martedì 31 luglio 2012

GPL - Phoenix (Recensione)

Ottime nuove dall’emisfero HC melodico tricolore, dalla bella Vigevano i ribelli GPL sono di nuovo in giro per scalmanare folle e coni stereo come si conviene, e questo “Phoenix” è l’immediatezza della loro proposta che prende avvio nel 1999 e, dopo una sconbussolatina di idee e line-up, arriva ai nostri giorni sempre feroce, fresca e con i denti aguzzi come poche; cinque tracce al fulmicotone che della forte paternità Offspring ne sono consapevoli, quella energia influenzata – specie nelle giugulari d’insieme – che non fa difetto nessuno, la band, un quartetto anthemico e stradaiolo, è micidialmente autonoma nei passaggi, nella spinta guerriera e nel consolidamento di un genere estremo che non demorde un millimetro della sua storia.


Tutto batte forte, tutto scintilla e si sgola in un lavoro “a batteria” che non passa inosservato, come non passano inosservate nemmeno le particolarità – nel nervo scattante della tracklist – che guardano in terra a stelle e strisce, specie nei pandemoni oltraggiosi e corali in cui gravitano band come Good Riddance, Rise Again, tutte detonazioni amplificate che quasi quasi fanno “mitologia” ancor prima di deporre le armi del suono, i proiettili delle parole; una prova discografica della quale parlarci sopra può rendere vana la vera portata dei tracciati sonici, tanto vale infilare il cerchietto di plastica “bollente” nella fessura stereo e lasciare che i miasmi, le verità, le fogne e la non indulgenza distorta prendano libertà e strada propria, incarnandosi in un pogo “invalidante” favoloso e schizzato dalle atmosfere antagoniste e libertarie che ogni goccia di sudore trasmette.

Cinque tracce di vita, tutte da ascoltare e inneggiare come fossero tutto ed il contrario di tutto, percorsi minati che non divagano in derive o inciampi, dritte e robuste come frustate su cosce scoperte che iniziano con l’ansia elettrica di “Song of liberty” e finiscono nei retaggi corali metallici da curva sud di “Letters to myself”, e nel mezzo? Alta tensione e strage di sali minerali!

Bollino rosso di goduria assicurata.

Voto:  ◆◆◆◇◇
Label: Autoproduzione

lunedì 30 luglio 2012

Arctic Plateau - The Enemy Inside (Recensione)


Dietro Arctic Plateau ci sono la mente, i testi e il cuore di un italianissimo Gianluca Divirgilio,  accompagnato nell’apparato strumentale da Fabio Fraschini al basso e da Massimiliano Chiapperi alla batteria.
Dopo tre anni dal primo full-lenght “On a Sad Sunny Day” e dopo lo Split con i Les Discrets del 2010 ci troviamo di fronte a “The Enemy Inside”.
Album che colpisce positivamente fin dalla copertina, che è manifesto di una certa introspezione, di riservatezza e di qualcosa che va aldilà della realtà e della fantasia. Cose  che successivamente si ritrovano nell’ascolto di questo lavoro. È un’entità impalpabile e difficile da inquadrare, che spazia da uno shoegaze ad un suono a tinte più forti, ed è questo straniamento la chiave di lettura per quello che si ascolta spingendo play. Ed è bello passare delle ore in compagnia di quest’album, ci si sente meno alienati, forse per il semplice fatto che siamo accanto ad un altro “alieno”, almeno per un po’.

Sì è immessi nel “concept” dolcemente, grazie alle sonorità già familiari di “Music’s Like”, brano che avevamo imparato ad apprezzare già dallo Split, si passa ad un piccolo intermezzo di  “Bambini Piangete” e subito giù con “Adult Idiot”, in un’atmosfera sospesa che trae la sua vera forza dal testo, molto semplice ma anche molto incisivo, e soprattutto pregno di una nostalgia straniante, mentre tutto viene lasciato così, senza trovare realmente una soluzione. Il filo concettuale viene tessuto abilmente nel brano successivo “Abuse” a conferma che non serve a nulla cercare sempre delle risposte a delle domande.
Poi quasi quattro minuti di “Catarctic Cartoons”, strumentali, che lasciano la scena alla titletrack “The Enemy Inside” il così tanto temuto nemico interiore. Ma non dobbiamo farci ingannare dall’intro, perché oltre ad essere il perno su cui ruota l’intero album contiene anche una sorpresa sugli ultimi versi “Misanthropy and Cries Alternative Outside, When I Was a Shiny Angry and Shy Pure Child” urlati e sbattuti in faccia dalla voce di Carmelo Orlando, voce dei Novembre.
Si passa poi a “Melancholy Is Not Only For Soldiers” ed è subito la volta di “Loss And Love” che disarma un po’ soprattutto perché si viene a sapere che la voce che si presta in questo brano è quella di Fursy Teyssier dei Les Discrets, in un intreccio quasi impercettibile.
Si arriva quindi inspiegabilmente agli ultimi capitoli “Big Fake Brother” e “Wrong” , una chiusa meravigliosa assieme alla strumentale “Trentasette”.

In conclusione, è un album che colpisce molto, di cui ci si può innamorare. Di forte impatto empatico. Per dirla con le parole di Gianluca Divirglio che potete leggere in una bellissima intervista proprio qui. “Se non ami questa cosa chiamata Arctic Plateau tu non puoi fare parte di questa cosa chiamata Arctic Plateau”.


Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Prophecy Productions

sabato 28 luglio 2012

Nient'Altro Che Macerie - Circostanze Ep (Recensione)


La nuova "scena" indie italiana, abbandonati i quasi insopportabili sintetizzatori che me l'avevano fatta odiare, sembra riappropriarsi dello spirito più aggressivo ed emotivo del rock. In tempi di crisi, come quelli che stiamo vivendo, è normale che i soggetti più deboli, quelli refrattari al qualunquismo dilagante, e più propensi all'introspezione, si decidano a dare un senso alle proprie disgrazie quotidiane trascrivendole in musica, una musica aggressiva, feroce che arriva dal cuore e viene forgiata dai propri muscoli.
I Nient'Altro Che Macerie sono un esempio lampante del ritrovato bisogno di dare una forma alle proprie paure e alle proprie personali disperazioni.
Musicalmente la band milanese si muove su coordinate bene precise, l'indie rock americano anni '90 dei Dinosaur Jr il punk trasmutato dei Nirvana, il post hardcore dei Drive Like Jehu e degli Unwound. Il tutto viene tritato assieme e rivisto da tre giovani menti con i piedi ben piantati nel 2012. Si perchè il 2012 è il 1994, lo sanno tutti.
Il disco si apre con "Respira" un riff furioso che si scioglie in un arpeggio "emo" doloroso. Musicalmente il pezzo regge e anzi è di forte impatto, ma sin dal primo ascolto possiamo accorgerci come il lavore dei tre dovrà, in futuro, concentrarsi sul cantato, spesso fuori fuoco e in alcuni passaggi abbastanza fastidioso,.
"Illusioni" è un esercizio in stile Raein ma senza lo spessore, e il mestiere, di Console. Vizio non lascia traccia, mentre Niente si guadagna una bella sufficienza con i suoi riff aggressivi e un testo finalmente all'altezza. La conclusiva "Tu Chi Sei?"" è un bel pezzo a metà strada tra Massimo Volume, i Cap 'n jazz e i  primi Verdena. Ecco, i Verdena, 15 anni fa facevano più o meno questa roba qui, ma la bella pensata di definirli i "Nirvana italiani" ne ha smontato il senso critico, erano ragazzini che facevano proprio un sentire lontano, elaboravano musica mettendo assieme vari aspetti della propria vita e le proprie passioni. Io ultimamente li sento ovunque quei Verdena li, non quelli dell'avvenuta beatificazione battistiana.

