uno di quei fool-corner inglesi dove ognuno tira fuori la sua arte e la mette in gioco, pescando tra ere, verve, ironie sincronizzate e poesia strampalata, che è poi quella più vera e sincera che ci sia e via con lo spettacolo. Sfarzo rockabilly “Che giornata”, le sfighe di “Jack” in uno stupendo parallelismo con l’Hit The Road Jack di Mayfield e grotes di successo di Ray Charles, il languido liquido su cui scivola la beguine di “Dammi un minuto” , il caos filo-punkyes “Sognando vaticano” o la scia beat che lascia “Senza te”, quattro minuti e quattro secondi di profumi sixsteen che chiudono in bellezza questo “tesoretto” underground e che fanno scoprire oltremodo chi siano questi Zocaffe, insospettabili “bestie da palcoscenico” che riescono a rimettere sopra il silenzio rumoroso di proposte senza senso, il valore sonoro di cose preziose ed – veramente – introvabili, in una continua ricerca di stravaganza dell’essenziale. Ciak si suona col piglio giusto, buona la prima!

Voto: ◆◆◆
Label: Phonarchia Rec

martedì 24 gennaio 2012

Modotti - Migranti (Recensione)

Modotti - MigrantiModotti, omaggio all'attrice e fotografa friulana Tina. Un power trio ferrarese giunto al secondo atto con Migranti, una convincente miscela di post-math rock e hardcore, quasi come a veder sfilare tutte insieme nel lettore band come Unwound, Shellac, Slint e Bastro, coniugate all'italico idioma e sotto forma di una passione travolgente per le sonorità proposte. Chitarre affilate come rasoi e un comparto ritmico nervoso sono la giusta base sulla quale i Modotti costruiscono le fondamenta per tematiche come incomunicabilità, rabbia, paura e amore. Una grande perizia tecnica che si sviluppa in otto episodi di forte impatto, avvincenti e diretti come un pugno allo stomaco. Dalla partenza post-core di "Stazione Termini", nell'attesa di una rivoluzione ("in queste strade sconvolte dal caos/Siamo qui per dirti/Stiamo partendo verso un mondo diverso/Da questa stazione...), ai strumentali risvolti jazzati su geometrie di "Ray", si accoglie timidamente la malinconia di "T(E)ss", (richiesta di salvezza di un amore oltre i propri limiti), e si scuote la testa sulle impennate abrasive di "Glossolalia". A dar man forte arrivano a puntino le dissonanze instrumental di "J. Curcas", i vuoti esistenziali, le teorie scientifiche e gli elementi naturali di "Boyle" e la coralità sul finale della bordata punk "Migranti" ("Migrazioni Contaminazioni/Case lasciate/Persone abbandonate/Chi si muove e chi sta fermo")

Migranti nasce grazie ad Upupa produzioni e Fooltribe ed è stato registrato da Giorgio Borgatti (Three in One Gentleman Suit) all’ Igloo Audio Factory, di Enrico Baraldi (Ornaments) e Andrea Sologni (Gazebo Penguins), credits degni di nota per un album altrettanto interessante.
I Modotti al secondo giro centrano appieno il bersaglio con un disco che, nel riesumare sensazioni del passato, riesce a ripresentarle con una vena sincera e passionale. Una nota di merito va anche al bellissimo packaging a cui a quanto pare sono soliti abituarci (il precedente "Le Sens du Combat" era fatto di una particolare busta gialla). Musica assassina in perfetto equilibrio tra mente e cuore.

Voto: ◆◆◆
Label: Upupa produzioni/Fooltribe



lunedì 23 gennaio 2012

Diaframma – Niente di serio (Recensione)

Diaframma Niente di serioChiudete gli occhi e siete di nuovo nel sogno malato degli anni Ottanta, nel flusso mescolato di quelle vibrazioni che sarebbero poi diventate messaggistiche cifrate per menti meravigliosamente alterate. I Diaframma e Federico Fumani non sembrano né pazzi, né assassini, ma nella loro musica rimane sempre quel cuore scuro che si è sempre dissipato in quel luminoso fluttuante pulviscolo che è e sarà per sempre essenza magica, nuda e cruda, sofferta e azzima della nostra storia musicale.
“Niente di serio” è il disco che riporta la nebbia delle grandi cose che fanno parte del dna della formazione e del “poeta capo”, non ci sono le grandi impalcature sofferte, le cattedrali di suono simbolico o le eccezioni in grigio che nel settore avvamparono come fuochi improbabili, ma tutta quella dolcezza amara, dolce, d’innamoramento trasversale, che risale nella gola come una caramella alla liquirizia, l’afflato delle perdite e le glorie delle riconquiste; fuori della retorica cantautorale, il disco è un’atmosfera unica di poeticità e specchi vuoti che riflettono moltissimo dall’epopea “Diaframma” e che urlano decibel muti di purezze e verginità sporche nei sobborghi lirici di “Madre superiora”, “Grande come l’oceano”.
Un cd per chi ama l’emozione con la E maiuscola, non solo per ritrovare magari il fasto tambureggiante di una nuova soffiata di Wave tricolore, ma per chi dalle trasmissioni elettro-melodiche non vuole solamente ascoltare il busso, ma “leggere” anche il timbro espressivo, la forza intellettiva di un qualcosa che arriva veramente per non ripartire a corto, per sorprendere o addirittura riprendersi i tempi alle spalle “Nilsson”; un album ed una scaletta che è quasi un’istituzione che ti trasporta nella diabolica summa di cose che vorresti non finissero mai, nel minimalismo, elettricità, fragore ed ironia, tutto il bello della bellezza fosca, energica e amplificata come la titletrack, la spiritualità maudit degli Joy Division che bazzica “Anime morte”, la scossa briosa di “La botta di energia del rock” e l’essere indentici nella malinconia di spessore “Absurdo metalvox”.
Con una line-up che vede oltre a Fiumani Lorenzo Moretto alla batteria, Luca Cantavano basso e ospite alle tastiere Gianluca de Rubertis de Il Genio, rimangono sottopelle le ecchimosi punk e le arie paraboliche di un poetame in fondo “beatamente maledetto” che ti entra dentro e fa di te quello che vuole.

Voto: ◆◆◆◆◆
Label: Diaframma Records

domenica 22 gennaio 2012

Franco Battiato - Telesio (Recensione)

Franco Battiato TelesioUn nuovo capolavoro di Franco Battiato è passato quasi inosservato ai più, "Telesio" un concept-album incentrato sulla figura di Bernardino Telesio, filosofo cosentino che visse nel XVI secolo.
Prima che divenisse un album e dvd "Telesio" è stato uno spettacolo teatrale tenutosi a Cosenza presso il Teatro Alfonso Rendano, andato in scena il 6 Maggio 2011, sotto forma di prima opera olografica tridimensionale mondiale.
Dopo aver ricevuto un'offerta da parte del comune di Cosenza e del Teatro Rendano il poliedrico artista sicialiano si è occupato della regia e delle musiche e il suo collaboratore Manlio Sgalambro ha curato il libretto che accompagna l'opera, eseguita dal vivo dalla The Royal Philharmonic Orchestra e The London Baroque Choir, affinacati dalle voci di Giulio Borgi (Telesio), Divna Ljubojevic (Voce femminile), Paolo Lopez (Sopranista), Juri Camisasca (Voce maschile), Franco Battiato (Voce maschile), Carlo Guaitoli (Pianoforte), Angelo Privitera (Tastiere) diretti da Carlo Boccadoro, con le coreografie di Sen Hea Ha.