Tornando ai Nient'Altro Che Macerie; un lavoro interlucutorio, un'identità personale che resta abbastanza nascosta e che in futuro non avrà difficoltà ad imporsi sulle influenze. Altro discorso meritano i testi, ancora troppo adolescenziali, buttati a volte a caso e mai del tutto contestualizzati musicalmente e il cantato colpevolmente troppo molle per chitarre così intense.

C'è da crescere e c'è da star certi che lo faranno.

Voto: ◆◆◆◇◇

Label: Autoproduzione




venerdì 27 luglio 2012

DelaWater - S/T (Recensione)

Capita spesso di leggere recensioni o altro prima di ascoltare un brano o l’intero album di questo o quel gruppo, ma per una volta provate ad ascoltare prima di leggere.
Il risultato è quello di ritrovarsi per circa trenta minuti a dover pensare in quale posto si è arrivati. Il luogo di partenza lo sveliamo noi : costa adriatica, per la precisione Teramo. Poi senti l’inglese del loro indie-rock e ti sembra di essere in una nostalgica città oltremanica, in uno di quei club pieni di fumo, in attesa di ascoltare una di quelle band che solo a distanza di anni dici : io c’ero alla loro prima.
Nati da circa due anni, i DelaWater  debuttano con un self-titled di sette tracce, ognuna delle quali capace di far vivere piccole incursioni in vari generi, dal brit-pop al pop psichedelico, o rivivere un preciso momento di vita vissuto o sognato.
Sono le prime due tracce “A dog under the sun” e “Into my heart”  di sicuro le più sognanti, grazie anche al giusto e leggero dono del “girevole” basso di Andrea Marramà,  quelle che con maggior forza si distaccano dalle altre, anche se come abbiamo detto ognuna vive di luce propria. La scelta di inserirle come prime è di sicuro stata vincente, le loro melodie, quasi da finale, riescono invece a creare un’atmosfera di “partenza” verso lidi ben precisi, grazie a giuste distorsioni che esaltano “l’interventista” chitarra di Pierluigi Filipponi e la “toccata” batteria di Stefano di Gregorio.
Diverse invece le direzioni delle successive tracce, e non solo per i testi, tutti originali che "suonano alla moda ma che in fondo non lo sono”: dalla pop-psichedelica “How stupid I am !” in cui inizia a farsi intravedere la voce dell’ex tastiera "cantante" Aurora Aprano (sostituita ora da Serafino Bucciarelli), a “Lazy days on my sidecar” un vero duetto con la “manuale” voce di Paolo Marini in cui però a farla da padrone sembra l’introspettiva e suggestionabile “voce” della chitarra.
Ultima, ma solo perché dopo lo spettacolo, quando le luci si spengono e restano solo pochi fans, si potrebbe aver bisogno di un caldo abbraccio, è la ballad  “Sold Out”.

Si può solo dire che "DelaWater racconti qualcosa e allo stesso tempo non dica nulla", proprio come un album di foto che racconta solo a chi l'ha vissuto, con la sola differenza che nessuno, ascoltando l'album, vi dirà : "Inutile guardare le altre perchè sono tutte uguali".



Label : Waited for months Records
Voto : ◆◆◆◆◇





giovedì 26 luglio 2012

Chlorophyl* - S/t (Recensione)

E’ davvero difficile trovare dei motivi per non avvicinarsi ad un disco come questo omonimo e primo passo discografico – nonostante gli anni di carreggiata - dei romani Chlorophyl*; già dalla copertina nebbiosa e sfuggente qualcosa presumibilmente a raso del circuito indie si fa intendere, e poi, una volta messo a girare sotto l’occhio sensibile del lettore ottico, tutto prende forma e concentrica bellezza, una concretezza fluida che bascula tra pop-wave teso su quegli amarognoli ritardi di feedback che vanno ad intrecciarsi amorevolmente con le tricologie arruffate di Robert Smith come ad una certa area Californiana morbidona che allunga il respiro fuori limite, ma se cerchiamo una completezza o una sottile assonanza, possiamo benissimo rimanere – con questa bella compagnia formato album – in Terra d’Albione tranquillamente.

Ma sostanzialmente nove tracciati cromaticizzati e concentrati nell’amarezza agrodolce che trova il cerchio perfetto nell’armonia decadente, in quei “bronci tirati” che disegnano gli Ottanta come un alito sul vetro, appannati, morti fuori e vivi dentro, gli ansimi di una capacità alchemica di dare senza scomporsi, onde elettriche e liriche monocrome che arrivano, passano e partono come gli odori di una notte infinita; capitanati da Cristiano Del Rossi - voce e chitarra ritmica – i Chlorophyl*, rigorosamente con l’asterisco a tergo, sono una bella proposta, fuori da quegli insopportabili allenamenti di muscoli e cervello ad alta dispersione elettrica che inondano oramai ogni quadratino underground, qui ci sono giri di basso talmente morbidi da divenire un mantra “Yellow leaves”, arpeggi di chitarra ieratici e senza peso “Leaving today”, “Field of unfairness”, stupendi fuori pista touch & go che riportano prepotentemente nel sangue i globuli insaziabili dei “tocchi” di un Frusciante solista “Laugh and coffee” e le densità emotive di Kiedis (RHCP) “A small place”.

Dicono che la musica debba passare categoricamente per le impressioni d’arrangiamento che i nuovi progetti sonici – meglio sonori – stabiliscono come un disegno da fare a tavolino in modo che l’ascolto non si possa basare più sulla pelle, ma sulle intenzioni; non stiamoli ad ascoltare questi falsi profeti del marketing, preferiamo farci violentare di piacere le orecchie con dischi come questo dei nostri romani, farci stuprare di dolcezza con la loro essenza e la loro clorofilla poetica, che, senza scommetterci sopra nulla, ce li fa già considerare – e solo con un debutto – piccoli grandi diamantini off da tenere stretti..


Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Autoproduzione


mercoledì 25 luglio 2012

Nicolas Joseph Roncea - Impossible Roncea (Recensione)

Nicolas J. Roncea, cantautore sotto l'ombrello del folk minimale e del culto di Elliott Smith, dopo gli ottimi riscontri di “Old toys” (2012) in cui le collaborazioni si sprecano (membri di Verdena, Perturbazione, Marta sui tubi e Africa Unite) torna allo scoperto con questo “Impossible Roncea”, la cui genesi diverte e trasmette senza tanti giri la vocazione sincera alla musica d'un cantautore che mi porta a dichiarare in premessa la personale idiosincrasia verso una patina “furbetta” che riveste spesso canzoni precedenti alla qui presente opera: il cantato (e pure lo pseudonimo) in inglese e una voce che talvolta sfuma in un melodismo mellifluo e inconsistente, fine a se stesso.