Da sengalare nel booklet del disco la presenza del dipinto di Franco Battiato, olio su tela raffigurante Telesio. Il primo de "L'Opera in due atti e un epilogo" si apre con il prologo pianoforte e archi, con voce maschile di Franco Battiato che canta: "Temperamento, colerico, sanguigno. Umore, allegro. Lo spirito anima la Terra e le piante. La pietra grezza. Tutto sente e palpita... tutto sente e palpita". Immediato, colto e allo stesso tempo semplice dunque efficace, questa è la forza duttile del maestro che riesce con disinvoltura a coniugare in arte i pensieri filosofici, fondendoli al minimalismo, musiche orientali, canti lirici intrecciati ad atmosfere elettroniche che fanno da sfondo alle note di pianoforte, il tutto senza apportare innovazioni.
Questa sesta opera classica di Franco Battiato è accostabile per certi versi a "Biophilia" di Björrk, per i suoi richiami alla natura, alla materia, al cosmo in un lungo iter coinvolgente.
Nell'intro Telesio recita: "Se si ritornasse veramente a se stessi, nel senso auspicato da Agostino, nel senso del reditus in se ipsum, sparendo il mondo esterno, sparendo la natura, spariremmo noi stessi. Dobbiamo riversarci interamente fuori di noi, per essere".
Seguito dall'Ouverture, del Coro e Sopranista: "...Sono un essere dormiente, incerto e oscillante tra realtà e sogno", si prosegue con "Il sogno", una composizione orientaleggiante, onirica e rilasante, mentre "Elettronica arcobaleni" concede momenti di quiete che predispone l'ascoltatore verso il "Duplice intelletto" recitato da Telesio: "Dato che l'uomo, contrariamente agli altri animali, non intende e desidera soltanto le cose sensibili e mortali, che si riferiscono ala sua conservazione presente, ma anche le cose divine e immortali, che si riferiscono alla sua salute eterna, sembra che gli si debba attribuire un desiderio e un duplice intelletto".
Nel settimo brano "Le Stimmate", in cui torna a recitare Franco Battiato: "Le stimmate dell'assunzione, si imprimono sulle cose. Cadevano dunque i veli al suo pensar, le spine e le corolle cadevano", seguito da note di pianoforte che fanno d'accompagnamento a Telesio, per poi lasciarsi cullare dall'alternanza tra Voce Femminile, Coro e Sopranista.
I primi secondi di "Fine del sistema solare" sono spaziali, musica ambient elettronica che apre all'orchesta che accompagna la Voce Femminile che canta: "Vivo sul finire del sistema solare. A quel che pare. Svestirsi vestirsi alzarsi coricarsi e continuare a vivere. Come niente, come niente. Se non si sveglia quello che chiamiamo Spirito, che dorme, dorme, ben poco ci resta".
"Corale" ricorda musicalmente "Inneres Auge", non è un caso se Telesio recita: "Dove si avverte di nuovo la sostanzialità del pensare, il pensare è tutto: vivere filosoficamente. In ciò non si scorge nè audacia, nè il cosidetto coraggio delle proprie opinioni", il decimo brano "Danza 1" chiude il primo atto, con ripresa del motivo finale di "Fine del sistema solare" con Sopranista e coro.
Il secondo atto: "Una piccola folla sotto la casa di Telesio urla... Eretico, figlio del diavolo, al rogo..." con prologo strumentale, susseguito da "Abiuras" con coro e orchestrazioni che s'impongono sul sottofondo della folla che grida, dove le musiche vivono la stessa tensione creatasi attorno all'inquisizione di Telesio. "Il freddo e il caldo" ristabilisce momenti di tranquillità, dove cantano il Sopranista e la Voce Femminile, in una melodia dolce, mentre "Benedictus" funge da intermezzo musicale dove sul finale spicca un canto gregoriano, dove telesio recita i suoi ricordi su Giovanni Pierluigi di Palestrina. Il quindicesimo brano "Un amore romano", vede Telsio ricordare un suo amore giovanile, il passo più romantico in cui compare maggiormente il tocco e lo stile inarrivabile di Franco Battiato. Nell' "Esistenza di Dio" emergono il Coro e la lirica della Voce Femminile, mentre in "Scampanio" torna la tensione, per poi placarsi in armonie gradevoli, in cui il Sopranista canta: "Ospite sono del regno cerebrale, Ingordo di stelle luccicanti, di venti, fulmini e mari, di colori e sapori. Mi espongo al crollo, alle rovine. Pensare mi riesce ancora, mi riserva sorprese". In "Attende Domine" la Voce Maschile canta in latino, mentre Telesio passeggia nel chiostro, seguita dalla strumentale "Danza 2" che riprende il motivo del primo atto, dove giunge una "Devota precisazione" di Telesio: "Le passioni, a causa delle quali l'uomo si addormenta, non sono proprio dell'anima immessa da Dio, ma dello spirito tratto dal seme. Il cielo e la terra sono destinati a trasformarsi o a perire".
L'epilogo avviene con un "Coro finale" dove "Bernardino Telesio a tumulazione avvenuta fu calato nella tomba storica filosofica. Stasera lo spirito della musica lo ha accolto".

Quando si ha a che fare con opere di questa portata è necessario eccedere in prolisse elucubrazioni, al fine di esaltare alcuni tratti culturali che difficilmente possono essere comprese se non riportate fedelmente. In "Telesio" il libretto ha un'importanza primaria, dato che essa è un opera teatrale, cosa che non spiega l'intollerabile silenzio che c'è stato da parte dei molti attorno a questa grandiosa composizione classicheggiante, che non è assolutamente da considerarsi di difficile compresione, anzi Franco Battiato e i suoi collaboratori sono riusciti - come si fa con i bambini - a raccontarci egregiamente di uno dei tanti geni ci ha preceduto nella storia della civiltà italiana.

Voto: ◆◆◆◆
Label: Sony Music


sabato 21 gennaio 2012

Colapesce - Un meraviglioso declino (Recensione)

Colapesce - Un meraviglioso declinoVi era un tempo in cui ogni disco veniva composto e realizzato come opera a sé stante, pulsante di vita propria e – soprattutto – tronfio di contenuti.
In un periodo storico come questo, dove non importa se un disco contiene cinque, otto o al massimo dieci canzoni (l’importante è che esca fuori, prima di tutti gli altri), questo esordio ufficiale di una figura tutt’altro che esordiente nel nostro panorama (Lorenzo Urciullo, per chi non ne fosse al corrente, è leader degli Albanopower) getta luce e rinverdisce quella maniera ormai antica di confezionare e realizzare piccole opere d’arte dense di contenuti, di una cura sonora maniacale, e per questi motivi immuni allo scorrere del tempo.
Colapesce lo si può definire, senza sensazionalismi da patinato magazine musicale, un vero e proprio restauratore di un’attitudine cantautorale ormai persa, e ritrovata magicamente tra i solchi profondi di “Un meraviglioso declino”, specialmente in luce di un panorama cantautorale italiano ricolmo di esponenti, ma quanto mai frivolo nei contenuti e dato in pasto a logiche usa&getta in cui tutto va consumato in maniera veloce, asettica e in maniera seriale.
“Un meraviglioso declino” si discosta, appunto, dalla serialità dei cantautori di pezza che popolano lo stivale, per elevarsi ad uno status di assoluta personalità dai tratti indubbiamente caratteristici.
Quella di Lorenzo Urciullo è una vera e propria cesellatura dei testi, in cui ogni singola parola viene soppesata e legata al mood melodico infondendo ai testi un doppio valore, sia di significato che di amalgama alle melodie raffinate, e perennemente sospese fra intagli di chitarra acustica, ed arrangiamenti orchestrali mai pretenziosi e sempre ben in bilico costante tra archi e pianoforti (calibrati da un Roy Paci in veste inedita di arrangiatore).
E delle canzoni non serve scriverne, bisogna ascoltare questo disco per intero, dall’inizio alla fine, come se fosse un pesante vinile impolverato, in cui s’inanellano canzoni degne d’esser chiamate tali, che guardano alla tradizione italiana con la coda dell’occhio e protese verso il miglior rock d’autore d’oltreconfine.
Tredici canzoni e non un passo falso o calo d’ispirazione, “Un meraviglioso declino” è un disco di una semplicità disarmante eppur fondamentale, come il pane, ed un punto di partenza su cui instaurare una vera, nuova ed originale strada per il cantautorato italiano.

Voto: ◆◆◆◆
Label: 42 Records

The Mainstream – Have no fear (Recensione)