Se la scelta dell'inglese è confermata in questo nuovo capitolo, sulla voce viene effettuato un interessante lavoro di tessitura di borbottii elettronici e storpiature rumoristiche alla The Books, che sposta l'asse sul versante della Folkotronica e dei collage di nenie cantautorali che non suonano più lisce e prevedibili, ma spiazzano ed emozionano nella cura dei dettagli e delle sottrazioni alla linearità dei brani, oggi rese possibili da una maturità compositiva che non coincide più necessariamente col proprio miglior pregio, il talento melodico, che certo non fa difetto a Roncea.
In “This Is Not My Bed” tutto questo appare chiaramente: sovraincisioni che si sovrappongono, ticchettii brulicanti ed echi vocali, sdoppiamenti melodici e ritmici, ed in cui la voce impennandosi, diffondendosi in tutta la maglia della canzone per poi svanire, sembra mimare la prova d'una adeguata configurazione acustica del sistema audio d'un qualsiasi PC, conferendo tutta la profondità sonora che il disco avrà per i brani successivi. “Play Your Song”, ancora una nenia folk incatanta e sospesa, si dota degli stessi mezzi con intenti più dichiaratamente interlocutori, che ci conducono alle nuove e più tese sovraincisioni di “Ten Lies”, un brano più acre e fitto di tensione cantautoriale che poi si risolve in una nuova sospensione musicale.  “Tutto Andava Bene” increspa ancora più massiciamente le linee nervose già comparse nel precedente brano in un climax che però non convince troppo singolarmente, assai di più se inserito in un disco che non intende essere una esperienza monocorda e monotona, riuscendoci peraltro benissimo. Ed eccoci infine nel fiore più colorato e profumato del lotto, “All Jazz Era”, in cui tutti gli elementi di questo disco di Roncea, la libertà compositiva, la delicatezza innata, la pluralità dei suoni, si compone in una unica armonia che è un omaggio ai pioneri e già citati The Books e porta alla mente tutti i crediti che il nostro deve alla discografia universale e che ha seminato nelle precedenti tracce: Elliott Smith, Sufjan Stevens, Jose Gonzalez; in altre parole, si pesca dal meglio del cantautorato intimista e variopinto degli ultimi vent'anni.
Roncea descrive così la genesi di questo disco prezioso: “Because of a problem with his left hand, in the beginning of 2010, he was forced to stop his musical activity for some months and he decided to make some experiments with home recording, voices, loops and guitar open tunings. So this is "Impossible roncea"”. 

E non lo traduco, cazzi vostri e del vostro cantautore italiano che canta in inglese. Scherzi a parte, ecco dunque come un gioco a somma zero si trasforma potenzialmente nella strada da seguire per comporre piccoli cristantemi musicanti che saranno assai meno fruibili dal pubblico meno curioso di “Old Toys” ma sono autenticamente luminosi, vivaci e profumati.
A Roncea l'augurio spassionato di infortunarsi più spesso, se questo è l'esito e poi tutto si sistema. E pensare che quando io mi rompo qualcosa non riesco che a bestemmiare. E neppure in inglese.

Scarica qui  Impossible Roncea


Voto: ◆◆◆◇◇

Label: Yo! Netlabel




martedì 24 luglio 2012

Dario Margeli - Testa (Recensione)

Qualche mese fa un anonimo commentatore del mondo youtubiano definì l’ultimo singolo degli Amor Fou quale l’incontro tra Battiato e gli M83; mi riservo la possibilità di reiterare la sua singolare definizione dicendo che il lavoro d’esordio del compositore e cantante Dario Margeli ‘Testa’ rappresenta di conseguenza l’incontro tra Battiato e gli Eiffel 65 (condito con una flemmaticità tutta alla Renato Zero). Il che non comporta necessariamente lo storcere il naso, bensì si risolve in un’opera unica nel suo genere – di certo unica nel panorama musicale italiano.
Margeli è il fautore di un sincretismo ameno, fatto di spezzoni-segmenti di frasi ricordi o mormorii dell’inconscio riadattati in musica in un vortice che poco invidia ad un flusso di coscienza joyciano. Il richiamo a Battiato è fortissimo, in primis nel suo riferirsi a spietati padroni ( ricordandoci la mano di Franco), o nel passare da una lingua all’altra, inglese come spagnolo  (Nada Tiene Tanta Importancia è la versione catalana di Niente Importa Tanto); non copia però la costruzione ardita e sempre ben riuscita del maestro, ma concentra forti immagini in elaborazioni brevi e d’impatto. Il tutto, poi, immerso in una buona soluzione al sintetizzatore – e proponendo il remix di BitBear per ben tre singoli.
Che sia il nuovo Battiato o meno, l’opera prima di Margeli, che già girava per il web attraverso i suoi singoli, parla una lingua tutta sua (anche grammaticalmente, a volte). Il suo è il lamento dell’uomo schiavo della routine del lavoro ripetitivo, re iterativo nelle sue attività servili e prettamente burocratiche. Un tran tran che da’ vita ad un canto solitario che ha sede nell’inconscio, quello di una mente repressa ma lucida nella sua repressione tanto quanto una vittima del sistema Orwelliana. Se Buongiorno Fino A Quando Servo è un lampante estratto della quotidianità avvilente dell’impiegato ordinario, Somebody Pull Me Up potrebbe benissimo essere l’inno dal sapore vagamente spartachiano del sabato sera dance ( specialmente nella versione remixata, poi ). “Che orrore venire a chiederti le ferie a te figlio di uomini influenti è il grido di battaglia del mondo lavorativo delle scrivanie e dei pc roventi". Un disco da ascoltare, infine, anche solo per comprendere che qualcosa di pregnante (o anche solo disturbante dei nostri bei pensieri della sera) c’è, ed esiste, ed è forte. E non è la semplice sgrammaticatura dei versi.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: Autoprodotto

lunedì 23 luglio 2012

Serj Tankian - Harakiri (Recensione)

“Harakiri”, il terzo ordigno creativo di Serj Tankian, leader dei System Of A Down, mette d’accordo tutti, o quasi; nomade del rock per vocazione e sviluppo interiore, è passato con scioltezza massima (fuori della sua avventura con i SOAD) dal punk all’ossido del metallo più intransigente, dall’hardcore da puttanaio alla sperimentazione jazzy del Fucktronic Project, e tante altre direttrici incontrollate, e lo ha fatto in preda a quella bellica malattia che si chiama creatività, malattia che prende oramai pochi soggetti nel rock, o perlomeno non se ne avvertono sintomi concreti; disco in cui l’artista conserva la sua poetica sovvertitrice del non stare zitto sui vari mali che insidiamo e torturano la società, il mondo e l’uomo come entità, undici schegge che oltre a spremere il cervello dell’ascolto, scudisciano lasciando segni ed abrasioni dentro e fuori, tracce dove gli istinti “dolcemente selvaggi” si rivelano senza nascondersi, un susseguirsi di barlumi e folgori che illuminano come traccianti luminosi le coscienze sporche, laide di tanti, di molti.


Uno spirito apolide quello di Tankian, zingaro degli stili, curioso di tonalità screziate e nella testa la voglia ostinata di stupirsi e stupire, nel sangue il suono della ribellione, del “peccato originale” “Cornucopia”, “Figure it out”, l’ansia struggente “Ching Chime”, le doppie pedaliere ossesse “Uneducated Democracy”, mentre negli ormoni estasiati dalle influenze aperte al mondo corrono l’epicità di matrice progressive “Butterfly”, “Reality TV”, il pop controcantato “Deafening silence” e la finale “Weave On” , hard rock con tutti i crismi canonici 70/80’s,; in poche parole un lavoro discografico che non smentisce il contagio sonante che Tankian prende e rilancia come in un ciclico tzunami sonico che – se proprio farà storcere le bocche dei puristi SOAD – piace e piacerà sia ai critici anti-ortodossia che a nuovi adepti in cerca di spiragli “concreti” da intercettare e capire nella sua musica.


Esemplari nella loro certezza diversa queste undici tracce, che portano come ascendente il crossover, animano la rappresentazione della non omologazione, urlano un ambiente ed una umanità da salvare, un mondo “sonoro a parte” che l’artista di origini armene vuole graffitare come una simbologia che rompe il monopolio del sound unidirezionale, e lo fa in men che si dica, aprendo un po meno il loud degli amplificatori e dando mandato al pensiero di allargarsi a dismisura, spesso anche dove un sole non arriva mai.


Come per tutte le sue opere solitarie, Harakiri è fantasticamente “diversamente abile”.


Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Reprise 2012








venerdì 20 luglio 2012

Neneh Cherry & The Thing - Cherry Thing (Recensione)

Praticamente non c’è musicista che non riproponga brani dei propri artisti di riferimento sia durante i concerti che su disco; alcuni, addirittura, incidono album interamente di covers come Johnny Cash (lo si benedica per le American Recordings ed in particolare per la meravigliosa reinterpretazione di Hurt dei NIN) oppure l'ultimo Neil Young (anche se non ritengo Americana un disco all'altezza delle cose migliori del vecchio canadese).
"La reinterpretazione di canzoni altrui non è un’arte semplice."
Questo scrivevo un anno e mezzo fa per un (altro) album di tributi...
Da poco in questa pratica si è cimentata Neneh Cherry, grandissima interprete di cui vi consiglio almeno di avere, ascoltare e consumare (così come ho fatto io) quel gioiellino di “elettro-hip-pop-soul” che si chiama Homebrew (uscito esattamente 20 anni fa).
Mi piace anche ricordare la sua partecipazione al progetto Red Hot and Blue, con, guarda caso, una versione completamente stravolta e molto sentita di I’ve Got You Under My Skin, (accompagnata da un video, “virato” in blue, di rara bellezza) in cui ribadiva il suo appoggio all'iniziativa anti AIDS ("share the love, don't share the needle...") e a cui ha fatto seguito il suo maggiore successo, 7 Seconds, in duetto con Youssou N'Dour.
Neneh, già cantante nei primissimi anni 80 dell'ensemble Rip Rig  And Panic che fondeva post punk, rock, jazz e world music, figlia "adottiva" del grande trombettista jazz Don Cherry, dopo un lungo silenzio è tornata tra di noi e, diciamolo subito, lo ha fatto alla grande.
Cherry Thing, questo il titolo dell'album  inciso insieme al trio free-jazz svedese dei Thing, si compone di 8 tracce, 6 delle quali pescate nelle discografie altrui, da varie epoche e generi.
L'album si apre con un brano scritto dalla stessa Cherry, Cashback.
Ingebrigt Håker Flaten al bouble bass che introduce e sostiene la meravigliosa voce di Neneh a cui si affianca il drumming di Paal Nilssen-Love, prima dell'intermezzo free del sax di  Mats Gustafsson: brano semplicemente strepitoso!
Non ci si è ancora ripresi, che subito dopo arriva uno dei momenti più intensi dell'album: la cover di Dream Baby Dream dei Suicide, della quale è stata fatta anche un (a mio avviso inutile) remix firmato Four Tet.
Questa versione, son sicuro, piacerebbe molto a Tom Waits ed al suo compare "daunbailo'iano" John Lurie, insieme alle sue “lucertole”.
Dal repertorio di Martina Topley-Bird, per molti epigona di Neneh, arriva Too Tough To Die, brano già di notevole spessore nella versione originale che Neneh & friends rendono l'apice dell'intera opera.
Il sassofonista Gustaffson è l'autore di Sudden Movement che risulta, invece, il momento meno "digeribile" e, tutto sommato, più debole dell'intera opera.
Ma non lamentiamoci perché in sequenza arrivano Accordion, ripresa dal rapper MF Doom, dove la voce della nostra è (ancora una volta) da 10 e lode, il sentito tributo a "padre Don" di Golden Heart, con il suo incedere vagamente orientale,  l'omaggio a Mr. Iggy "Iguana" Pop ed i suoi Stooges con Dirt, per poi terminare con una versione “rallentata” di What Reason di Ornette Coleman.


Cosa dirvi di più se non di avvicinarvi senza timori ad uno dei migliori album usciti in questa prima metà del 2012?
Certo non è semplicissimo prestare l’orecchio a questi suoni ”suonati” e a volte “dissonanti”.
Vincete la riluttanza che (spero di no, ma) potrebbe prendervi al primo ascolto.
Lasciatevi andare perché, ne son sicuro, dopo pochi giri nel lettore questo disco vi conquisterà lasciando sul vostro viso un’espressione di compiacimento e sulle labbra la frase: Neneh torna presto… 


Voto: ◆◆◆
Label: Smalltown Supersound


giovedì 19 luglio 2012

The Young - Dub Egg (Recensione)

Si vogliono rifare dalla debacle di due anni fa di un disco – il loro prino disco – Voyagers of Legend, che passò sugli orecchi delle masse come una mosca schizzata ed in ritardo, e lo vogliono fare con il nuovo lavoro che prende il nome di “Dub Egg”; loro sono i The Young, texani e guidati da Hans Zimmermann, ex punk e psicotropo individuo dedito alla ricerca della lisergia – non è dato sapere se su se stesso oppure nelle consuete forme da laboratorio - ma che comunque sballa e fa sballare chi si concentra su queste tracce o meglio su queste “strade asfaltate di acidi a pois” per tutta le loro durata vitale ed energetica al contrario.

Uno strano concentrato emolliente di White Stripes al rallentatore, gli anni settanta e relative, coda e reprise degli sfuocati sound californiani e gli anni novanta della poesia ionosferica dei Smashing Pumpkins e Flaming Lips, quella a cento metri sopra le visioni, una buona mixture di teste tra le nuvole e Hoffmann a go-go che circola indisturbata per tutta la circonferenza dell’album e che tira ad un ascolto sognante e dolcemente drogato; immaginate di rinchiudervi in una soffitta, di chiamare un pò di amici e di noleggiare una vecchia e polverosa strumentazione, anche poco accordata, vedrete che con questo “spirito” l’ascolto di Dub Egg vi si conficcherà sottopelle come un microchip del tempo a ridosso delle Farm dei Grateful Dead et similia.

Dunque rock psichedelico, pennellate accennate country e tutta quella baldoria thcizzata frikkettona che conduce felicemente a galleggiare inerti in passioni firmate da visioni strepitose, quelle orme già calpestate da inossidabili Crazy HorseOnly way out”, “Numb”, “The mirage”, il Jack White che si palesa allucinato in “Livin’ free” o i Silversun Pickups che sbattono le chiappe in “White cloud” ricordando Jerry Garcia in stato di grazia maxima; è un sentimento sonoro intatto quello di questi quattro di Austin special modo in quella reincarnazione di Billy Corgan che nella finale ballatona elettrica mette un sigillo di garanzia virtuale a tutto il prodotto “Talking to rose”.

 Da amare come una lettera inattesa da un deserto qualsiasi.


Voto:  ◆◆◆◆
Label: Matador 2012


martedì 17 luglio 2012

Fiona Apple - The Idler Wheel... (Recensione)