The Mainstream – Have no fearUn disco che guarda negli occhi del mondo e della società senza arrossire, che ti scava nella testa con la leggerezza di un soffiata di vento, che ti urla di non avere paura, testa alta e cuore aperto lungo i tortuosi sentieri della quotidianità; “Have no fear” è il terzo disco del collettivo internazionale The Mainstream, logos, incontro e consolidamento di un gruppo di musicisti provenienti da cinque paesi differenti , band che suona indie rapportandosi con tutti i respiri – o in parte – della musica degli insegnamenti, pop, rock, R&B, Soul, rap, gospel e via dicendo, tutto in uno stupendo mix in cui intervengono nella tracklist guest di grido a rafforzare quest’immensa sentimentalità altruista racchiusa in quindici tracce dal repeat incontrollabile.
Un gruppo continuamente in piena evoluzione creativa, e lo prova senza mezzi termini questo nuovo percorso, molto più concentrato, molto più rivolto alle centralità umane che agli arrivismi tecnici, uno spaziare – a ping pong – tra America ed Inghilterra, suoni in bianco e nero tali da abbracciare un mondo senza angoli e steccati, veramente rotondo come il sole o la luna; bello e di massimo rispetto, in grado di muoversi agilmente tra cuore e stomaco e rimbalzare poi nella testa come una dolce cannonata che ti fa risvegliare certi istinti positivi repressi dalla negatività del vivere contemporaneo.
Dicevamo quindici tracce ad espansione, che man mano gonfiano le prospettive d’ascolto regalando brividi e quadrature sonore immaginifiche, ascoltatevi tutto il lavoro magari partendo dalla “slittata” Southern della titletrack che ospita la cantautrice tedesca Synje Norland, passando poi per la linea d’ombra di un pianoforte ed archi sopra un rapporto d’amore finito “Close my eyes” tratteggiata dal folksinger – anch’esso tedesco - Huw Hamilton, provate a trovarvi a versare una stilla di lacrima sulla ballata che parla di sesso catodico “Taylor train” in compagnia del rapper Hollydish o pensare fitto in una notte insonne dentro “The melody” raccontata dal rapper californiano Shane; ma per andare a fondo nell’emozione totale, una full immersion nei fluidi caldi dell’album occorre toccare con mano e d orecchio “Africa”, col suo tribalismo innocente dalla parte dei bambini che la guerra la vivono ogni minuto dell’oggi, la ballata field “Lucky number 13” ricamata dal musicista cileno Felipe Sepulveda e la Deutschen Filmorchester Babelsberg e in tante altre “strette di cuore” che fanno ricchissimo questo pezzo di cielo registrato su plastica.
The Mainstrem, Joscha Blachnitzky voce, chitarra, pianoforte, Federico Malandrino chitarre, tastiere, Anton Stoger batteria, percussioni, drumloops, Pablo Ryan violino, Laurent Vianes basso: per tutto il resto basta cliccare e lasciarsi andare, non occorrono ulteriori parole recensorie, ci arrendiamo perché tutto quello che segue è solamente magia d’amore.

Voto: ◆◆◆
Lebel: The Stream Records

venerdì 20 gennaio 2012

Kyle - This is water (Recensione)

Kyle - This is waterCome un animale che accumuli provviste per l'inverno. Un lungo e articolato processo di ricerca delle risorse necessarie e poi, semplicemente, il dolce calore della tana e qualcosa da mangiare in compagnia. Un percorso simile deve aver compiuto Kyle, ovvero Michele Alessi che, celando dietro l'ennesimo moniker la sua creatività, ci regala “This is water”. In apparenza, un lavoro non complesso nella sua immediatezza folk/cantautorale. Ma l'impressione è che gli ulteriori progetti del poliedrico artista calabrese (Capitan Quentin, Maisie, Distape) confluiscano in quest'album, con la caratteristica comune di una sperimentazione che viene però smussata da tutti i suoi angoli e dalle cime più impervie per restituirci canzoni oltremodo compatte e fruibili, ridotte all'essenza ma mai scontate. “Last days”, prima traccia e sorgente di questo ruscello sonoro, è il motivetto allegro da canticchiare appena svegli, arricchita, come tutti gli altri pezzi, dall'apporto di un ingente quantitativo di strumenti. Maracas, marimba, viole, violini, trombone, ukulele sono solo alcuni esempi. L'ascolto è scorrevole, con la giusta combinazione di riferimenti classici (Tim Buckley su tutti) e soluzioni nuove. Un disco che è, per l'appunto, come l'acqua: schietto, elementare, ma proprio per questo in grado di trovarsi alla base di una sintesi più complessa. Una limpida dimostrazione del fatto che non è facile realizzare qualcosa di semplice – lo sa bene il contadino la cui paziente fatica fa fruttare la terra - ma goderne è assolutamente naturale. Come acqua che rinfreschi il viso in agosto. Ben vengano dunque altri dischi come questo.