Torna con un album dal titolo lunghissimo e senza senso la contorta cantautrice Fiona Apple, che dà adito ai più spulciosi, abituati a ricercare ogni significato delle sue produzioni artistiche nel suo passato tormentato del quale ormai si è sparlato già abbastanza. 
Questo quarto album "The Idler Wheel..." dovrebbe sgomberare il campo da allusioni verso una vita difficile e invece ci troviamo immersi ancora in un mondo astratto e calamitato verso l'oblio autobiografico. C'è stata una lenta evoluzione artistica, dal disco d'esordio "Tidal" del '96, anno in cui raggiunge una grande popolarità, seguita da una fama inaspettata con il brano Criminal e poi un graduale declino creativo con produzioni uscite a distanza di molti anni. Sulle sue spalle c'è un peso notevole, la sensazione è quella di una cantautrice che vuole trovare una sorta di pace, con una voce gracchiante in cui canta: "Leave me alone, leave me alone" nel brano "Regret". Resta il fatto che le sue sono delle eccellenti canzoni, che in questo caso escono definitivamente dall'orbita commerciale, sin dal singolo che apre l'album "Every Single Night" eseguita con glockenspiel, piano e percussioni. "Daredevil" è un incrocio tra i The Dresden Dolls e Björk, in cui pare di ascoltare un personaggio con un portamento vigoroso che si conferma anche nella terza traccia "Valentine". Si prosegue con "Jonathan" uno dei pezzi più intensi, con un andamento decadente, a metà strada tra lo stile jazzistico e il cabaret macabro. "Left Alone" si apre con le percussioni che introducono un mood dark con accordi di pianoforte a tratti vicino al cabaret tedesco, una sorpresa dietro l'altra che ci fa dimenticare della scarsa prolificità dell'artista che in quest'album riesce ad incantare mostrando le proprie abilità compositive. Con il brano "Werewolf" l'album ha una battuta d'arresto, di sicuro voluta, in cui canta: "Nothing wrong when a song ends in a minor key", mentre la successiva "Periphery" è il brano che ci evita di sbadigliare per poi spingerci verso un barlume di sperimentazione dove l'artista statunitense tra ritmi minimali e accordi di piano melanconici riesce a costruirsi una personalità d'acciaio.
Il penultimo brano "
Anything We Want" è uno dei brani più riusciti tra i dieci che compongono l'album, dove troviamo cliché di strumenti quali djambe, darboucka e conagas e tappeti di percussioni esotiche con i quali si va verso la fine con il brano "Hot Knife", tra ritmi e voci in loop che si ripetono fino alla chiusura di un disco decisamente ispirato.

Il songwriting di Fiona Apple è arrivato a un livello sopraffino, consacrandosi definitivamente, con un disco solista astruso ma sotto mentite spoglie, capace di mettere d'accordo ancora - questa volta senza gossip attorno - i fan di vecchia data e i nuovi che arriveranno sicuramente.

Voto: ◆◆◆
Label: Epic Records

The Cribs - In The Belly Of The Brazen Bull (Recensione)

Tutto arriva e tutto passa, niente e nulla rimane appiccato per eterno se non qualche mitologia o santità inespressa, fatto è che i tre fratelloni Ryan e Gary Jarman dello Yorkshire, insieme a Ross alla batteria e Marr al basso, i The Cribs per il mondo rock, abbandonate le traiettorie lo-fi degli inizi, si allineano alla scuola di pensiero che “riprendersi i 90 è bello”, ed in quattro e quattr’otto – dopo un triennio di pseudo-autonomia - ribussano alla porta di Albini e si fanno riconfezionare dalla A alla Zeta tutto il guardaroba sonico sullo stile del rock indipendente Americano, appunto quello che nei novanta dettava legge al mondo intero e faceva sbavare orde di musicisti in erba (ops ma in fondo calza a pennello pure questa).

“In the belly of the brazen bull” – quarto album della loro discografia - nasce con quello spirito stazzonato ed arruffato, i Pavement come crocefissi da idolatrare ed i Dinosaur Jr. come fate da esorcizzare in benevolenza, e quelle cascate storte e distorte di chitarroni amplificati che fanno sound a manetta e che riportano i neuroni a quelle serate alternative, young wave e antagoniste agli indie-poser persistenti; un disco che si accaparra immediatamente la voglia di tornare indietro, di essere sound da massa, musica per “organi caldi” e sangue elettrico per palcoscenici festosi e festivalieri, ma anche con una voglia matta di prestarsi in qualche frangente alle gomitate interiori del brit-pop non come velleità di rivalsa bensì come un costante abbraccio virtuale tra continenti sonici, America ed Inghilterra.


Quello dei The Cribs continua ad essere in fondo un sodalizio col “forever young” che non vuole abbandonare il citazionismo di gruppo, ma è questo amore improvviso per gli anni Novanta che li fa girare con una energia e vitalità esemplare, sopra le proprie forze e mai sopra le righe, magari qua e la qualche esplicito riferimento strettamente marcato come i Weezer che ciondolano in “Jaded Youth”, ogni tanto passano, come una ronda blislacca, sensorialità alla Sonic Youth, il brit-pop accennato prima “Glitters like gold”, “Uptight”, “Like a gift giver” e quegli inni al pogo scatenato che da “Chi-town” mischiati poi alle coralità mid-punk di “Arena rock encore with full cast” riportano integri quei sogni di gloria, onnipotenza e sbornia di una generazione, quella post-durante e dopo il grande vaticinio del grunge, che non vuole azzittirsi e tantomeno morire nella storia.


Micidiale. Tanti ci trovano nella tracklist anche sentori di Japandroids, ma forse è quella sbornia che tarda a piegarsi in un sonno.


Voto: ◆◆◆◆
Label: Wichita/V2 2012


lunedì 16 luglio 2012

The Men - Open Your Heart (Recensione)

La voce di New York, in particolar modo quando si leva dalle strade di Brooklyn, in ambiti “Rock” assume una connotazione animale, istintiva.

Una timbrica definita dall’assenza di grazia e guidata dalle pulsioni più estreme, radicate in incubi che nascono e si nutrono di vita reale, decisamente lontano dalla fantasia. Un suono claustrofobico, pieno e abrasivo, ormai un marchio, una firma che garantisce alle band nate in quelle strade una sorta di silente riconoscimento scolpito nell’esasperazione della perversione più tangibile.

I The Men si formano nel 2008, nell’area di Brooklyn. Dopo una demo e qualche EP, l’esordio arriva nel 2010 con una self release, “Immaculada”, seguita da “Leave Home”, per la Sacred Bones Records, nel 2011. Il loro sound si costruisce attorno all’incontro tra Sonic Youth e picchi di nevrosi vocale che rimandano, a tratti, alla psicosi di David Yow.
Un connubio contaminato da venature punk rock tipiche dei The Stooges e sostenuto da una sezione ritmica ripetitiva che qualcuno ha forzatamente e frettolosamente ricondotto al post-punk. Definizioni, sostanzialmente futili, servite però ad avvicinare il gruppo alle lusinghe della critica, che definisce i The Men come “una delle band più intelligenti dell’ultimo decennio”. Bisogna riconoscere che i presupposti c’erano ed erano dei migliori.

La pressione delle aspettative, per una band, è un veleno diluito: non uccide, ma ne rivela spietatamente il carattere. Un antidoto necessario a capire se il talento supera le esigenze del mercato e delle etichette discografiche e se è talmente irriverente da ignorare l’obbligo non scritto del “continuum cadenzato” della produzione di “un disco per anno”.
Con Open Your Heart, rilasciato nel Marzo 2012, i The Men, in “media perfetta” da bravi scolaretti, giungono alla terza prova in studio e sono chiamati davanti a un banco di prova fondamentale: devono mostrare al mondo d’esser degni di portare in giro su territori sonori cosi aspri e duri come le strade di New York, un nome così pretenzioso. Il primo solco del disco è "Turn It Around". La traccia spiazza completamente e fin dalle prime note; s’apre con un riff assai poco ispirato, come fossero i primi Foo Fighters alle prese con un brano dei The Stooges. Purtroppo è sufficiente qualche istante perché Iggy Pop ceda definitivamente il passo alla band di Dave Grohl e come se non fosse abbastanza, il brano prosegue, letteralmente, con "Animal"; figura melodica identica, leggermente inasprito nella parte vocale e con l’aggiunta di un coro femminile che vuol conferire, o almeno tenta, una connotazione quasi ironica al titolo. La povertà dei contenuti e la mancanza di originalità prendono il posto di nevrosi e urgenza creativa che trasparivano prepotentemente dai primi due dischi. I brani di Open Your Heart, pare vadano ascoltati a coppie e così arriva il binomio "Country Song / Oscillation". In completa contrapposizione stilistica con le prime due tracce [la sensazione è realmente quella di aver cambiato disco], "Country Song" è un intermezzo che percorre quella triste strada chiusa chiamata “Via dell’Inutilità”. Priva del trasporto e dei contenuti emotivi necessari a un brano strumentale, scorre anonima e potrebbe trovarsi su un qualsiasi titolo degli ultimi Pearl Jam, non esattamente un modello da seguire. "Oscillation" invece vive di due momenti: da brano pressoché perfetto per la soundtrack di un “Bay Watch col senno di poi”, nonostante qualche illuminato abbia gridato al “surf punk”, si trasforma in una sorta di pop rumoroso degno delle peggiori release “indie” della Rough Trade. Il disco prosegue mestamente su questa falsa riga: "Please Don’t Go Away" ricalca in modo preoccupante l’esordio dei Male Bonding, è un fastidioso noisy pop adolescenziale. La title track e la successiva "Candy", acustica, scorrono ovattate quanto anonime e "Cube", invece, arriva per virare nuovamente verso suoni di matrice più rock e interessanti, tuttavia restando nella mediocrità assoluta. "Presence" è esattamente ciò che il titolo suggerisce una “presenza” meramente riempitiva. Ascoltando brani così viene da chiedersi se i The Men avessero un obbligo contrattuale sulla durata minima dell’album. Siamo finalmente all’ultimo solco, "Ex-Dreams" che, più di ambire ad essere la sigla di Buffy in chiave moderna, non può.