Voto:
◆◆◆
Label: Overdrive Records



Leo Pari - Rèsina (Recensione)

Leo Pari ResinaNon ci sarebbe un pelo fuoriposto in “Rèsina” nuovo appuntamento discografico del cantautore romano Leo Pari, se non fosse per troppa “Battistitudine” che circola come aria forzata, tanto da sembrare un’opera dello scomparso cantante di Poggio Bustone, ma sui protettori ispirativi d’ogni artista possiamo intaccare una critica fino ad un certo punto, quello che ne passa le pene è l’opera , il disco stesso che viene spersonalizzato al quadrato, dopodiché nessuno ce né voglia, lo ascoltiamo con dovizia ma anche con le orecchie dritte come quelle di un metal detector.

Detto questo, quello che ci rimane tra le mai e l’orecchio è un buon disco, cantautorale e da apprezzare per tutta la lunghezza della sua tracklist, è il frutto di una penna giovane che si lega anche alla filosofia della Grande Scuola Romana del Folkstudio e che si appende al sogno di diventare un punto di riferimento per tante altre a grandi salti e buoni intenti; l’artista Pari si giostra bene tra ballate pop e suggestioni vaporose, una leggera psichedelia che si mischia a storie, faccende, quotidianeità e intimità, e con lui una bella schiera di personaggi d’ambiente che vanno a caratterizzare un suono, più suoni che appassionano e impastano pezzi e crescendi molto variegati come fossero nuvole di passaggio e d’alta quota “Piume di drago”, “Sono ancora qui” che ricorda moltissimo Mio Fratello E’ Figlio Unico del mitico Rino Gaetano, “Solitudine: autoritratto”, per passare poi alla scioltezza rock-pop di “Con te”, all’amore bisbigliato “Canzone segreta”, al riflesso dentro accompagnato da un’armonica “Passo dopo passo”.

La sfida di rendere poesia sottoforma di versi e note è vinta da un pezzo, e l’autore romano – già un nome nell’underground italico – rilascia un nuovo atmosferico disco languido e a suo modo cinematografico, come fosse una colonna sonora per una giornata che volge al termine o per incamminarsi verso un amore da prendere o lasciare; sta passando sotto il lettore ottico il brivido blues urbano di “Quando ritorno da te” svisato come un’eiaculazione nel finale, e allora a dirla tutta, la verità, è che poi di quella Battistitudine citata nell’openeir di rece non ce ne frega più nulla, lo prendiamo intero nella sua bellezza a scatola chiusa.

Voto: ◆◆◆◆
Label: Gas Vintage Records


giovedì 19 gennaio 2012

Fanfarlo - Deconstrucion (Recensione)

Fanfarlo - DeconstrucionDeconstruction è il nome dato al trittico apripista per il secondo nuovo cd dei Fanfarlo, in uscita il 28 Febbraio, che vede due arraggiamenti, in realtà, di un unico pezzo ed un terzo strumentale chiamato "Re-construction".
Lontani da "Reservoir" propongono un ritmo gioviale, che rimane facile da canticchiare con il sorriso sul volto. Infatti questa band creatasi a Londra da leader svedese Simon Balthazar, si era presentata con toni più sommessi, se pur con un talento naturale nel gestire i tantissimi strumenti che suonano, ricordando un pò sia gli Arcade Fire che i Beirut, per l'armonia ed il trasporto che segue all'ascolto della loro musica. Degli esempi possono essere " I'm a Pilot" e "The Walls are Coming Down". In questo LP di apertura bisogna aspettare il b-side Re-construction per scendere di nuovo nell'atmosfera del clarinetto, della tromba e dei violini con un ritmo però incalzante e sempre ristudiato nel corso dei suoi minuti.

In attesa del secondo album, è davvero un piacere cantare a mò di karaoke "Deconstruction" con l'ausilio, non a caso, del testo che scorre per parte del suo video.

Voto: ◆◆◆
Label: Canvasback / ATL

Vintage Trouble – The bomb Shelter session (Recensione)

Vintage Trouble – The bomb Shelter sessionFiatone, oh dolce fiatone! A stare dietro a questo diamante bianco dalla pelle nera “The bomb Shelter session” dei Losangelini Vintage Troubles c’è da perdere salute, chili superflui e orari concatenati con impegni ordinari che condannano l’esistenza al guinzaglio del tempo, ma è un sacrificio che si fa con libidine e con devozione verso il suono dei suoni, quel R&B nero come la notte dei tempi e fondo come l’animo emotivo di un ossesso figlio del diavolo.