Un disco deludente, registrato senza coerenza sonora, che non offende e non colpisce, ma inonda con uno tsunami di educato e pericolosamente eterogeneo piattume, il buon lavoro fin’ora portato avanti dal gruppo. Prova fallita e forse “The boys” sarebbe un nome più appropriato, almeno al momento...

Voto: ◆◇◇◇◇
Label: Sacred Bones




venerdì 13 luglio 2012

Locomotif - Twimog (Recensione)


Da una band con un nome del genere ci si aspetterebbero fuoco, fiamme e vapori ustionanti. Oltretutto i Locomotif sono di Catania, città di gloriose prove musicali più che fragorose; quindi, per istinto, uno li collocherebbe nel filone/cliché “rumorosi viscerali del Sud”. E invece ecco un gruppo che fa musica che scivola sulla pelle e avvolge i fianchi come una doccia fresca, debuttando con un album di pop flessuoso e discreto. 

Voce cristallina – quella di Federica Faranda nello specifico, accompagnata da Carmine Ruffino, Gianluca Ricceri e Luca Barchitta – e niente chitarra, elettronica chillout con striature jazzy e campanelle, il quartetto siciliano affida ai testi in lingua inglese di dieci degli undici pezzi di "Twimog" l'outlook decisamente extra-italico del progetto. Unico brano in italiano è una versione in chiave onirica di Amare inutilmente, che alleggerisce la struggevolezza dell'originale di Gino Paoli. 

This World Is Made of Glass – ecco cosa si nasconde dietro il curioso titolo dell'album: un acronimo che rimanda alla trasparenza del vetro, piuttosto che all'ineffabilità di ciò che sta dietro il mondo dei Locomotif e le atmosfere rarefatte delle loro canzoni. "Twimog" è un esordio che si piega al nostro orecchio sussurrando armonie che posseggono la dolcezza di un carillon, e allo stesso tempo è un lavoro che sta bene attento a serbare il fascino delle cose non spiegate interamente. Tutto sta a capire se e quanto ci sarà ancora di nascosto e prezioso da condividere, in futuro.

Voto: ◆◆◆◇◇
Label: IRMA Records

giovedì 12 luglio 2012

The Suricates - Demostrazione (Recensione)

E poi alle 14:10 di un afoso pomeriggio ti capitano loro, e sinceramente non sarebbe potuto passare di meglio nel lettore per rinfrescare le idee.
Musica che ti fa pensare che se non li hai notati finora è solo perché erano impegnati a maturare nelle loro sperimentazioni.
The Suricates nati nel 2009 ed attivi con il loro post- rock sperimentale dal 2010, sono di sicuro uno di quei gruppi abili nel farti sentire come su di una giostra o una macchina strizza fegato, una di quelle capaci di far venire a galla ogni tipo di sensazione, dall’ incosciente calma prima della partenza, attraversando “adrenalinicamente “ impulsiva rabbia ed euforica eccitazione, alla finale soddisfazione che ti fa venire di sicuro voglia di ricominciare il tutto dall’inizio.

Ed è dunque dall’inizio che partirò, con “AlDiLàDellaPeriferiaUrbanaCèlUniverso”, pezzo che veste alla perfezione la descrizione appena fatta per il quintetto teatino, un intro corale che si sviluppa attraverso la giusta tessitura di voci riverberate vicine e lontane, batteria, chitarre ed effetti che con la loro estrema pacatezza, ci preparano a ciò che ci aspetta, quello che impulsivamente partirà con un giro di basso e batteria e che con l’originale voce di Alessandro Cicchitti ci fa quasi arrivare alla fine, quasi perché come ogni giro di giostra che si rispetti c’è sempre il finale in lenta ripresa, quello in cui ti rilassi per riflettere su quanto accaduto.

Seconda traccia “New Island”, puramente strumentale durante la quale non è permesso star fermi, in cui tutto ciò che si evince è di sicuro la maturazione della band, maturazione passata anche attraverso le premiazioni, che ora diremo più che meritate, fra tutte il primo posto alla terza edizione 2011 del Suoni Mo'Desti di Guardiagrele.


A chiudere questa (purtroppo piccola) esplorazione è “Spam”, ballad che riesce a portarci in posti incantati, accompagnati da penetranti ed intensi suoni, quelli che il quintetto dimostra di ricreare con l’abile uso di chitarra (Filippo Maria Di Nardo - Daniele Paolucci), batteria (Vincenzo Vik Di Santo) e basso (Armando Lotti), senza dimenticare la duttile voce di Mr. Cicchitti.
E se non ne avete ancora abbastanza, l’unico consiglio che possiamo darvi è “chiudere gli occhi e lasciarvi portare nella loro terra…” e credo ne valga davvero la pena.

Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Lanciano Lab

mercoledì 11 luglio 2012

El Matador Alegre - S/T (Recensione)

Disco veramente strano questo di El Matador Alegre, un percorso che si agita e mette in agitazione sebbene la calma sia la prerogativa impregnante, un insieme di significati e supremazie poetiche affumicate al fuoco di una esistenzialità non nascosta, tracce che sospirano, languono e riflettono quel senso espanso di - sostanzialmente – solitudine ed affanno dentro, ma che si snodano con lo strascico della bellezza nebbiosa, zigrinata.


Cantautorato, elettronica, loop concupiscenti ed elaborazioni minimaliste che vanno delicatamente ad intasare la coclea con i loro rivoli rarefatti, senza clamore amplificato ma che fanno comunque una sublime pressione che imprigiona testa-cuore e stomaco, atmosfere che l’artista EMA manipola col potere dell’illusione e della limpidità esecutiva; dodici tracce che – da come è dato leggere sul bugiardino – traggono spunto dalla scena grunge dei Novanta Seattleiani, ma onestamente non credo che il lancinante olimpo di quegli anni si possa riscontrare in questa tracklist, magari per l’ossessione o il delirio di qualche passaggio “You’re the sea I’m in”, nella espressività delirante di dolcezza “Moths” o nelle retrospettiche visioni in grigio di “Lemongrass”, per il resto è uno spettacolo uditivo che non tralascia nulla che possa essere deteriorato da un ascolto frettoloso o distratto, tantomeno la sua propulsiva attrazione a rimanere in circolo – dopo la sua oretta circa di vita sullo stereo – per molto altro tempo ancora.