Siamo fuori dalle rotte indie e da naufragi post-industrial, siamo fortemente coesi alle radici della black music per un immenso salto di qualità stilistico che oltre che inventare il tutto non ha cedimenti di sorta, praticamente il Vangelo e la Bibbia della musica che non si sono mai chiusi in un ciclo; ami alla follia i Black Crowes? Questa band fa al caso tuo, e la straordinaria voce nera “tossicona” di Ty Taylor – unico nero certificato del quartetto – è un caldo invito a lasciarsi andare ai ritmi frenetici e alle pomiciate soul che quest’album distribuisce come un dispenser 24/24; grande blues rock che dalla cassa di risonanza della California, terra della band, arriva sugli scaffali di tutto il mondo terremotando con il sound dei sound, col fremito sex & soul dei tardi anni Cinquanta, i nostri impianti stereo.

Prodotti dal mitico Doc McGhee (James Brown), il quartetto americano si scioglie in mille effusioni, decreta move-it a comando, e stordisce i sensi che si contorcono come anguille al passaggio di R’N’Blues da manuale “Still and always will”, “Jazzbella”, “Total strangers”, e i ricordi volano alti sulle atmosfere di Wilson Pickett, Marvin Gaye, Otis Redding, Jim Croce, ma per restare ai nostri giorni, altre similitudini possono raccordarsi con le coordinate rock di KravitzNancy Lee”, tuffarsi nelle ambrosie folksoul di Ben Harper e Jeff BuckleyNot alright by me”, adombrarsi nei movimenti di bacino di Seal Nobody told me”, fino ad inoltrarsi nelle sofferenze indie di un Jack White alla ricerca di una propria anima da guarire “Run outta you”.

Chiaramente un disco di radici più che fiori, ma un disco di vacuum esorbitante, esplosivo, che ancora una volta detta le regole della vera musica, quella che fece gioire e piangere molto prima del vagito arrogante del rock, ad ogni modo un prodotto sonico per intenditori e neofiti che vorrebbero avere “la pelle nera” come prima dotazione fisica, se avete colto il punto.

Voto: ◆◆◆
Label: Vintage Trouble


mercoledì 18 gennaio 2012

Cayman The Animal - Too Old To Die Young (Recensione)

Cayman The Animal - Too Old To Die YoungMi risveglio, stordito. La grigia e uggiosa mattinata milanese è il perfetto presagio di una giornata qualunque. Sulla scrivania trovo un disco dal titolo "Too Old To Die Young", generoso prestito del mio amico Roberto. Intuendo che qualcosa di nuovo e sconosciuto potrebbe servire a farmi riprendere dal torpore, non esito a premere "play". In meno di 25 minuti sono di nuovo al tappeto, colpito in pieno volto da 11 schiaffi ben assestati, non effimere sberle qualunque, ma ceffoni intensi, lunghi 2/3 minuti ciascuno. Il vigore delle percosse mi fa perdere i sensi.

Mi risveglio, stordito. La grigia e uggiosa mattinata milanese è il perfetto presagio di una giornata qualunque…

Potrebbe essere descritto così "Too Old To Die Young", esordio discografico dei perugini Cayman The Animal; un susseguirsi di percosse post-hardcore senza fine che, tra stordimento, incredulità e meraviglia, portano l'ascoltatore ad implorare di riceverne ancora e ancora. L'album segna inoltre il debutto della neonata Mother Ship Records, che grazie alla cura per packaging, stampa e grafiche (opera del buon Ratigher) pare proprio partire con il piede giusto.