L’artista oltre che ha “scandire” questi stati impalpabili sonori, diffonde intorno anche una forte percezione di landscapes immaginari che sviluppano retrovie oniriche che sono anche il fondamento di un non convenzionale chillout mnemonico, ci sono punte in questo disco che se si incanalano le melodie di “July”, l’elettricità domata di “New year” o la sobillazione istintiva che vibra dentro “One day left”, se ne esce con l’anima riclicata, pronta a riprendersi un corpo che – per tutta la durata di questa eccellenza sonora – non vuole rientrare affatto.


Grande roba da casa Cabezon!


Voto:  ◆◆◆
Label: Cabezon 2012


martedì 10 luglio 2012

Do Nascimiento, Gazebo Penguins & Verme - "Splittone Paura" (Recensione)


Do Nascimiento - Gazebo Penguins - Verme.
Verme - Gazebo Penguins - Do Nascimiento. 
Lo schema di "Splittone Paura" è una staffetta andata e ritorno in cui le band si passano il testimone arrivando a fine corsa esattamente come siamo abituati a ricordarceli: vincenti e sudati.
Dopo che lo lo scorso giugno ci avevano fatto sbirciare nel loro magazzino di emozioni nascoste tra "cucchiaini", "ventilatori", "biciclette" e "materassi", i Do Nascimiento tornano con il delicato compito di aprire e chiudere lo "Splittone Paura", gloriosa co-produzione a quattro tra To Lose La Track,Two Two Cats, Que Suerte! e Neat is Murder. La partenza è affidata a "Tombino", due minuti e mezzo a ingoiar marcio, tra malinconia e sentimenti calpestati. In un attimo tocca ai Gazebo Penguins che non si lasciano sfuggire l'occasione di farci tornare alla mente il titolo del loro secondo album, "Legna"; "Pugile", infatti, è una sberla sonora al passo con quanto pubblicato negli ultimi anni (compreso il recente split con I Cani "I Cani non sono i Pinguini") che introduce l'ascoltatore al giro di boa, tutto a stampo Verme. I quattro emo novantottini ci salutano definitivamente con "Lo Squallore Del Tonno" e "L'inutilità Del Panorama" degna chiusura di due anni e mezzo di singalong, sudore ed abbracci sottopalco. Il mix tra l'energia del suonato e l'amarezza dei testi non manca, come non mancano, al solito, le gag. La strada a ritroso ci fa rincontrare i Gazebo Penguins con la quadrata "Renato A.T." seguita da "Amplificatore" dei Do Nascimiento, che chiude lo splittone con lo stesso cuore già presente in apertura.
In conclusione, "Splittone Paura" si rivela con sincerità fin dal titolo, pauroso per qualità e per spirito.
L'unica "paura" amara che resta è quella di non vedere più i Verme sul palco. Loro dicono che è giusto così, noi ci siamo sempre fidati e, con "il cuore in culo", cercheremo di farlo anche questa volta. 


Label: To Lose La Track/Two Two Cats/Que Suerte!/Neat is Murder
Voto: ◆◆◆◆◆

Lo "Splittone Paura" lo scarichi gratuitamente QUI
Esiste anche una bellissima versione in vinile e acquistandola donerai dei soldi a tutti quei bei ragazzoni. Hai idea delle cose che si possono fare con i tuoi soldi? No, non ce l'hai. Grazie.



lunedì 9 luglio 2012

A Place To Bury Strangers - Worship (Recensione)


Oliver Ackermann, leader degli A Place To Bury Strangers, disse un giorno che le dolorose istantanee della vita servono eccome, servono per solidificarsi nella vita e fondare un proprio mondo sicuro, dove certezze, conferme e qualità siano le forze in mutazione per restare continuamente in asse con sé stessi. A sentire questo “Worship”, terzo lavoro della formazione Newyorkese, mai parole furono più azzeccate, tutto si ritrova in queste tracce – come del resto già il precedente e fenomenale Exploding Head aveva anticipato – e l’ancoramento sugli stilemi wavers, con una accentuata oscurità Curtisiana, si fa avanti in uno splendore ossessivo quanto ansioso.


Non c’è più Jono Mofo al basso, sostituito da Dion Lunadon, rimane alle pelli lo scattante Jay Space ed una nuova creatività che spazia lungo le undici tracce, tracce che si allontanano – e di molto – dai rumorismi alla Sonic Youth per abbracciare un poco di più le ecchimosi rimarginate di Jesus & Mary Chain, deviazione che rende il groove oltre che di una grammatura sintetica anche orecchiabile: dunque una svolta quasi totale, ovviamente mettendo in salvo le irrinunciabili polle di rumore bianco e quell’aria sickness che oramai fa parte della morfologia umana ed artistica degli anni Ottanta.


Canzoni come sinfonie mesmeriche elettrizzate, progressioni fenomenali di chitarre ed una omogeneità compositiva che danno un fulgore “estraneo” estremamente sincero, una fuga dalle pene terrene - a tratti autodistruttiva – che si calibra tra feedback, latrati electro wave, un continuo combattere tra suoni analogici e pulsazioni di drum machine che – assunte come battitrici digitali di una certa nostalgia alle spalle – danno il loro massimo dall’inizio alla fine di questo buon album; ottima la destabilizzazione onirica di “Fear”, lo strazio poetico punteggiante “Why I can’t cry anymore”, l’isolotto che galleggia nella calma “Slide” come l’epilessia aliena che rimbomba tra le pareti di “Mind control” o la botta finale noise che “Leaving Tomorrow” vuole esibire prima di riportare il disco al capolinea e ritemprarlo per un altro girovagare nel mediatico.


Il trio della Big Apple ci sa fare, si riconferma alla grande e regala – a tutti quei indistruttibili amanti degli anni Ottanta – uno spirito di desiderio ed un pezzetto di cielo come sempre, magnificamente nuvoloso.


Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Dead Oceans







Max Sannella

venerdì 6 luglio 2012

M+A - Things. Yes (Recensione)


In tv davano i mondiali. Era l'estate del '98 e a me, insolitamente, non importava un granché del calcio.
In quelle due settimane estive la riviera romagnola avrebbe rivelato a me e Paolo la meraviglia di pattini in linea, ragazze e Ramones; il pensiero, a qualche lustro di distanza, è ormai sbiadito nelle immagini, ovattato nei suoni, ma ancora dolcemente limpido nelle sensazioni.
"Things.yes" va dritto a solleticare quelle emozioni, candidandosi come la giusta colonna sonora di un’estate sognante e malinconica, ornata di pensieri intricati ed adolescenziali. 
Michele Ducci e Alessandro Degli Angioli, più semplicemente ribattezzatisi M+A, hanno la fresca spensieratezza di chi sa raccontare il fermento giovanile con il dolce linguaggio della suggestione musicale utilizzando, un po' per necessità un po' per scelta, la morbidezza dell'elettronica minimale mista al piglio catchy tipico del pop.
Se "Yeloww" e "Bam" (vera punta di diamante dell'album) lasciano trasparire un approccio nordico alle melodie vocali e alla composizione guarnita da fiati e glockenspiel (vedi Jonsi), il resto del disco non nasconde la passione del duo per i campionamenti e la pratica del taglia/incolla, che svolgono senza paura in "Liko Lene Lisa" (in cui compare anche un'azzeccatissima tromba), "Bergen.jpg" e "Adidias", alternandola a momenti più dilatati e sospesi (come nella conclusiva "Ly"). E se ogni tanto i campioni non sono perfettamente limpidi o se dal fondo delle cuffie emerge uno starnuto, poco ci importa: il risultato finale è notevole anche grazie a questo, pregevolmente di gusto e degno di essere accostato a musicisti affini e noti nella scena, da Gold Panda a Tycho per la delicatezza, passando per Kim Hiorthøy, al quale i due pare debbano davvero molto, soprattutto per gusto nelle scelte timbriche.
Se "Things.yes" fosse arrivato con quindici anni di anticipo sarebbe stata la colonna sonora perfetta per il ritorno a casa: stravaccato dietro il sedile di papà, occhi fissi sul rapido alternarsi dei campi ai lati dell'A1 e il dolce pensiero estivo di Carlotta, un dolce destinato a sbiadire, tra sabbia e ombrelloni in progressivo allontanamento, tra malinconia e innocenti sentimentalismi adolescenziali.
Ma il disco è qui, ora, e io ormai ho già dato da un pezzo. Sotto a chi tocca.