Che i ragazzi non siano più degli sbarbatelli lo si capisce in un attimo, oltre che dal titolo, dalla convincente struttura dei pezzi e dalla fluida eterogeneità dell'album che si piazza senza fatica in cima alla lista delle migliori scoperte musicali del 2011. K.'S Rondo, traccia d'apertura del disco, è un' ossessiva e frenetica alternanza di stacchi, tempi veloci e decelerazioni mid-tempo, a richiamare quel florido periodo musicale compreso tra la fine degli anni '90 e l'inizio del nuovo secolo. Il tutto viene ampiamente sottolineato nello spassoso videoclip del pezzo, in rete ormai da qualche settimana. Altamente raccomandato. L'album prosegue con gli stacchi "refusediani" di Drinking & Shaving e le bizzarre aperture di banjo (sì, banjo) di It's up to you e The quarter-deck che arrivano ad ammorbidire in maniera mai banale l'aggressiva spigolosità strutturale dei pezzi. Cut you open, unico episodio di costanza ritmica all'interno dell'album, è una scalata a una parete ripidissima; lenta, faticosa, energicamente trascinata, contrae muscoli che nemmeno immaginavamo di avere. I testi, piacevolmente ben scritti, vengono decantati con maestria da una voce nervosa, impaziente, con un piglio costantemente melodico che in più di un'occasione richiama alla mente la duttilità vocale di Daryl Palumbo, sia quello di stampo Glassjaw (Here comes the end Part I, Message in the butthole) sia quello dell'esperienza più pop degli Head Automatica (Underneath the cover). I Cayman The Animal, dopo le strofe quadrate, i ritornelli aperti e la "guitar battle" conclusiva di Keelhauling, accantonano banjo e goliardia, e in poco meno di 2 minuti ci risbattono violentemente all'angolo con The Weirdest answer ever given, urlandoci dritto in faccia che non stanno scherzando. Finito il disco rimane chiara la volontà di porgere l'altra guancia infinite volte in attesa degli stessi undici schiaffi. Premo di nuovo "play" e realizzo di aver appena adottato un nuovo disco. Mi dispiace Roberto.

Voto: ◆◆◆◆
Label:
Mother Ship Records

lunedì 16 gennaio 2012

Ronin - Fenice (Recensione)

Ronin FeniceA quasi tre anni da "L'Ultimo Re", risorgono a nuova vita i Ronin di Bruno Dorella, intestatario del progetto visto nel frattempo alle prese con le sue altre creature (Ovo, Bachi da Pietra). Fenice si presenta come un lavoro molto più accessibile rispetto ai precedenti e vede il cambio alla batteria con Paolo Mongardi (Zeus!, Fuzz Orchestra, Jennifer Gentle, Il Genio, Fulkanelli) che subentra al posto di Enzo Rotondaro. Il tiro instrumental rock in salsa tex-mex resta invariato seppur articolandosi su pieghe più o meno elaborate in contesti differenti. Una cura dei particolari incredibile ed una qualità sonora eccelsa, caratterizza ancora una volta il progetto in un mix di psichedelia desertificata su andamenti minimalisti e rimproveri post-rock. L'iniziale "Spade" è già conferma di un'attitudine e maestria rari, efficace nel suo incedere su geometria Tortoise e longitudini psych d'alto impasto atmosferico. "Benevento" con la sua partenza a razzo, intermezzo westernato e finale su esplosione di fuzz è chiara articolazione di idee e talenti indiscussi. Dalla danza in salsa Morriconiana di "Jambiya" (piano del maestro Enrico Gabrielli) si passa al romanticismo della title track, così cullata dal violino di Nicola Manzan e dalle leggere pennellate di chitarra a rendere un affresco malinconico ed ombroso, una sorta di catarsi che poggia delicatamente i propri umori su una crescita atmosferica ben composta. Si giunge così all'unica parentesi cantata nella struggente essenza di "It Was A Very Good Year" (cover del paroliere Ervin Drake resa celebre dalla rivisitazione di Frank Sinatra) con la magistrale interpretazione di Emma Tricca, brano che vanta anche l'ospitata d'eccellenza all'organetto di Umberto Dorella (padre di Bruno). Lo swing leggero di "Gentleman Only", le ambient-azioni elettro-acustiche di "Nord" e il tribalismo della conclusiva "Conjure Men", con fiati di Gabrielli (flauto e sax), Raffaele Kohler (tromba) e Luciano Macchia (trombone), sono ulteriori conferme del talento incredibile dei Ronin.

Seppur tangibili, ancora una volta, i fondamenti cinematografici del progetto Dorelliano, la Fenice risorge dalle sue ceneri più bella e luminosa che mai, con 9 episodi che sembrano non dovere necessariamente descrivere o decorare spazi e immagini, affascinando dal primo all'ultimo minuto. Consacrazione di un progetto maturo ed eccezionale.

Voto: ◆◆◆
Label: Santeria/Tannen


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