Voto: ◆◆◆◆◇
Label: Monotreme Records

mercoledì 4 luglio 2012

Vanz - Avenge The Surfers (Recensione)


C’è poco da girarci intorno, in tutti questi anni poco è cambiato in casa Punk come filosofia musicale, e per addentrarci tra le band nostrane che ne prolificano la razza, anche in casa Vanz poco è cambiato e questa è cosa buona e giusta. Da un abbozzo egregissimo di Ep al disco ufficiale della carriera il salto è poco, “Avenge The Surfers” arriva per fissare nell’immaginario collettivo la volumetria sonica ed espressiva di una band che mastica punk-surfing come una materia da sbranare con gli occhi dolci sempre lì, imperterriti sulle coordinate Californiane, tra street affollate e oceani di energie scapigliate.


La band grossetana è una di quelle “indestructible”, smuove un punk rock anthemico e stradaiolo che prende a braccetto due famosi Armstrong “del settore”, ovvero Tim Armstrong dei Rancid e il piccoletto Armstrong dei Green Day, quattordici tracce al fulmicotone settantasettine, barricadere ma col cuore grande come una stella, tracce che sentite e risentite – per energia e immediatezza – nulla hanno da invidiare a capolavori alternativi di quell’epoca, magari togliendo certe necessità e prese di posizioni politiche, ma lo spirito è intatto e straordinariamente “fratello” agli impatti che impattarono la “meglio gioventù sonica” della storia; inno al pogo e iper-pomiciante per rude boys & girls nel WE, l’album consolida il range ispirante che i Vanz fanno circolare a manetta tra amplificatori e pedaliere sotto tensione, chitarre tese e moccoli di candele accese per ballate decapottabili “Keep falling”, “Party crasher”, “Sandy”, strani Silverchair che fanno cucù in “Silver coast” e nella titletrack, tutto quello che poi ciondola nella canicola di distorsori è un fuoco di stage-diving, da “Endless summer”, “Bloody bagus” a “Stay still” è un maremoto di stimolazioni nervose da cardiopalma a schizzo.


Una conferma in gran forma questa dei Vanz, elettrici figli riconosciuti e titolati eredi di un punkyes che tutt’ora prende atto della sua invulnerabilità per secoli e seculorum. Disco non da avere, da pretendere a voi stessi!    


Voto: ◆◆◆◆◇

Label: Elevator Records 2012









martedì 3 luglio 2012

The Marigold - Let The Sun Ep (Recensione)

Lasciate che il sole faccia il suo - dovere - in questi giorni, ma lasciate che il tutto sia accompagnato da una colonna sonora degna del suggestivo periodo tanto atteso.
Quattro tracce, tre live ed un inedito per l'ultima prova  targata The Marigold, ventisette minuti circa immersi in una suggestiva atmosfera, durante la quale tutto ci sembrerà fermo come se fossimo in apnea nell’attesa del piacevole respiro che ci riporterà in superficie.
Ad aprire l’inedito “Let the sun”, che vede protagonista non solo la sinergica intesa delle voci del frontman Marco Campitelli ed Alessandra Gismondi dei Pitch, ma anche la magica unione dell’anima shoegaze ad un finale ispirato new wave.
Seconda, ma prima delle tre tracce live è “Degrees” articolata in due parti, nella prima ci ritroveremo in un’atmosfera quasi onirica, tra riverberi e vibrati di chitarra che ci invitano a dimenticare, nella seconda invece saremo proiettati di sicuro in una dimensione molto più concreta, in cui la batteria iniziale quasi ci sveglia a mo di monito a stare attenti a ciò che si ricorda.
Terza traccia scelta dal live di Teramo del Luglio 2011 è “Exemple the violence”, che con il suo francese di sicuro stupirà non pochi, il suo tono noise affinerà il messaggio del testo (l’indifferenza può essere più violenta di un singolo gesto), e di sicuro anche qui come in Degrees resteremo per un po’ intrappolati in un pacato intro per poi esplodere in un finale in cui si lascia spazio a batteria e synth.
A chiudere questo breve ma intensissimo viaggio introspettivo, c’è “Erotomania” otto minuti in cui ci sarà tutto il loro sound, con le loro dissonanze, percussioni e synth, una traccia o quasi una seduta psicanalitica durante la quale a tutti toccherà svegliarsi (tra la voce di Marco che fa capolino di tanto in tanto), dall’illusione di essere amati, perché se già il titolo ad alcuni di voi sembrerà quasi una di quelle parole da ripetere dopo una sbronza per vincere una scommessa con un amico, in realtà l’erotomania è una scommessa da vincere con sè stessi almeno una volta nella vita (tranquilli il più delle volte non si è mai da ricovero).
The Marigold nati in Abruzzo nel 1998, tre album all’attivo, una ristampa con inedito, una cover di fresca uscita e con un futuro che di sicuro brillerà proprio come il loro “ sole che noi amiamo seguire “…

 Voto: ◆◆◆
 Label : DeAmbula Records /Acid Cobra Records




lunedì 2 luglio 2012

Area765 - Volume Uno (Recensione)


I romani Area765 – già Ratti della Sabina – se ne escono con questo “Volume Uno” , un sette piste che avrebbe la maturità e la corrente giusta per “fare bene dell’altro”, e con tutto il carisma dovuto a questa formazione d’antan, l’ambizione di suonare diverso dai mille gruppuscoli old style che animano e sfibrano il nostro Stivale latita e ci si ritrova ad ascoltare buon pop rock - anche impegnato su certi versi – ma nulla di più, solo buon pop rock di quello già in dotazione a Nomadi, Massimo Priviero, Stadio ed altri eroi della rassicurazione messa in note.


C’è un’aria tra la tracklist che suona vintage ma non nell’accezione del termine, bensì quel suono fermo a decadi fa, e non c’è da stupirsi considerare questo lavoro come una avventura che vive il giusto tempo di qualche ascolto per poi dileguarsi nell’anonimato totale, uno di quei prodotti che passano come un treno e dei quali non si saprà più nulla se ripasseranno o meno, del resto in una giungla sonora come la nostra se non si crea un suono specifico ci si traduce in “calcomania” di un qualcosa già esistente, come i gruppi sopracitati.


Gli Area765 hanno mestiere sulle mani, si sente, ma dovrebbero – se dicono di essere in una fase evolutiva – fare un bel passo, o meglio, una gran falcata in avanti e rivedere le staticità stilistiche che li strangolano su vecchi stilemi, vecchi fraseggi e schitarrate rock che oramai appartengono al secolo scorso, buone le liriche e i messaggi inclusi, ma non bastano buone poesie per fare un amore; si prova nostalgia per il folk che sulla base della vecchia formazione nutriva una simpatica verve verso ascolti interessati, ma ora ci si trova in mezzo ad un guado, e ritrovare quella buona aurea casareccia è un miraggio, ma ognuno fa le sue scelte ci mancherebbe.


Se con “Galleggiare” si ha un poco di speranza che qualcosa cambi, poi con il tremendo “avvicinamento” alle fisime di Fabrizio MoroSpesso piove” tutto viene rimesso in dubbio. E nel mezzo? Non pervenuto.



Voto: ◆◆◇

Label: MarteLabel









Max Sannella

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